Robert Kirkman, il creatore di The Walking Dead, Invincible e Outcast, sta per arrivare per la prima volta in Italia, come ospite di punta a Lucca Comics and Games 2017, dall’1 al 5 novembre, in collaborazione con saldaPress.
Mi è sempre piaciuto pensare a Robert Kirkman come a una specie di Hank Scorpio senza la passione per i lanciafiamme. Nel mitico “Si trasloca solo due volte”, secondo episodio dell’ottava stagione dei Simpson, Homer veniva assunto da un sorridentissimo genio visionario con il pallino per la conquista del globo. Hank Scorpio, per l’appunto. Se non fosse stato per questa sua piccola ossessione, l’imprenditore avrebbe potuto incarnare alla perfezione lo stereotipo del tizio per cui nessuna impresa è abbastanza difficile per non essere affrontata con il sorriso sulle labbra. Uno dei luoghi comuni più amati dell’immaginario statunitense, come ci ricorda lo spot Apple con protagonista The Rock.
Anche nel momento in cui Homer confessava il suo ridicolo sogno di voler possedere i Dallas Cowboys, il nostro non faceva una piega e semplicemente spronava il suo neo-assunto a non mollare. A perseguire il suo traguardo a ogni costo. Una cosa un po’ campata in aria, proprio come pensare che un ex-wrestler sarebbe finito a guadagnare 64 milioni di dollari a film.
Con Kirkman è andata più o meno alla stessa maniera. Figlio di una casalinga e di un lattoniere, nato e cresciuto nel Kentucky, prima di sfondare nel mondo del fumetto nasconde ai genitori il suo nuovo progetto di vita e finge di lavorare ancora in una piccola ditta locale per un paio di anni. Nel frattempo scrive come un pazzo, proponendo idee e portando a casa i primi lavori per Marvel Comics. Accumula decine di migliaia di dollari di debiti per autoprodursi. Poi la svolta, l’esplosione di Invincible e The Walking Dead. L’ingresso come socio alla Image Comics. La televisione. I videogiochi. Una montagna di denaro e la voglia di ridefinire l’intera industria dell’intrattenimento statunitense.
Un percorso non certo facile, eppure Robert non ha mai perso la sua immagine di barbuto pacioso e sorridente. Il tipico tizio che potresti incontrare il sabato pomeriggio in fumetteria. Quando racconta delle sue prime esperienze in una writers’ room televisiva – non proprio uno degli ambienti più rilassanti che mi vengano in mente – pare raccontare di un doposcuola a due settimane della fine dell’anno accademico. «Praticamente me ne sto seduto in una stanza con sei altre persone che criticano il mio lavoro e cercano di migliorarlo. È davvero molto divertente», rivela all’Huffington Post. Quando gli raccontano che l’esordio della sua prima serie televisiva ha raccolto più di cinque milioni di spettatori – record assoluto per l’emittente che ci ha dato Madman e Breaking Bad – risponde con un «Figo… È una cosa buona? Non ho idea di quanta gente guardi la tv», dice invece a Rolling Stone.
Non ha problemi a notare come il successo dei suoi morti viventi sia uno specchio dei tempi che corrono: «La narrazione apocalittica finisce per attrarre spettatori quando questi hanno pensieri apocalittici. Con i problemi economici globali e tutto il resto, molte persone pensano ci si stia avviando verso tempi bui. Per quanto sia una cosa pessima per la società, io ne sto beneficiando parecchio». E ride. Personalmente, se con uno stato mentale così rilassato non riesco neppure ad affrontare la più tranquilla delle giornate lavorative, figurarsi gestire un impero multimilionario.
L’unica volta in cui Kirkman è apparso in pubblico in maniera davvero seria risale probabilmente al 2008. Nella seconda metà di luglio lo scrittore carica online un video in cui si rivolge direttamente ai suoi colleghi, declamando in maniera sentita quella che è un’autentica chiamata alle armi per la salvezza del futuro del fumetto. Il suo piano è semplice: licenziatevi dai vostri lavori sicuri per Marvel e DC Comics e cominciate a produrre roba vostra. Si tratta di un percorso incerto, ma se tutto va bene finirete per fare più soldi, lavorerete più volentieri, sfuggirete dalle spietate meccaniche aziendali che vogliono un solo scrittore del momento a fronte di un sacco di seconde linee, gestirete la vendita delle vostre licenze per altri media e acquisterete un sacco di credito per il vostro futuro. Per di più avrete messo in circolo un sacco di idee nuove, creato proprietà intellettuali da portare in libreria (o al cinema o in televisione o negli store delle varie piattaforme videoludiche) e creato un bel po’ di lavoro per tutto il settore. Senza per questo danneggiare personaggi ormai incastonati nell’immortalità.
Le reazioni si sprecano. C’è chi ci crede e chi invece non perde l’occasione per deriderlo. Il peggio probabilmente lo dà il grande Mark Waid: «Penso che il manifesto di Kirkman sia adorabile. Era davvero tenero. Mi ha ricordato quando mi sono bevuto la mia prima birra», dichiara smargiasso a CBR. Eppure quello dello scrittore non è un discorso ipocrita. Dopo aver raccolto un sacco di trionfi – vedi la mania scatenatasi attorno a Marvel Zombies – e aver passato altrettante grane, Robert decide di lasciare la Marvel in maniera definitiva. Il suo è un addio. Non ha più intenzione di farsi manovrare da gente che lo limita.
Peccato che stesse solo aspettando di sbattere la porta negli uffici della Casa delle Idee per poter accettare il ruolo di socio della Image, etichetta basata sulla libertà dei propri autori e in disperato bisogno di rilancio. Impossibile non vederci della malizia. «Voi avete le storie, noi le possiamo far arrivare ovunque», sembrava suggerire tra le righe di quel video, così accuratamente dimesso e improvvisato. Nello stesso periodo Eric Stephenson prende il posto di Erik Larsen come publisher della casa editrice. Da lì a qualche anno ne diventerà frontman – il carisma di quell’uomo è una delle poche cose indiscutibili dell’industria a fumetti statunitense – e diventerà famoso per i suoi discorsi alla Image Expo (perché la Image da lì a poco avrebbe avuto anche una fiera dedicata) tradotti da tutti i magazine di settore del mondo. Il messaggio è sempre quello: libertà, creatività, grandi storie e un sacco di fumetti da urlo, supporto per i piccoli punti vendita, per gli autori e per i lettori.
La nuova coppia di dirigenti funziona alla grande e le pubblicazioni targate con la grande “I” in copertina guadagnano parecchio spazio, soprattutto nel formato di raccolte (graphic novel?) per la libreria. Tutti i grandi del comicdom non riescono a negarsi il lusso di una serie creator-owned con la quale dare sfogo alle proprie idee più bizzarre. E in effetti ci sono periodi in cui la line-up di autori attivi alla Image è davvero una cosa da non crederci. Ed Brubaker, Grant Morrison, Mark Millar, Brian K. Vaughan, Jonathan Hickman, Brian Azzarello e Nick Spencer, solo per limitarsi agli scrittori. E Kirkman riesce a farsi passare come quello che ha smosso tutto questo, nell’interesse di tutti noi. Perché lui tiene davvero a noi fan. Continuando a sorridere farà di tutto per garantirci l’accesso a contenuti sempre migliori.
Tutto sembrerebbe andare per il meglio per il trentenne di Lexington. Il suo talento come scrittore è indiscusso – quanti altri sceneggiatori sarebbero riusciti a piazzare in maniera stabile un fumetto in bianco e nero, a base di zombi e survivalismo, nella top 10 dei fumetti più venduti d’America? – e il suo piano per la conquista del mondo pare avere ingranato a dovere. Le pedine sono state posizionate e la scacchiera non aspetta che la sua mossa successiva. Quindi perché non dargli una spintarella passando da balloon e vignette a… beh, a tutto il resto?
Nel 2010, in concomitanza con l’arrivo di The Walking Dead in televisione, apre i battenti la SkyBound Entertainment. La fabbrica di franchise di Robert Kirkman. Un laboratorio creativo dove le idee più disparate prendono di volta in volta la forma più adatta a farle arrivare al pubblico. Si parla di fumetti – naturalmente – ma anche di cinema, videogiochi, serie per il web e realtà virtuale. Nessuna idea è preclusa, basta che al centro di tutto ci sia il suo creatore. Il neo imprenditore e la sua squadra intendono mettere in piedi un vivaio dove degli esordienti possano prendersi il tempo necessario per sviluppare la propria storia, crescendo con lei. L’idea è quella di avere un magazzino di idee e di creatori in costante crescita, pronti per ricevere finanziamenti dalle grandi major senza perdere un millimetro di potere decisionale.
David Alpert, manager di Kirkman e co-propietario dello studio, racconta a Fast Company: «Parliamo con i produttori tutto il tempo e la loro prima preoccupazione è la ricerca di proprietà intellettuali. “Come ottengo i diritti di questo? Come posso riuscirci?”. SkyBound è stato progettato per risolvere questo problema. Posso dire: “Ehi, so quali sono i prossimi dodici progetti che voglio sviluppare, perché sono proprio qui”». Le strategie imprenditoriali della casa editrice ricordano il modo in cui il fondatore gestisce le sue serie a fumetti: con estrema calma, prendendosi tutto il tempo che occorre per farle maturare. Sono strutture che si autoalimentano e che potrebbero andare avanti per sempre. «Credo che nessuno di noi se ne vada in giro a dire “Dobbiamo avere un film per quest’anno e assicuriamoci di averne cinque per il prossimo” o “Voglio avere 17 serie tv entro il 2020”. Il nostro obiettivo è continuare a crescere e non lasciare che le cose emozionanti ci scivolino via attraverso le dita. Non siamo un’azienda che si pone obiettivi freddi e arbitrari e poi smussa gli angoli per cercare di raggiungerli. Questo non è il nostro stile» (sempre da Fast Company).
Praticamente la copia speculare di quanto ha reso ricco sfondato Mark Millar, autentico doppelganger di Robert. Uno che mette in piedi serie su serie solo per farsele opzionare… prima che i produttori si accorgano della fregatura. Ragazzini che menano mafiosi, 007 prelevati dal sottoproletariato inglese, supercriminali a governare il mondo. Chi resisterebbe a queste idee? Nessuno, vedendo come i produttori di Hollywood si accapigliano tra loro per potersele accaparrare. Quanti sarebbero ancora convinti della loro scelta dopo un buon numero di uscite? Probabilmente solo i dirigenti di Netflix. E invece chi punterebbe su una cosa scontata come gli zombi? O gli esorcismi? Forse chi è così attento da accorgersi che, almeno nel primo caso, sono in grado di far vendere quasi settantamile copie al mese da un decennio a questa parte (quasi 150.000.000 di copie vendute totali, tra albi e ogni formato di raccolta). E dare linfa a una serie tv che tutti guardano, anche solo per lamentarsene.
Senza contare giochi da tavolo, merchandising, libri in prosa, applicazioni per smartphone e videogiochi. Grazie al supporto della stessa SkyBound Entertainmet. una realtà relativamente piccola come la Telltale Games è riuscita a vendere qualcosa come 44 milioni di copie di un’avventura grafica. Forse il genere videoludico messo peggio, in un’epoca di frenetici sparatutto e blockbuster cinematografici. Fa ancora più impressione se si pensa come invece il videogioco di The Walking Dead sviluppato dagli specialisti in megaproduzioni milionarie di Activision per conto dell’emittente televisiva AMC, ideato quindi senza consultare i creatori originali, non abbia venduto nulla, totalizzando oltretutto un’imbarazzante media del 30% su Metacritic.
Va detto che, per ora, nessuna delle produzioni SkyBound non firmate da Kirkman pare avere le gambe abbastanza forti per farcela da sola fuori dall’ombra del suo editore. Si tratta di serie tutto sommato gradevoli, basate su concept interessanti e molto d’effetto. Quello che manca più o meno a tutte è però quel minimo di carattere necessario per svettare sull’enorme produzione mensile statunitense. Se volessimo definire in una parola il catalogo dell’etichetta, sarebbe “innocuo”. Eppure gli ottimi titoli non mancano, partendo dal revisionismo mostruoso di Manifest Destiny per arrivare alla fantascienza esagerata di Extremity. E in mezzo ci possiamo infilare Green Valley, fantasy imprevedibile di Max Landis e Giuseppe Camuncoli, e tutte le strane idee di quel fiume in piena che è Joshua Williamson (Nailbiter, Birthright, Ghosted, Evolution).
Se me lo chiedeste non avrei dubbi sul consigliare ognuna di queste serie. Sempre che non vi interessino titoli abbastanza forti per spingervi fuori dalla vostra zona confort. Sono scritti, disegnati e colorati benissimo. Paiono studiati per dare all’appassionato esattamente quello che pensa di volere. Parecchio strano se si pensa al percorso di Kirkman, diventato ciò che è diventato facendo esattamente tutto il contrario di quello che gli avrebbe suggerito il buon senso. Per lui niente concept vendibili in due righe. Le sue creazioni più famose sono basate su idee trite e ritrite, sviluppate però in maniera del tutto inaspettata. Con Outcast poi questa visione è stata allargata anche alla parte grafica, finendo per includere nella narrazione alcune delle soluzioni più d’avanguardia che si siano viste nel fumetto mainstream degli ultimi anni.
In più, proprio come per The Walking Dead e Invincible, si tratta di sceneggiature che riscrivono le regole della narrazione decompressa secondo una visione personalissima. I momenti forti ci sono, e anche a cadenza piuttosto elevata, ma la serialità viene sfruttata a lunghissimo raggio per poter dare davvero tridimensionalità al mondo che riempie quelle pagine. Sfogliando i progetti scritti in prima persona dal barbuto fumettista la sensazione di credibilità e di compattezza è palpabile, come se tutto fosse già concluso e lui si limitasse e tirarne fuori 22 pagine al mese. Sono produzioni che oscillano continuamente tra gustose concessioni al “genere” più puro e introspezioni autoriali, facendo spesso e volentieri a meno di queste noiose divisioni.
Nel quinto numero di Invicible, il protagonista Markus Grayson neutralizza una minaccia aliena al pianeta Terra semplicemente andando a parlarci. Salta fuori che l’invasore ha anche un nome piuttosto comune, Allen, e nessuna autentica intenzione violenta. La storia prosegue in maniera lieve e delicata, come mai ci si sarebbe aspettati da un fumetto di supereroi. Alla stessa maniera, da lì a qualche numero sarebbero arrivate le vere botte da orbi, spesso rese con una brutalità fuori registro per un titolo del genere.
Kirkman è in grado di sovvertire regole che parevano immutabili, mettere tutto su carta e farci un sacco di soldi. Allo stesso tempo è anche il fanboy senza un minimo di senso critico che si mette a lavorare con i suoi eroi dell’adolescenza (Rob Liefeld, Todd McFarlane e Marc Silvestri) a tre tragedie come The Infinite, Haunt e Demonic. Robe che paiono essere uscite da qualche capsula del tempo direttamente dagli anni Novanta. E in questo caso nessuna nostalgia li può salvare.
A pensare che si sia messo a ideare una serie con Silvestri dove un poliziotto vestito da vigilante – e non parlo di un look tattico da guerriglia urbana, parlo di maschera+mantello+guanti uncinati+canottiera traforata da notte al Berghain – se ne va in giro a uccidere i cattivi, ho un sincero moto di dubbio circa il suo reale talento. Così come quando ai microfoni di Newsarama riconferma la sua idea di come Rob Liefeld sia l’unico fumettista degli ultimi 20 anni a essere paragonabile a Jack Kirby.
Voglio dire, tutti amiamo alla follia il buon vecchio Rob. Le sua uscite pubbliche sono sempre uno spasso e sulla sua storia ci puoi scrivere di tutto. Ha una personalità e un carisma unici, una creatività bulimica e priva di senso critico, non ha mai mollato nonostante decadi di derisioni. Anzi, nella sua vita ha probabilmente guadagnato molto di più di quanto faranno mai i suoi critici più accesi. E poi è stato testimonial della Levis, ha fondato case editrici, convinto Alan Moore a scrivere i suoi personaggi, influenzato un’intera generazione di disegnatori senza aver mai imparato davvero lui stesso a farlo. Grandi doti e imprese mirabili, ma il buon fumetto non passa certo da lui. Eppure Kirkman lo adora e non vedeva l’ora di lavorarci assieme. Anzi, glielo doveva, visto è stato uno dei primissimi a dargli fiducia: «Sono debitore di Rob perché mi ha impedito di diventare un senzatetto, agli inizi della mia carriera. Una cosa eccezionale», ha raccontato a Comic Vine.
Ed ecco riemergere ancora una volta l’Hank Scorpio che c’è in Kirkman. Da una parte il geniale imprenditore in costante crescita, impegnato in ogni campo della narrazione. Dai videogiochi per la realtà virtuale allo sviluppo di drammi televisivi per il mercato coreano, passando per accordi a lungo termine con Amazon. Una specie di J.J. Abrams con del vero talento. Un mostro tentacolare che vuole arrivare ovunque e molto probabilmente ce la farà anche. L’obiettivo finale è lapalissiano: sbriciolare il mondo dell’intrattenimento come lo conosciamo per ricostruirlo a sua immagine e somiglianza.
Dall’altra lo sprovveduto fanboy che vuole solo «raccontare storie fighe, sperando che alla gente piacciano». E fare foto buffe con i props di scena. Senza nessuna autentica pretesa, se non quella di fare il lavoro che sognava fin da ragazzino. Scrivere storie horror che prendono spunto dai suoi film preferiti e produrre fumetti fantasy, pieni di mostri e mondi sorprendenti. Chi può dargli torto?