Il fumettista canadese Jeff Lemire sarà tra gli ospiti internazionali presenti a Lucca Comics and Games 2017 (dall’1 al 5 novembre), in collaborazione con Bao Publishing.
Un pomeriggio di quando aveva dieci anni, Jeff Lemire tornò a casa da scuola e comunicò ai genitori di aver bisogno dei propri spazi. Una richiesta inusuale per un ragazzino che viveva nella punta più a sud e più rurale del Canada, la contea di Essex, le cui distese di soia e frumento riempivano gli occhi della popolazione tanto quanto l’hockey i loro cuori.
I genitori offrirono in risposta qualche asse di legno e un po’ di chiodi, e Jeff scalò il grande acero che gettava ombra sul fienile, costruendo una panca tra i due rami più solidi. Nei mesi seguenti, ogni ora libera da obblighi scolastici, sociali o sportivi era dedicata a quella rudimentale casa sull’albero e alla lettura di fumetti, l’unico intrattenimento degno del suo tempo.
Oggi, Jeff Lemire salirebbe sull’acero di famiglia per scapparci, dai fumetti. Il canadese è infatti uno dei più prolifici autori sul mercato statunitense: i suoi servigi sono richiesti da Marvel, DC, Image, Dark Horse, Valiant, Top Shelf, Simon & Schuster, la televisione pubblica canadese e l’industria musicale.
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Le dieci ore al giorno nel suo piccolo studio di Toronto – città dove si è trasferito da adolescente – non tengono il ritmo con la mole di incarichi che riceve. Tale impegno sembra far intendere che Lemire sente ancora di dover dimostrare qualcosa, nonostante la sua fumettografia dimostri il contrario e testate come il Globe and Mail – il principale quotidiano canadese – lo abbiano definito “il migliore narratore del Canada“.
Esploso con Essex Country, un amarcord sulla sua infanzia campagnola incensato dalla critica, il disegnatore ha tenuto botta con Sweet Tooth, racconto post-apocalittico con protagonista il giovane Gus, un ibrido umano-cervo in cerca del suo posto nel mondo. I 40 numeri scritti e disegnati per l’etichetta Vertigo hanno dato il via alla sua carriera mainstream.
L’esperienza lo ha portato, a partire dal 2012, a firmare contratti con Dark Horse (Black Hammer), Valiant Entertainment (Bloodshot Reborn), DC Comics (Animal Man, Frankenstein: Agente dello S.H.A.D.E., Justice League Dark e Freccia Verde) e Marvel Comics (Vecchio Logan, Moon Knight, Occhio di Falco), che lo hanno catapultato al centro della scena nerd. Nell’ultimo periodo, nonostante l’agenda sempre piena, Lemire ha diradato le collaborazioni con le major, preferendo i progetti creator-owned.
A una prima impressione, Jeff Lemire non sembra un tipo particolarmente simpatico. Serio, composto, con la riga dei capelli da una parte, puntuale – anzi, in anticipo – con le consegne. Una di quelle persone con cui avere profittevoli rapporti di lavoro, ma non la prima scelta se devi fare un giro dei bar.
La sua è una parabola simile a quella di tanti altri creativi: l’artista che lavora di giorno e disegna di notte, sfonda, viene sedotto dalle grandi aziende, se ne innamora, se ne disinnamora, trova il compromesso per una decrescita felice.
Pensate all’ondata di registi indie arrivati ai blockbuster dopo un solo film o che hanno conosciuto una crescita steroidea dei propri orizzonti. Gareth Edward che dirige Godzilla dopo Monsters o il franchise di Jurassic Park dato in mano al quasi esordiente Colin Trevorrow sono due esempi di una tendenza mirata non a far emergere la loro personalità in un contesto normalizzante, ma a creare pedine facilmente controllabili dai produttori, troppo preoccupati di gestire immensi universi narrativi per accorgersi della scomparsa di una voce autoriale.
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Molti fumettisti statunitensi sono diventati macchine da scrittura perfette, fabbricanti di fumetti espressi che ti chiedono se la scazzottata a pagina diciannove la vuoi super-size o se oltre i muscoli vuoi che si veda anche il volto del personaggio. Altri hanno abbandonato qualsiasi pretesa di comunicare a un pubblico che superi il confine del loro ombelico. Jeff Lemire è riuscito ad abitare entrambe le realtà, nonostante voci come il Comics Journal si siano dette dubbiose sulla sua capacità di produrre materiale che non andasse oltre il «servibile, fintanto che rispetta la scadenza».
La testata si è chiesta se valga la pena accettare offerte esterne o fare come Eddie Campbell, che «avrebbe avuto l’opportunità di farsi mantenere dai grandi editori per la gestione di Hellblazer, un ingaggio su Batman, Capitan America o chissà che altro. Invece ha preferito tornare al suo vero lavoro su questa terra verde e generosa: fare fumetti che abbiano un senso». Ma il passaggio alle major contribuisce ad allargare il proprio bacino di utenza e costruirsi una reputazione che può poi essere spesa altrove.
Per un autore del calibro di Jeff Lemire, i lavori creator-owned fruttano di più del salario work for hire. Marvel e DC pagano a pagina e concedono le royalty solo se il fumetto raggiunge un certo numero di vendite. Image, invece, paga le spese di stampa, la distribuzione e il marketing ma, una volta rientrati dall’investimento (quindi dopo le prime 4/5.000 copie vendute), tutti i profitti vanno all’autore.
Va da sé che le 30.000 copie vendute di Royal City #1 o le centinaia di migliaia di copie di Descender abbiano portato qualche spicciolo nelle casse di Lemire (e degli eventuali co-creatori). «Image pubblica dozzine di titoli ogni mese», avverte Lemire, «e solo una manciata di essi vende davvero bene. Io sono fortunato, il mio nome vende».
Jeff Lemire: dall’Essex alle stelle
Cresciuto nella provincia canadese di Essex, Lemire si diletta nel disegno fin da piccolo, ma la carriera di fumettista non gli sembra neanche remotamente possibile e dopo il liceo opta per il cinema. «Avevo degli amici che si erano trasferiti a Toronto per studiare cinema. Il settore era in crescita e immaginavo che avrei trovato un lavoro per poi costruirmi una carriera. A 17 anni hai solo un’idea vaga di dove stai andando».
Toronto però non è Essex, è una città piena di librerie e fumetterie e nei quattro anni di corso Jeff riscopre il suo amore per il fumetto. Il potenziale del mezzo lo convince ad abbandonare gli studi, ma ci vorranno anni prima che qualcosa con il suo nome sopra venga mandato alle stampe.
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La Hacienda è un pub tex-mex nella zona turistico-culturale di Toronto. Jeff Lemire ci lavora la sera preparando le basi per i cuochi. Smonta tardi, dorme poco e passa il resto delle sue ore di veglia disegnando il fumetto horror Soft Malleable Underbelly, che però non vuole saperne di funzionare. Lo ricomincia varie volte, e il monolocale che condivide con la sua futura moglie Lesley-Ann si riempie di bottiglie di inchiostro e di alcool. È il 2003: la sua carriera, di nuovo, pare finita ancor prima di iniziare.
Ma la lettura di Capire il fumetto di Scott McCloud e la scoperta della sfida 24-Hour Comic Day (realizzare un fumetto di almeno 24 pagine in 24 ore) riaccendono il suo entusiasmo. Si mette al tavolo da disegno e per dieci ore consecutive scrive e disegna quello che sarà l’inizio di Cani smarriti, edito nel 2005 da Ashtray Press, dopo che i 5.000 dollari del premio Xerix, patrocinato da Peter Laird, gli hanno permesso di ultimare il lavoro.
«Ci sono stati sette o otto anni in cui ho realizzato fumetti brutti, fumetti che non ho mai pubblicato né mostrato in giro. Dovevo passare per quei fumetti brutti prima di trovare la mia voce come autore». È quando comincia a raccontare se stesso che Lemire la trova, e da allora non la lascia più.
Lester, il ragazzino solitario che veste il mantello di Superman e fa dell’escapismo l’arma per venire a patti con la morte della madre, o Lou, il burbero che vive nel rimpianto, sono entrambi spunti autobiografici che animano Essex Country. Così come pescano nel suo vissuto Il saldatore subacqueo o i recenti Roughneck, vicenda tormentata di un ex giocatore di hockey, e Secret Path, adattamento dell’omonimo album di Gord Downie incentrato sulla vicenda tutta canadese di Chanie Wenjack, bambino di una tribù di nativi americani che, strappato dalla sua famiglia, era morto nell’impresa di ricongiungersi coi genitori.
Essex Country lo pone sotto i riflettori. Diventa uno dei più libri più influenti nel panorama canadese, tanto da concorrere al premio letterario Canada Reads, facendo aggrottare qualche sopracciglio: la conduttrice televisiva Debbie Travis ne lamenta l’inclusione perché ha «troppe poche parole» (Lemire le è comunque riconoscente, perché il commento scatena un’ondata di stizza che riporta Essex Country nella classifica dei libri più venduti).
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Solitudine, Hockey e fumetti
La solitudine, quella confortevole di Essex Coutry («C’è una differenza tra essere da solo e solitario e, a essere onesti, preferisco stare da solo. O non farei il lavoro che faccio»), l’hockey («La mia unica via di fuga dai fumetti. Non faccio altro che pensare ai fumetti, per tutto il giorno, e l’hockey è l’unico momento in cui spengo quella parte di cervello»), i bambini: sono tutti elementi che guidano le storie di Lemire. I suoi protagonisti sono spesso giovani, giovanissimi, ragazzi dalla sensibilità spiccata, come dimostrano Gus di Sweet Tooth, la gang di Plutona o il robot Tim-21 di Descender.
Tratteggiarli con poco, dice Jeff Lemire, è il suo modo per farli risultare realistici. «Togliere i dialoghi in eccesso e restare semplici. I bambini tendono a non parlare molto e spesso è il loro linguaggio corporeo a raccontare la storia, specie quando sono con degli adulti». Si approccia alla scrittura come la sua matita affronta la pagina bianca, aggredendola con linee istintive che raccontano un volto senza mediazioni o troppo riflessioni. L’andamento tremolante restituisce concretezza e un pragmatismo che Lemire sente suo: «Non sono per niente un intellettuale. Scrivo e disegno con l’istinto. Non so nemmeno di cosa parlino le mie storie finché non le finisco».
In Roughneck, la storia dell’ex-giocatore di hockey allo sbando Derek Ouelette e di sua sorella in fuga da un fidanzato violento è ispirata alle vite di alcuni giocatori come Wade Belak, Rick Rypien e Derek Boogaard, morti per problemi legati a depressione o dipendenze, derivanti dal loro ruolo di enforcer.
La tematica del giocatore adibito a proteggere con la violenza i compagni di squadra che si trovano senza rete di sicurezza non può che colpire al cuore della poetica di Jeff Lemire: «Questi ragazzi vivono una vita fatta di violenza, fanno della lotta il loro mestiere. E poi, all’improvviso, il gioco non ha più bisogno di loro, si fanno male o invecchiano. Non conoscono altro che viaggi con la squadra, risse, violenza, abusi di sostanze che spesso hanno accompagnato la loro carriera. E ora non sanno più dove sfogare quella violenza. È tragico e affascinante, ed è una cosa specifica dell’hockey». E anche quando ci sta raccontando di un Pinocchio fantascientifico, Lemire sta solo agghindando l’Ontario con qualche astronave.
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Quando non sono i luoghi e gli eventi attorno a lui a ispirarlo ci pensano gli amici (Matt Kindt, che lo ha spinto ad acquerellare Trilium) o le sue letture d’infanzia: Sweet Tooth è figlio putativo di Timothy Truman e del suo Scout, serie distopica in cui l’America è diventata una paese del Terzo Mondo, Descender è debitore di Pluto di Naoki Urasawa (un aggiornamento di Astro Boy) e delle storie di Jack Kirby per l’universo di 2001: Odissea nello spazio.
Anche l’ultima serie in ordine di tempo, Royal City, è stata progettata per diventare un campo da gioco personale, nel quale le vicende della famiglia Pike si alternano a quelle di altri abitanti della città, sul modello di Criminal, la serie di Ed Brubaker e Sean Phillips in cui la cornice di Center City accoglie le storie di personaggi diversi: «Posso fare storie con personaggi nuovi o in periodi diversi, seguire la loro crescita mentre anch’io invecchio. Mi sembra un posto con potenzialità infinite, attraverso il quale posso assecondare i miei interessi».
Royal City rappresenta «quello che voglio adesso dalla mia carriera», ammette, dopo aver fatto indigestione di fumetti, soprattutto Marvel. Nell’estata del 2016 Lemire si è trovato a scrivere otto titoli mensili in un colpo solo. «È stato il momento in cui sono stato più vicino a un collasso». E così, complice una totale assenza di blocco dello scrittore, ha intrapreso strade diverse, con il beneplacito degli editori. «È strano, non ho più bisogno di fare pitch. Non è che dicono sì a tutto, ma sanno che ho un seguito sufficiente a sostenere le vendite di una testata. Sono in una posizione fortunata, per cui anche se Royal City dovesse andare male, me la caverei».
Anche se si era ripromesso di diminuire il carico di lavoro, Jeff Lemire è attivissimo su molti fronti, ha nuove serie in arrivo (tra cui un riavvio degli Invisibles di Grant Morrison) ed è coinvolto negli adattamenti televisivo-cinematografici dei suoi fumetti. «Lo so», si giustifica, «ma non riesco a smettere. Se non lavoro tutti i giorni divento una persona poco simpatica. È una questione di salute mentale».