Ogni settimana su Sunday Page un autore o un critico ci spiega una tavola a cui è particolarmente legato o che lo ha colpito per motivi tecnici, artistici o emotivi. Le conversazioni possono divagare nelle acque aperte del fumetto, ma parte tutto dalla stessa domanda: «Se ora ti chiedessi di indicare una pagina che ami di un fumetto, quale sceglieresti e perché?».
Questa domenica ospitiamo Roberto Gagnor, sceneggiatore Topolino. Classe 1977, Gagnor ha lavorato nel campo della pubblicità, della televisione, del cinema e della stampa, scrivendo anche per Il Post. Insegnante di sceneggiatura in varie scuole e istituti, scrive per De Agonisti e Piemme, ma la sua voce in curriculum più consistente è il lavoro per il settimanale Disney, che svolge dal 2003, e che lo ha portato a firmare storie importanti come il ciclo della Storia dell’Arte di Topolino o Topolino e il Surreale Viaggio nel Destino.
Quando me l’hai chiesto ho iniziato un drammatico processo di selezione tra le prime, tipo, venti che mi sono venute in testa. Ho anche accarezzato l’idea di sceglierla con un torneo di scontri diretti: divertente, ma ci avrei messo un giorno e avrei ancora avuto dubbi e indecisioni. Troppe tavole hanno significato tantissimo, nella mia vita e nella mia carriera. Una qualunque di Taniguchi, dal suo Uomo Che Cammina. Oppure quella meravigliosa tavola di Jimmy Corrigan, The Smartest Kid On Earth, in cui Chris Ware racconta un amore, un abbandono e un’adozione sovrapponendo piani temporali, annuari del liceo e spermatozoi. Oppure una doppia di Waid e Rivera con Matt Murdock e Foggy che chiacchierano, su e giù tra la metropolitana e una strada di Hell’s Kitchen. Ma alla fine ne sono arrivate altre due: la splash-page in cui il Batman di Miller esce dalla Batmobile, titanico e grandioso, nel silenzio di una tavola da manga… e quella che ho scelto: una tavola scritta e disegnata da Massimo De Vita per Topolino e il Ritorno del Principe delle Nebbie, terzo episodio della trilogia della Spada di Ghiaccio. Insomma, Topolino batte Batman. Un po’ come è sempre stato, nella mia vita.
Ma perché proprio questa tavola?
Perché è quasi tutta bianca. Perché è vuota, o quasi. Perché è muta, a parte l’effetto sonoro di quel “flop”. E perché, a distanza di più di trent’anni, resta una delle cose più innovative, sovversive, stranianti e meravigliose di tutto il fumetto Disney.
Già nel secondo episodio, la trilogia della Spada di Ghiaccio aveva raccontato cose diverse dal solito: e persino io, che avevo ai tempi otto-nove anni, me ne rendevo conto. In quella storia, Topolino e Pippo partecipano al Torneo dell’Argaar per ottenere una pietra che salverà Ululand dall’eruzione di un vulcano. Vincono il torneo, ottengono la pietra… ma non arrivano in tempo e il vulcano distrugge Ululand, che dovrà ricominciare daccapo, senza accrocchi tecnologici ma con più cuore (decrescita felice?). Topolino e Pippo tornano a Topolinia e il “piatto interdimensionale” che hanno usato per arrivare nella dimensione degli Uli diventa un sottovaso. Ma in questa terza storia, per un incidente domestico, Minni spedisce accidentalmente Pluto nell’Argaar! Come raggiungerlo, senza il piatto? Il saggio Yor usa allora il Copricapo dei Mugh per contattare in sogno Topolino, che prima deve scalare una piramide Maya, poi difendersi da strani pterodattili (le sue paure inconsce!) e poi… buttarsi dalla piramide stessa. Un po’ Moebius, un po’ Freud, un po’ Tolkien… e siamo solo a tavola 14. E allora Topolino si getta nel vuoto. E sprofonda in una tavola completamente bianca.
Perché la reputi così importante?
Il metafumetto irrompe nel mondo Disney, lo spazio bianco tra le vignette diventa storia e il tempo si ferma, si congela, in un attimo senza linee cinetiche, un tonfo nel silenzio… Per poi sbucare, in un effetto che non può non essere voluto, esattamente dall’altra parte della pagina. De Vita sfrutta al massimo uno dei trucchi classici della narrazione a fumetti: nell’ultima vignetta della tavola dispari [quella che compare sempre sulla destra] deve succedere qualcosa di interessante. Un cliffhanger, una gag, una sorpresa. Così tu giri pagina. Ma se tutta la tavola dispari è un’unica vignetta, quella è la più importante, quella è tutta cliffhanger, come in questo caso. Topolino cade. E sbuca nella pagina successiva, nella dimensione degli Uli. Da piccolo controllai varie volte, da una pagina all’altra del Topolino in questione: sì, Topolino cade e sbuca più o meno nello stesso punto, fisicamente, come se la pagina fosse davvero un passaggio dimensionale.
Mi pare sia la prima apparizione di una cosa così drastica su Topolino.
Da un punto di vista formale, è una rottura assoluta non solo con gli stilemi e la gabbia del fumetto Disney, ma anche col passato. È un momento di silenzio quasi da manga, è la splash-page alla Miller declinata in salsa disneyana. È la dimostrazione che con paperi e topi puoi fare tutto e raccontare tutto: non solo per quanto riguarda le tematiche, ma anche per la forma. La storia è del 1984, gli esperimenti di PK e Mickey Mouse Mystery Magazine sono ancora parecchio lontani, ma la scuola dei Disney italiani si sta già scatenando. Pochi anni prima, Pezzin e Cavazzano hanno fatto metafumetto, e poco dopo, Cavazzano si scatenerà con Casablanca, mentre Carpi debutterà con una storia dipinta, un’idea che Chierchini porterà avanti con successo. Dopo ancora, Scarpa tornerà al futuro col passato, con le storie a strisce. Per me, comunque, la cosa più importante rimane l’emozione che ho provato da piccolo, leggendo questa storia per la prima volta. Ma allora, il fumetto può fare proprio di tutto.
Può sconvolgerti, anche nella coperta calda delle storie Disney che ami e conosci bene. Può appassionarti, smontandosi e rimontandosi. Ma prima, devi imparare le regole, leggendo e rileggendo i più bravi, quelli che sono venuti prima di te. Così, dopo, puoi farle a pezzi, quelle regole. Pur restando nell’alveo di una tradizione gloriosa, chiarissima e ben delineata.
Insomma, in una storia Disney si può fare di tutto, purché resti una storia Disney. E questo ritorno del Principe delle Nebbie, anche dopo la tavola bianca, è pura gioia disneyana, tra gioco (Pippo che sconfigge il Saggio della Montagna… a dadi, e lui che gli cede il macguffin senza fare una piega), avventura (il Principe delle Nebbie, appunto!) e malinconia (il piatto dimensionale resterà a Ululand: Topolino e Pippo non potranno mai tornarci, ma resteranno nelle loro leggende, come eroi. Almeno… fino al quarto episodio!). Ma allo stesso tempo, c’è quella meravigliosa tavola bianca.
De Vita nel corso della saga fa uso di questa e altre tecniche metafumettistiche. Penso allo schemino con i dettagli dei costumi del Principe delle nebbie. O alla presenza dell’autore stesso nel finale. Tutti modi per creare una complicità che annulla il filtro di narrazione tra lui e il lettore. Come credi che venisse percepito all’epoca questo stile? Mi pare che adesso, pur senza certe rigidità, la regola (con le solite eccezioni) sia di rendere invisibile la mano dell’autore durante la fruizione della storia.
All’epoca secondo me era una cosa gradita… Io l’adoravo! Poi, come dici tu, la regola generale in Disney è che prima c’è Disney, poi l’autore, ed è giusto così: naturalmente, poi ogni autore cerca di metterci del suo, di spostare il limite, di farsi notare. Magari in modo meno metatestuale, ma sicuramente con i propri “marchi di fabbrica”.
Scrivo Disney da qualche anno. Ci ho messo un bel po’ a imparare le regole. E altrettanto a capire come sperimentare. Ora cerco di fare entrambe le cose. Un po’ di nuovo e un po’ di vecchio: la base di tutta la cultura di massa. La ragione e il motivo per cui continuiamo a raccontare – e a farci raccontare – storie come questa.