HomeMondi POPAnimazione"Cars 3" e la Pixar del domani

“Cars 3” e la Pixar del domani

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È finito tutto a Hong Kong. Nel settembre 2005 Bob Iger, da poco diventato nuovo CEO della Walt Disney Company, era nella regione mandarina per inaugurare il primo parco divertimenti Disney in terra cinese. Durante la parata d’apertura un pensiero prese possesso di lui. Mentre stringeva mani e sorrideva ai fotografi notò che nella sfilata celebrativa presenziavano i grandi classici (Cenerentola, Biancaneve), i protagonisti del Rinascimento Disney (Simba e la Sirenetta) e tanti personaggi Pixar (Buzz Lightyear, Woody, Rex, Mr. Potato, Mike e Sully, gli Incredibili). Troppi personaggi Pixar, nessuno delle recenti produzioni Disney. Forse andava ripensato il reparto d’animazione, nel frattempo però quello Pixar era un capitale di proprietà intellettuali che bisognava proteggere.

L’apprensione di Iger riguardava la scadenza imminente del contratto tra Disney e Pixar, dopo che Steve Jobs aveva cessato ogni negoziazione a causa della disistima verso il predecessore di Iger, Michael Eisner, che aveva perfino varato Circle 7, una costola pensata per la produzione dei sequel Pixar di cui la Disney deteneva i diritti (Monster & Co 2, Toy Story 3 e Alla ricerca di Nemo 2). Ma Circle 7 sembrava più un’arma di ricatto per vedere il bluff della Pixar, intenzionata a non rinnovare il contratto siglato negli anni Novanta e a cercarsi un nuovo partner. Siamo bravi anche senza di voi, urlavano da una parte della barricata, mentre l’altra era alla ricerca di nuovi compagni di merende. Con un nuovo amministratore delegato in città, però, le decisioni prese sarebbero potute diventare meno categoriche.

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cars3

Quell’epifania cinese condusse a un disgelo tra le parti e a una trattativa che portò all’acquisizione della Pixar da parte del conglomerato Disney per 7,4 miliardi di dollari (l’allora precarietà degli studi Disney e la personalità ingombrante di Steve Jobs devono aver giocato a favore di un rialzo sostanzioso, se pensiamo che la Lucasfilm è stata rilevata per metà del prezzo).

Con l’annessione alla casa di Topolino, si concluse il periodo adolescenziale della Pixar e iniziò una fase nuova, fatta di influenze e commistioni con le strutture Disney. Il matrimonio però non fu dei più lisci fin da subito. Il primo film della nuova Pixar, Ratatouille, rimase vittima degli incassi perché la Pixar, nel periodo in cui sembrava certo che avrebbe dovuto cercare un nuovo studio dopo la fine dell’accordo con la Disney, aveva iniziato a sviluppare film senza il veto della casa madre e quest’ultima, dopo le rinnovate intese, si era ritrovata a dover pubblicizzare un film che non aveva approvato e in cui non credeva. Un topo già ce l’avevano, in più questo era una pantegana poco cartoonesca che – orrore! – cucinava. La campagna internazionale fu il frutto sclerotico di una compagnia che non aveva nemmeno ben capito di cosa trattasse il film: in alcuni paesi lo pubblicizzarono come una dichiarazione d’amore a Parigi, in Brasile ne esaltarono la componente culinaria e in Giappone fecero leva sull’atipica amicizia tra uomo e ratto.

Fu una fase da molti considerata sperimentale per gli standard dell’animazione statunitense, una trilogia spirituale sulla morte (Wall-E, Up, Toy Story 3) che fece sbracciare la critica ma non esaltò i dirigenti, delusi dagli introiti tiepidi del merchandising – in certi casi (Up) del tutto inesistenti, se paragonati a film più inclini alla mercificazione come Cars. Toy Story 3 non chiuse soltanto una trilogia e una scia positivissima che andava avanti da quindici anni, ma anche un periodo di pellicole originali in cui l’unica concessione alla serialità era stata la saga di Woody e Buzz. Dal 2011, sequel (Cars 2, Alla ricerca di Dory), prequel (Monster University) e fiabe disneyane (Ribelle – The Brave) entrarono nel catalogo Pixar, lasciando storie originali come Inside Out e Il viaggio di Arlo ai margini. Quest’anno, l’equilibrio è stato raggiunto con Coco, un film sulla festa dei morti messicana, e Cars 3, terzo episodio del saga che vale più di otto miliardi sugli scaffali.

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john lasseter
John Lasseter

Nel libro Verso la creatività e oltre, Ed Catmull, presidente degli studi d’animazione Disney e Pixar, profila dal basso la figura di Steve Jobs, descrivendolo come un tipo «poco empatico. Non riusciva a mettersi nei panni degli altri ed era del tutto privo di umorismo. Eravamo profondamente convinti che divertirsi fosse importante ma, ogni volta che provavamo a coinvolgere Steve in questo genere di cose, fallivamo miseramente».

Mi sembra un’ottima metafora per il franchise di Cars, la saga Pixar in cui macchine parlanti vivono una quotidianità fatta di drive-in al gasolio e check-up dall’elettrauto. È sempre stato un prodotto più smaccatamente per bambini, dove l’ironia e l’umorismo erano di grana grossa e, quand’anche provava a fare qualcosa di diverso o a elaborare stimoli secondo la propria sensibilità (la spy story di Cars 2), toppava, proprio come i tentativi di ammorbidire Jobs. Perché evidentemente Cars, come Jobs, non era capace di risultare simpatico. Non era questa la sua forza, il suo vanto stava in altri aspetti e nemmeno gli interessava provarci, in fin dei conti. Cars, come Jobs, voleva soltanto vendere bei giocattoli.

Il primo Cars venne accolto con freddezza, anche perché i critici non ebbero soddisfazione nello scavare tra le due ore di film e non ricavarne nulla se non un world builing convoluto che chiedeva di posporre domande che nemmeno sarebbero dovute venire in mente, e un monito alla decrescita felice. Dove i film Pixar parlavano di rapporti genitoriali (Toy Story, Monster & Co.), perdita (Up, Alla ricerca di Nemo), conquiste e diversità (Inside Out, Ratatouille, Wall-E), Cars si riduceva a una parata di macchinine e giochi di parole sui nomi dei personaggi.

Oggi l’obiettivo della Pixar è dimostrare di essere ancora quella di una volta, nonostante abbia tradito alcune linee guida originali (no adattamenti, no musical, no fiabe, no sequel), cioè uno studio che innova e osa. E allora da una parte ha creato un dipartimento la cui missione è ripensare al processo di produzione in termini di innovazione e abbattimento dei costi, un punto su cui Catmull ha insistito molto negli ultimi anni, dopo che la gran parte dei film Pixar ha iniziato a sfiorare o superare i 200 milioni di budget; dall’altra, in maniera controintuitiva, c’è Cars 3, presentato dal marketing con una spigolatura meno farsesca del precedente capitolo.

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ratatouille

Un articolo su ESPN (di proprietà della Disney) di inizio estate parlava delle similitudine tra questo secondo sequel e l’attualità della Nascar, che sta assistendo a un forte ricambio generazionale: lo scorso anno tre campioni come Jeff Gordon, Tony Stewart e Carl Edwards hanno appeso il casco al chiodo e un altro, Dale Earnhardt Jr., è in procinto di farlo; tutto il pezzo vuole instillare nel lettore pochi concetti base: Cars 3 è un di film d’azione che piacerà a voi, ai figli e ai padri, ai 400 calci e ai nostalgici di Rocky IV.

Christopher Orr su The Atlantic ha scritto di come la Pixar abbia perso la propria strada e sia stata rovinata dall’influenza Disney. Ora, sono considerazioni – riprese qui in Italia anche da Il Post – vere solo in parte, ma è certo che l’entrata della Pixar negli asset di Topolino abbia portato a sconquassamenti interni. John Lasseter, da mogul della prima, è diventato boss creativo della seconda e la sua presenza è richiesta a più tavoli contemporaneamente (non solo gli studi d’animazione, ma anche il merchandising o i parchi tematici). Molti mettono in dubbio la sua capacità di guidare un impero su cui non cala mai il sole, tanto più che il regista è una presenza fissa alla Disney da quando è stato incaricato di supervisionarne i progetti.

Durante i primi anni di rodaggio, lo staff Pixar ha spesso pensato che il proprio capo passasse troppo tempo a plasmare i film della consorella. Ora la situazione pare essersi stabilizzata e il regista si divide equamente tra le due compagnie. «Entrambi i posti pensano che passi troppo tempo nell’altro studio», ha dichiarato un amico. Catmull racconta a tal proposito un episodio saliente: nel 2013 i dipendenti della Pixar furono convocati per la “giornata dei suggerimenti”. Uno di questi era una nota di due pagine e mezza in cui ci si lamentava del fatto che Lasseter aveva così tanti impegni da arrivare a un meeting pensando di essere a un altro.

Con l’arrivo di Lasseter alla Disney, lo studio di Topolino ha saputo iniettare nuova linfa nei cartoni dal taglio classico come Oceania e Frozen, o sfruttare tutte le lezioni Pixar per produrre film agili come Ralph Spaccatutto o Zootopia. Il mutamento è stato così osmotico che, nel libro di Catmull, Lasseter si trova a dire: «C’è una leggerezza e una velocità alla Disney che vorrei vedere di più alla Pixar». Dopo aver espletato Gli Incredibili 2 e Toy Story 4, pegni da pagare per «non andare in bancarotta creativa e bilanciare con film più sicuri i rischi che vogliamo prenderci» (Ed Catmull), non ci sono altri sequel all’orizzonte e i (per ora annunciati) quattro film in sviluppo vengono tutti da idee originali.

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ralphspaccatutto

Sono passati vent’anni dal seminale Toy Story e la Pixar è passata attraverso un film quasi cancellato per errore, valanghe di premi e riconoscimenti, lo scandalo dei salari (un cartello di studi californiani – Disney, Pixar, Lucasfilm, Dreamworks – che mantenevano bassi gli stipendi degli animatori per non farsi concorrenza), e una turbolenta trattativa che ha portato alla riconciliazione. È la stessa narrazione che abbiamo visto alla Disney e in tante altre compagnie che partono (o rinascono) attorno a un gruppo di personalità forti e poi cambiano quando le persone migrano altrove.

I film non sono scienze esatte, i talenti non sono gli stessi (in Pixar lo sanno, considerata la politica di affidare prodotti collaudati – Monster University, Cars 3 – a registi mestieranti) e qualche ciambella può uscire sbilenca. Forse, almeno a un livello superficiale, la storia di Cars 3 (il campione un po’ attempato Lightning McQueen inizia a sentire il peso degli anni e un giovane rampante minaccia di rubargli la scena) è la metafora sportiva della Pixar, la stessa semplice considerazione che i groupie di Lasseter e soci non vogliono accettare. Nessuno resta in vetta per sempre.

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