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Il Salgari dimenticato (sci-fi) e i suoi illustratori (pure)

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Centodieci anni fa usciva questo:

meraviglie 2000 salgari
Emilio Salgari, Le meraviglie del Duemila; illustrazione di Carlo Chiostri

Parliamo di una nicchia fantascientifica all’interno di un blocco della letteratura d’intrattenimento peraltro quasi dimenticata. Dimenticata perché oggi più nessuno legge Salgari: fate il conto voi dell’ultima volta che avete letto un suo romanzo. Non qualcosa su Salgari (come l’ottima biografia a fumetti Sweet Salgari di Paolo Bacileri o come in un Martin Mystère d’annata, Il leone del Transvaal) o qualche apocrifo d’autore (penso a Ritornano le Tigri della Malesia (più antimperialiste che mai) di Paco Ignazio Taibo II). No no, proprio un romanzo di Salgari scritto da lui medesimo. Niente, vero? Lo sapevo.

Il problema è sempre quello: Salgari viene ristampato ciclicamente, soprattutto in allegato ai giornali – perché la maggior parte dei suoi romanzi sono fuori copyright – ma raramente viene letto. E se per caso qualcuno lo legge, rilegge sempre le solite quattro cose: un paio del ciclo dei pirati della Malesia (I pirati della Malesia o Le due tigri), qualcosa dei corsari delle Antille (Il Corsaro Nero o La figlia di Jolanda) e forse La favorita del Mahdi. Eppure Salgari è molto di più.

Che Guevara, che da ragazzo era un appassionato lettore di Salgari (e questo dovrebbe dirci molto sul carattere del medico e rivoluzionario argentino), lesse ben 62 romanzi dei 200 scritti dall’autore, se si contano anche le attribuzioni che la critica fa di testi firmati con pseudonimi e quelli “inseriti” da altri scrittori nei vari filoni salgariani. Naturalmente per vendere la ‘firma’ anche dopo morto.

L’attività del solo Salgari può essere considerata un vero e proprio blocco per quanto riguarda la letteratura italiana, e i numerosi riconoscimenti dell’opera tendono raramente a dare conto della ricchezza e complessità tematica dell’autore. Si finisce sempre con il parlare di Sandokan, mentre ci sarebbero davvero molte altre cose: dal romanzo storico (Cartagine in fiamme fu la base, assieme a Salammbô di Gustave Flaubert, sulla quale Gabriele D’Annunzio costruì la sceneggiatura di Cabiria, il film muto di Giovanni Pastrone del 1914, il più colossale dei kolossal del cinema muto) alle storie western, fino a romanzi di vario genere e interesse. Tutti sconosciuti, molti inediti da decenni se non più.

Salgari era nato nel 1862 e, dalla metà degli anni Ottanta dell’Ottocento fino al suicidio del 1911 («A voi che vi siete arricchiti con la mia pelle, mantenendo me e la mia famiglia in una continua semi-miseria od anche di più, chiedo solo che per compenso dei guadagni che vi ho dati pensiate ai miei funerali. Vi saluto spezzando la penna»), scrisse praticamente sempre, schiacciato dai debiti e da contratti-capestro con i quali i furbi editori (i principali nomi dell’epoca) si arricchirono alle sue spalle e del suo lavoro. Nello stesso tempo e con un talento di livello analogo ma decisamente meno prolifico, Edgar Rice Burroughs (1875-1950) creò letteralmente un impero che solo un po’ di sfortuna impedì si trasformasse in un’altra Disney Corporation.

Leggi anche: Edgar Rice Burroughs, il big letterario che divenne un big fumettistico

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La Montagna d’Oro, 1901. Copertina di Corrado Sarri

All’interno del “blocco Salgari”, come dicevo all’inizio, voglio dedicarmi a una nicchia: la fantascienza. E, all’interno di questa, soprattutto (ma non solo) al lavoro di un paio di generazioni di illustratori che, dagli esordi sino al secondo Dopoguerra, si sono occupati di dare profondità e ricchezza visiva all’immaginario di Salgari creando le copertine e le immagini interne dei suoi libri.

Prima però chiariamo un punto. Salgari non è tecnicamente un autore di fantascienza, quanto piuttosto un precursore del genere: un autore di romanzi a tema scientifico. Lo dico per mettere pace nel cuore delle conventicole di esperti del settore, che su questo particolare “pelo” sono particolarmente sensibili. Ma sia quel che sia, Salgari ha lasciato correre la sua penna (ma anche la macchina per scrivere, utilizzata per buona parte della sua carriera) su temi decisamente di “science fiction”.

Il classico da citare è sicuramente Le meraviglie del Duemila, probabilmente il titolo più importante della protofantascienza (contenti?) italiana. Il romanzo del 1907 è la storia di un viaggio nel futuro, dal 1903 al 2003. A cento anni di distanza (rispettivamente 114 e 14 anni fa rispetto a oggi) la vita è diventata più ricca ma frenetica, con tutto l’apparato di macchine volanti, treni sotterranei velocissimi e città sottomarine che oggi ci possiamo aspettare da questo tipo di speculazione.

Ma non c’è questo solo. Salgari ha scritto molto di più sul tema: c’è una coppia di romanzi di ambientazione protofantascientifica, una specie di mini-ciclo non più portato avanti: I figli dell’aria (1904) e Il re dell’aria (1907). E vari altri, tra racconti e romanzi isolati, come ad esempio Duemila leghe sotto l’America (1888), Il re della montagna (1895) e Attraverso l’Atlantico in pallone (1896). Il fatto è che abbiamo un’idea piuttosto distorta di Salgari, che infatti oggi ricordiamo come un autore piuttosto sprovveduto che lavorava sul tavolo da cucina, oberato dai debiti, esaurito e depresso, con la moglie ricoverata in manicomio e i figli a cui badare, oltre alla decina di pagine da scrivere ogni giorno. Invece, Salgari era un professionista molto amato dai suoi lettori e alquanto popolare. I critici lo snobbavano (ma non c’era ancora stata una critica capace di sdoganare la letteratura popolare e d’avventura in Italia) però i suoi colleghi avevano un’idea decisamente positiva delle sue capacità e della sua posizione.

Come ha detto l’esperto salgariano Claudio Gallo in un’intervista rilasciata al Corriere:

«[Salgari] vendeva molto, era stimato dai lettori, era consapevole del suo progetto: scrivere in Italia libri di genere appassionanti come quelli di Verne e Dumas. Anche per questo Salgari è figlio della Scapigliatura. Gli scapigliati non erano solo quelli con i capelli lunghi che bevevano troppo. Hanno introdotto in Italia Poe, l’inventore dei generi moderni. E hanno reso possibile una libertà di scrittura extra tradizione. Salgari ha scritto anche un romanzo scapigliato, La bohème italiana. Figlio del suo tempo, Salgari è anche un positivista, ha fiducia nel progresso e nella ragione. Come mostra nei Robinson italiani, dove basta la conoscenza per sopravvivere in un ambiente ostile e ricreare il mondo civile‚.

Salgari non era neanche un poveraccio di umili origine: era invece un borghese e veniva pagato bene, più della media dei suoi colleghi. Aveva però un carico di lavoro impressionante, il rifiuto più totale nel fare ricorso ai “negri”, che oggi chiameremmo più politicamente correctly “ghost writer”, e aveva anche un agente che si occupava di gestire i suoi diritti all’estero. Purtroppo però “non era un buon amministratore”, la pietosa perifrasi che si usa per dire che in realtà uno ha le mani bucate ed non sa gestire i soldi. Abitazioni? Abbigliamento? Stile di vita? Scuola dei figli? Le costose cure per la moglie? Scegliete voi. Salgari bruciava più di quel che guadagnava e viveva costantemente nello stress di produrre di più. Inoltre, i suicidi e i maniaco-depressivi nella sua famiglia di origine e in quella da lui creata abbondavano.

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Duemila leghe sotto l’America, 1888. Copertina di Quinto Cenni

L’aspetto però più rilevante per noi è la consapevolezza di Salgari delle sue capacità di autore e del suo ruolo da un lato, e dall’altro della sua poetica e tecnica. Se si leggono i lavori della critica italiana degli ultimi decenni, quelli che ricostruiscono in maniera documentata e sensata la figura e l’opera e la personalità di Salgari, si va a scoprire un autore molto più maturo e complesso di quanto non sarebbe lecito immaginare dalla vulgata tradizionale. Un autore che utilizzava, per ragioni contrattuali, il proprio nome, ma anche pseudonimi diversi (evitava le clausole di esclusiva che lui stesso aveva sottoscritto con i vari Donath e Bemporad, ma al tempo stesso era un gioco di gestione dei “marchi” diversi e una pratica comune tra gli autori professionali dell’epoca, solitamente molto prolifici), fino a cercare di dare profondità ai vari Capitan Guido Altieri (presunto nipote che firmò Le meraviglie del Duemila e Le Stelle dell’Auraucania) o all’altrettanto famoso (e inesistente) Guido Landucci, ma anche a E. Bertolini, a S. Romero e vari altri. Ancora oggi non sappiamo quanti romanzi e racconti Salgari possa aver lasciato sotto pseudonimo, sepolti nei fogliettoni dei giornali o in qualche edizione minore di qualche editore poco noto.

Salgari infatti aveva una produzione enorme soprattutto perché era un autore ossessionato soprattutto dal suo lavoro, che svolgeva con maniacale precisione. Come Émile Zola o come Robert Louis Stevenson, Salgari passava molto tempo in biblioteca a documentarsi con atlanti, enciclopedie, ma anche con i resoconti di viaggi e delle scoperte scientifiche dell’epoca che venivano pubblicati dai giornali e dalle riviste (oltretutto Salgari dirigeva a sua volta una rivista di viaggi) e con tutte quelle forme faticose e dispendiose di documentazione necessarie prima di Internet, quando avere accesso a una grande biblioteca era un requisito necessario. Dopo Verona e poi Genova (dove i Salgari abitarono su richiesta dell’editore Anton Donath), a Torino la famiglia trovò la sua sistemazione in Corso Casale, vicino alla fermata del tram che portava Emilio alla biblioteca civica centrale senza faticosi cambi o altre perdite di tempo.

Faceva tutto parte dell’officina artigiana di scrittura di Salgari, della sua capacità struggente di essere un solitario genio della parola scritta. Il senso per l’esotismo di Salgari non era istinto ma frutto di una metodica preparazione, così come la sua lingua, ricca e complessa, certamente non “leggera” ma ancora oggi più che gustabile per ritmo del fraseggio e ricchezza delle campiture semantiche.

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L’Uomo di Fuoco, 1904. Copertina di Alberto Della Valle

Negli anni Salgari aveva raggiunto la certezza che non fosse tanto il nome in copertina quanto e soprattutto lo stile, i ritmi, la qualità letteraria di un’opera a suscitare la curiosità dei lettori e a decretarne quindi il successo. La firma sul frontespizio del volume, alla fine, secondo Salgari non era rilevante. E questa idea, così come la ricostruiscono alcuni studiosi, va in palese contraddizione con il monumentale “sistema” editoriale costruito attorno al suo lavoro. O forse va proprio in quella direzione, per rafforzarne il senso: è un Salgari totalmente concentrato sulla sua opera, la cui fatica quotidiana da culturista della parola, però, è incapace di capire e addirittura vedere quello che si trova attorno al testo. È incapace, cioè, di vedere e capire il funzionamento dell’industria culturale. Non sarebbe del resto il primo caso (ma di sicuro uno dei più clamorosi) di talento totale che è anche completamente e senza speranza inadatto alla parte sociale, politica ed economica della sua attività professionale.

Torniamo al nostro angolino: il Salgari precursore della fantascienza. Lo scrittore che immagina ed estrapola, seguendo la strada ottimistica di Jules Verne o pessimistica di Edgar Allan Poe, quella romantica degli autori francesi e quella scientifica degli autori inglesi del suo tempo. Lo scrittore che viaggia nel futuro ha pubblicato decine di racconti e un po’ di romanzi sull’argomento. Intanto i suoi editori lavoravano alacremente per confezionare le opere: non solo per rendere interessanti le pagine di giornale sulle quali escono i romanzi in forma di feuilletton, ma soprattutto per completare le edizioni a stampa con un corredo all’altezza.

Arrivano quindi una legione di illustratori, molti dei quali onesti artigiani della pagina pittata, con alcuni talenti d’eccellenza e qualche puledro di razza. C’è ad esempio Quinto Cenni (1845-1917) illustratore di Imola trapiantato a Milano (ha fatto l’Accademia di Brera) e interprete popolare di tavole a sfondo storico e militare (fenomenali le sue raccolte di divise e uniformi d’epoca). Ma ci sono anche l’amico genovese Pipein Gamba (al secolo Giuseppe Garuti) e il gigantesco Alberto Della Valle. Questo è napoletano, figlio di un colonnello dell’esercito borbonico che rifugge la carriera militare, si lancia nell’arte e sbarca a Genova. Diventerà amico di Gennaro Amato e assieme aiuteranno il terzo amico, Pipein Gamba, che ha moli di lavoro enormi da smaltire per l’editore Donath. Arriva a Genova quando è appena giunto anche Salgari e il gruppetto socializzerà: con la nuova tecnica fotografica di ricalco collaboreranno all’impostazione di molte copertine e illustrazioni delle opere di Salgari, che cura anche i più minuti particolari del suo lavoro. Uomo di temperamento, sposa l’amata Maria Cobianchi, assieme si trasferiscono a Napoli e poi la donna muore. Legato alla famiglia Matania (decine di artisti, giornalisti, architetti e pittori) soffre grandemente la vedovanza e si uccide con un colpo di pistola.

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La Montagna di Luce, 1902. Copertina di Gennaro Amato

L’altro uomo chiave per le copertine e le illustrazioni dei libri di Salgari è Gennaro Amato, anch’egli napoletano, appassionato anche di fotografia, sbarca a Genova, diventa illustratore di punta soprattutto per gli “interni” dei più grandi scrittori italiani e stranieri di inizio 900 delle scuderie di Donath, Sonzogno, Bemporad e altri editori. È uno dei pochi tra gli italiani dell’epoca ad avere agganci all’estero, sia in Inghilterra che in Francia, e viaggia molto per le riviste straniere, facendo “l’illustratore speciale” in Russia e in Africa. Ma è ricordato per la forza e il vigore particolare delle sue figure salgariane, che lo rendono uno degli interpreti più interessanti dell’autore scaligero. Ritrae la Regina Vittoria, Matilde Serao, Sarah Bernhardt, ed è l’unico artista ammesso davanti alla salma di Umberto I (ne ritrarrà anche l’assassino).

Assieme questi sono gli autori a cui si deve l’impostazione e lo stile delle illustrazioni nei libri di Salgari. La forza e la cura, la ricerca di visioni capaci di colpire i sentimenti del lettore. Non c’è geometria e precisione, non ci sono particolari sforzi nel rappresentare strumenti tecnologici o scenari futuribili. L’origine dell’illustrazione salgariana si richiama all’elemento fondamentale della letteratura d’azione: la forza dell’uomo e dei suoi antagonisti, siano essi esseri umani, animali o la forza degli elementi. Se la fantascienza è una letteratura di idee, questa lo è di emozioni e di location esotiche. E dell’esotismo, in assenza di televisione e rotocalchi colorati, bastano i cenni dell’immaginario collettivo ottocentesco.

Non fanno tutto solo questi nomi. Ci sono poi anche i Carlo Chiostri, gli Arnaldo Ferraguti, i Carlo Linzaghi e decine di altri illustratori. Alcuni cureranno anche versioni illustrate che poi diventeranno dei quasi-fumetti (più che altro per “fantasia produttiva” dell’editore di turno) mentre altri arriveranno a lavorare sulle opere di Salgari solo dopo la morte dell’autore, per illustrare le edizioni tra le due guerre, soprattutto negli anni Venti.

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I Solitari dell’Oceano, 1904. Copertina di Carlo Linzaghi

Già negli anni Trenta l’attenzione cala. Il fascismo non aveva simpatia per Salgari: e come dargli torto, dopotutto. Sandokan è un principe che combatte l’oppressore che vuole imporre la supremazia occidentale, l’impero coloniale, per riprendere il suo trono. E molti eroi vivono mitologie all’apparenza più moderne di quel che non ci potremmo aspettare dalla letteratura italiana degli anni Venti-Trenta e primi Quaranta, se fossimo dimentichi (ma non lo siamo) della paurosa opera di rimozione e censura imposta dal regime fascista. E poi, dopo l’ultima guerra, ci penseranno un cattolicesimo oscurantista e un comunismo ciecamente ideologico a ridurre la disponibilità di cultura internazionale per l’Italia: editori come Adelphi, in fondo, devono a questa arretratezza culturale imposta e istituzionalizzata la loro fortuna.

Ma già nel fascismo Salgari (ormai defunto) aveva i suoi nemici: una delle più illustri amanti del duce, Margherita Sarfatti, lo riteneva diseducativo in quanto violento, anticolonialista e tutto sommato molto più promiscuo e meticcio (oltre che cripto-filo-americano) di quanto non fosse ammissibile, per un Paese provinciale e votato alla demagogia come l’Italia di allora.

La fantascienza di Salgari, poca ma comunque troppo complessa e problematica, non interessava neanche l’anima futurista e balbiana del fascismo, così come non aveva trovato appiglio in un’Italia liberare intenta a costruire la propria identità di Stato nazionale. La palude di inizio 900, con le avventure coloniali, gli scandali della Banca di Roma e la costante difficoltà di un sistema che non riusciva a evolvere, sino al collasso della Prima guerra mondiale, accettava di buon cuore l’escapismo nelle storie di Salgari e la dimensione eroico-romantica, ma non certo la speculazione scientifica o la complessità etica. L’illustrazione lavora su queste corde e cerca di villicare e scaldare la pancia del pubblico. Non prova ad aprire orizzonti nuovi che non fossero quelli da operetta, o da melodramma, delle grandi mascherate messe in scena a rappresentare mondi lontani e impossibili da conoscere veramente: selvaggi indiani, mari in tempesta, città travolte dalla guerra, lotte all’ultimo sangue in mari lontani.

La fantascienza – pardon, la criptofantascienza o protofantascienza – di Salgari rimane, anche per questo motivo, una nicchia all’interno del blocco composto dalla montagna di romanzi e racconti scritti dall’autore. Una nicchia piccola, sparpagliata, combattuta fra idee diverse e confliggenti del mondo unificate solo dal bisogno di produrre sistematicamente opere nuove e sotto nomi i più diversi. Viene illustrata con ricercatezza tecnica ma senza impegno ideale, senza un manifesto riconoscibile all’interno del più ampio progetto autoriale di Salgari che riguarda invece i suoi altri filoni narrativi e immaginifici.

Cosa c’è di meglio da riscoprire, insomma, se si ha una genuina passione la passione per ciò che è – almeno in apparenza – secondario?

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