*English Text
Schietto, molto alto e con una parlata quieta. Queste sono le prime tre cose che si notano quando si parla con Jeff Lemire. L’autore di Essex Country, Descender, Niente da perdere, Sweet Tooth e tante produzioni supereroistiche degli ultimi sette anni, è uno dei più prolifici autori sul mercato statunitense: i suoi servigi sono richiesti da Marvel, DC, Image, Dark Horse, Valiant, Top Shelf, Simon & Schuster, la televisione pubblica canadese e l’industria musicale.
Le sue storie raccontano il Canada (la sua terra natìa), l’infanzia passata tra le fattorie e l’hockey, i rapporti famigliari e gli affetti, quasi sempre tinti di un velo introspettivo e denso di emotività. Visto che Lemire è stato ospite di Bao Publishing in occasione della scorsa Lucca Comics and Games, abbiamo avuto l’occasione di parlare con lui del suo mestiere e dei suoi processi creativi.
Leggi anche: Jeff Lemire non si fermerà mai
Produci davvero tanti fumetti. Come gestisci il tuo tempo?
Passo la settimana in studio a disegnare. Disegno una serie mensile, che mi porta via molto più tempo della scrittura, quindi le mie giornate sono riempite dal disegno. E poi alla sera scrivo le sceneggiature. Per un paio d’ore, ogni sera, lavoro sulle storie e in questo modo riesco a produrre circa cinque albi al mese, più quello che disegno.
È un sacco di lavoro.
Lo è, ma amo quello che faccio, è la mia passione. E mi sembra che avere così tanti progetti di genere diverso mi permetta di mantenermi fresco. Se facessi una cosa sola mi annoierei. Poter scrivere Descender e poi altre cose non mi consuma perché sono tutte cose diverse. Tendo a lavorare su progetti diversi l’uno dall’altro. Quando si tratta di Descender o Royal City è solo questione di rimettermi con la testa in quel mondo e poi è quello stesso mondo a raccontarmi la storia. Non devo mai forzare nulla.
Però ci sono cose che devono uscire per forza, come le serie Marvel o DC. È difficile scrivere a comando?
Be’, per esempio, passo un mese intero a lavorare solo sugli X-Men, nient’altro. Riesco a scrivere tre o quattro numeri degli X-Men e poi lascio la serie da parte per un paio di mesi, finché non torna l’ispirazione. In questo modo non devo scrivere a comando, come dici tu, o sforzarmi di essere ispirato. Mi metto avanti abbastanza, in modo da poter scrivere qualcosa solo quando mi va di farlo o ne sono entusiasta o mi viene una nuova idea.
Giocare d’anticipo mi permette il lusso di lavorare solo quando ne ho voglia. Quasi sempre. Ogni tanto magari capita una scadenza e devo scrivere per forza, ma di solito mi metto avanti per poter lavorare con i miei ritmi.
E com’è lavorare con delle scadenze?
Terribile. Cerco di non infilarmi mai in quella situazione. Sono bravo a gestire il mio tempo, quindi… Onestamente, non riesco a pensare quando è stata l’ultima volta che ho dovuto scrivere per rispettare una consegna. Mi tengo tre o quattro mesi di vantaggio proprio perché odio quella sensazione. Non voglio permettermi di riprovarla.
Scrivere Niente da perdere è come scrivere gli X-Men?
Cerco di approcciarmi allo stesso modo. Quello che rende il mio lavoro alla Marvel positivo è cercare di portare me stesso nelle serie che scrivo come faccio con i lavori creator-owned. Odio separare le due cose, perché così inizio a creare fumetti che sembrano artificiali. Poi, certo, sono cose diverse, sulle mie serie ho più libertà, porto la storia dove voglio, non devo avere l’approvazione di nessuno. E quella libertà mi dà anche più sicurezza in me stesso.
I supereroi ti danno lo stesso tipo di piacere, quindi?
Guarda, sono cresciuto leggendo supereroi e li adoro. Ero davvero entusiasta di scrivere per Marvel e DC, nei primi anni in cui l’ho fatto. Di recente mi sono sentito consumato, penso che lascerò il genere per concentrarmi sui miei progetti personali.
E poi comunque le storie di supereroi che voglio raccontare troveranno spazio in Black Hammer, che è il mio personale universo supereroistico. Sono in un momento fortunato, posso permettermi una pausa da quel mondo. È stato divertente per un po’ di anni, ma adesso è più simile a un lavoro, e questo non mi piace.
È stata una decisione presa d’istinto o maturata col tempo?
Non si fa mai nulla d’istinto. È stata una decisione che ha preso forma nell’ultimo anno, più o meno. Sentivo che non era più il posto per me. Avevo fatto le cose che volevo fare, ormai. Sto scrivendo un paio di progetti per la DC ora, ma sono piccole cose secondarie ed eccentriche. Non so se vorrò mai fare titoli di punta come Batman o Superman, non sento più attaccamento nei loro confronti. Idealmente, tra un anno, farò solo le mie cose.
Per sempre?
Forse ho solo bisogno di una pausa, perché ho davvero lavorato molto. Ho iniziato a scrivere per la DC nel 2010 e negli ultimi sette anni ho scritto di supereroi. Mi hanno stancato. Mi prenderò i prossimi due anni per i progetti personali e vedremo come va. Magari me ne innamorerò e non vorrò più fare altro, ma a me i supereroi piacciono, quindi forse ho solo bisogno di un paio d’anni di pausa.
Mi domando come facciano certi autori, allora, che li scrivono da una vita.
Non lo so, se scrivessi solo per Marvel e DC mi stancherei prestissimo, non vorrei più fare fumetti, perché sono tutti troppo simili. Non avrei abbastanza libertà per raccontare le mie storie o le storie che volevo raccontare quando ho iniziato a fare fumetti. Vorrei tornare a scrivere e disegnare quel tipo di racconti.
Ti sentivi costretto dai troppi paletti? O eri tu a censurarti in maniera preventiva?
Entrambe le cose. Poi, sai, dipende dai progetti. In certi lavori come Moon Knight avevo libertà totale, non ho mai ricevuto suggerimenti, e credo che si veda: è il mio miglior lavoro.
Pensi sia la miglior cosa prodotta da te, per la Marvel?
Di sicuro. Invece i lavori per gli X-Men sono stati… un incubo, a essere sinceri. È stato difficile, ho iniziato a lavorare e c’erano già delle trame pronte che dovevo usare e che non avrei mai scritto, fosse stato per me. Gli editor erano davvero limitanti e rigorosi in quello che volevano. E c’erano troppe modifiche da fare.
Allora ho iniziato a dubitare di me e ad avere continui ripensamenti. Non era una bella situazione. D’altra parte, Moon Knight è stato uno spasso. Dipende dagli editor che incontri, dal progetto e dal personaggio. A volte è davvero limitante e finisci, come hai detto tu, per censurarti da solo, non sei più sicuro delle tue idee. «Gli piacerà questo? E quest’altro?». È una sensazione che non esiste nei fumetti creator-owned.
Pensi mai al tuo posizionamento nel panorama fumettistico?
No, sono troppo concentrato sul mio prossimo progetto o sul fumetto su cui sto lavorando. So che i miei lavori vendono abbastanza bene da permettermi di continuare a fare quello che mi piace, ed è la cosa più importante. Mi sembra che certe cose che ho prodotto siano invecchiate bene. Essex Country è vivo ancora oggi, è gratificante. E so di avere una base di lettori forti.
Sono fortunato, posso fare cose fantascientifiche come Descender o drammatiche come Royal City e i lettori mi seguono da una cosa all’altra. Mi ritengo fortunato. Ma evito di pensare al contesto più grande.
Il tuo è uno stile peculiare, molto immediato. È immediato anche nella realizzazione o rifletti su ogni linea che tracci?
È buffo che i miei disegni sembrino davvero così spontanei, visto che passo molto tempo a lavorarci sopra e a rifletterci, molto più che sulla scrittura. La mia scrittura sì che è spontanea. [ride] Scrivo una sceneggiatura in qualche ora, è un flusso di coscienza. Mentre sui disegni passo molto tempo.
Come sei arrivato al tuo stile attuale?
Parte tutto dal fatto che cinque anni prima che pubblicassi il mio primo fumetto disegnavo tutti i giorni. E disegnavo fumetti orribili, andavo in ogni direzione possibile, tutte direzioni che non mi rispecchiavano. Ma questo è l’unico modo per scoprire te stesso: commettere errori e tornare indietro, essere dei buoni critici di se stessi e ammettere quando non si sta facendo qualcosa di onesto. Durante quegli anni ho sviluppato gradualmente uno stile che mi sembrava naturale.
I disegnatori che ammiravo erano espressivi, vedevo la loro personalità emergere dai disegni. Io non ho una sensibilità fotorealistica, non ne sono capace. Devi capire cosa sei bravo a fare, e nel mio caso era creare atmosfera ed emozioni. Inoltre, quando mi sono trasferito a Toronto, non conoscevo nessuno della scena fumettistica, mi trovavo in un vuoto. Forse il mio stile deriva da lì, cioè dal non essere influenzato da nessuno e dall’essere autodidatta.
In quei primi lavori, cosa cercavi?
All’epoca non conoscevo nessuno del settore, andavo per conto mio. Non ho frequentato scuole di fumetto, ma ho imparato facendo, cercando di capire che strumenti utilizzassero gli altri, perché anche solo quello cambiava il modo di disegnare. Mi ci volle un po’ per capire che pennelli usassero certi fumettisti, quali penne si potessero usare e quali no. Le mie prime cose erano davvero poco professionali. Non usavo pennelli, non sapevo fare i neri. Poi, quando sei giovane, ti innamori di qualche disegnatore e per un paio di mesi non fai altro che copiare il suo stile.
Tu chi copiavi?
In quel periodo, nei primi anni Duemila, ero ossessionato da Dave McKean, in particolare da Cages. Mi ispirava l’espressività e l’immediatezza della sua linea, ma cercavo inutilmente di essere come lui. Lui è un disegnatore più capace di me. Ho prodotto un sacco di brutte cose, copiando McKean.
Adesso pensi di aver trovato il tuo segno?
Ho il mio stile. Ognuno disegna nel modo in cui disegna. Piccoli aggiustamenti sono sempre possibili, così come sperimentare con altri mezzi. Negli ultimi due anni ho iniziato a colorare ad acquerello le mie tavole, per esempio.
E come ti sei trovato?
Lo adoro. Non penso che ne farò mai a meno, d’ora in poi. Aggiunge al disegno una profondità che prima non c’era. È divertente fare esperimenti, sto ancora imparando, sbagliando, aggiungendo e… seguendo il flusso.
Ti succede lo stesso con la scrittura? Hai imparato strada facendo?
Ho iniziato a scrivere solo per poter avere qualcosa da disegnare. Poi nel 2010 sono stato assunto per scrivere qualcosa che non avrei disegnato. È stata la prima volta e mi ci sono voluti un paio d’anni per capire che storie volessi raccontare con qualcun altro. Poi ho ottenuto l’incarico su Animal Man e quello è stato il momento in cui ho messo insieme tutti i pezzi.
Però cerco di non pensare troppo alla scrittura, cerco di non complicarla. Passo molto tempo a elaborare la trama, ma quando mi metto a scrivere mantengo una certa spontaneità.
Come per i tuoi disegni.
Sì, c’è quell’elemento comune. Penso che l’immediatezza sia una buona cosa. Specialmente con la scrittura, c’è il rischio di pensare troppo alle cose. Passi delle settimane su una scena o un dialogo e poi guardi la prima bozza e scopri che era buona tanto quanto l’ultima.
C’è stato un periodo in cui il tuo nome compariva su fumetti di molti editori diversi.
Sono stato in esclusiva con la DC per cinque anni e quando il mio contratto è scaduto ho voluto provare a lavorare con persone diverse. Mi sono messo in contatto – o loro si sono messi in contatto con me – con varie case editrici e all’improvviso mi sono ritrovato a scrivere per Dark Horse, Valiant, Marvel e Image. Ora ho smesso e lavoro quasi esclusivamente su progetti creator-owned.
Ogni casa editrice aveva i suoi pro e i suoi contro. Alla Valiant sono stati meravigliosi con me, in Image sapevo che avrei potuto contare solo su me stesso. Alla Dark Horse ho un editor bravissimo.
Tra le tante cose, hai anche realizzato il fumetto del concept album Secret Path di Gord Downie e il relativo adattamento a cartoni.
È stata un’esperienza incredibile. Gord è venuto da me con tutte le canzoni e poi mi ha lasciato fare il mio lavoro. Ogni due settimana guardavamo i progressi e mi faceva degli appunti se qualcosa non gli tornava. Abbiamo lavorato bene assieme, c’era una buona intesa. È stata dura quando ho saputo della sua scomparsa. Per quanto riguarda il cartone, non ho partecipato granché. Non ho interesse a fare animazione.
Non ti piacerebbe nemmeno dirigere?
Non molto. Di recente ho scritto una sceneggiatura cinematografica del mio fumetto Plutona, ma solo per divertimento. È stato bello perché si trattava di una mia storia. L’ho fatta per gli stessi produttori che stanno sviluppando Il saldatore subacqueo con Ryan Gosling. E sette mie opere sono in fase di sviluppo. Descender è forse quella che più probabilmente diventerà un film. C’è una sceneggiatura, c’è un regista. È italiano, tra l’altro.
Chi è?
Non te lo posso dire. Comunque, sì, anche Essex Country potrebbe diventare presto una serie tv, ma ancora non ci sono conferme ufficiali. In generale, non mi interesso molto a queste cose, non è che mi importi molto. I fumetti mi danno più libertà. L’unica ragione per cui farei altro sarebbe per soldi, e quella non è mai una buona ragione per fare qualcosa.
Non sembri molto trepidante che i tuoi fumetti diventino film.
Siamo onesti: quanti film vengono prodotti ogni anno e quanti di questi sono belli? Non molti, giusto? Quindi, per prima cosa, le possibilità che vengano realizzati sono basse e, secondo, le possibilità che vengano realizzati ed escano bene… sono prossime all’impossibilità.
Mi spezzerebbe il cuore se ne fossi troppo coinvolto. Se ne verrà fuori qualcosa di buono, benissimo. Ma non è una priorità. I fumetti sono la mia priorità. È tutto quello che voglio fare.