Se siete tra quelli che trovano divertenti fiotti di sangue, battaglie a colpi di dildo e gentaccia intenta a sputare oscenità dietro a un microfono allora è probabile che vi siate gustati con una certa soddisfazione Deathgasm. Un minuscolo – sotto ogni punto di vista – film neozelandese del 2015, capace di guadagnarsi un discreto riscontro di pubblico grazie a una miscela particolarmente riuscita di commedia adolescenziale e splatter.
La vicenda ruota tutta attorno a un’improbabile band death metal e alla scoperta di un disco maledetto, così oscuro da essere in grado di risvegliare una terribile entità ultraterrena. Se la percentuale horror della sceneggiatura offre l’occasione di mettere in scena un discreto numero di morti creative, la quota musicale è perfetta per ricreare certe atmosfere giovanili.
Sono due in particolare i momenti in cui – sempre che quegli anni li si sia vissuti nel nome del metallo più oltranzista – non ci si può non riconoscere nel protagonista. La gara di celodurismo al negozio di dischi nello scovare la chicca più cacofonica e priva di compromessi e l’imbarazzante fase della vita in cui si crede che disgustare chiunque ci stia attorno con copertine repellenti sia un buon modo per approcciarlo sessualmente. Spoiler: non ha mai funzionato.
Proprio come il protagonista crede di potersi avvicinare alla bella di turno sfoggiando un disco dei Cattle Decapitation, anche il sottoscritto aveva infilato nel suo mobiletto Ikea un buon numero di dischi da mostrare con orgoglio alle ragazze della sua classe del liceo. C’erano però due artwork così sopra le righe da non aver mai meritato questo trattamento privilegiato e che addirittura a casa finivano infilati nel jewel case del cd al contrario. Perché puoi essere un metallaro duro quanto vuoi, ma la mamma ha pur sempre il potere di infilare tutta la tua robaccia in un sacco nero.
Il primo era la raccolta Almost Human dei Cripple Bastards, che all’epoca della sua uscita finì al centro di furibonde proteste in tempo zero. L’immagine di copertina riportava un frame da una pellicola pornografica in cui vediamo un ossuto John Holmes mentre obbliga una ragazza a praticargli del sesso orale puntandogli una pistola alla testa. Quanta classe, vero? Se non bazzicate certi ambienti la vedo difficile che riusciate a immaginarvi qualcosa di peggio, eppure si può sempre sprofondare qualche centimetro più in basso.
È proprio il caso dei Whore, mediocre band grindcore statunitense senza arte ne parte, ma con l’intuizione di commissionare a un certo Mike Diana una bella illustrazione per il loro Unfinished Business. Il risultato si era concretizzato in un disegno dilettantesco di un uomo che, dopo aver squarciato il ventre a una donna incita, urina in bocca al feto ancora attaccato al cordone ombelicale. Il tutto su uno sfondo così vivace di svettare in mezzo a qualsiasi scaffale come un faro nella notte.
Diana era già comparso nella mia collezione di dischi, per la precisione nei credits per l’artwork di Our Problem degli inglesi Iron Monkey. Quando il disco era chiuso pareva che il suo lavoro si limitasse a un brutto primo piano di una scimmia deforme, ma una volta aperto il mini poster si rivelava in tutta la sua carica grottesca. Lo scimpanzé era crocifisso, dotato di un enorme pene trafitto da una siringa. A fargli da cornice teste mozzate legare a palloncini, altri falli e un sacco di altra roba discutibile. Non siamo al livello degli Whore, ma poco ci manca.
In ogni caso si trattava di due opere davvero oltraggiose, di quelle che sotto sotto disturbano un po’ tutti. E se non era per i contenuti allora ci riusciva quel tratto incerto, quasi infantile, riconoscibile tra mille. O l’assoluta incapacità di mettere assieme i colori in maniera armonica. Ma sopratutto il fatto, stupefacente e inaccettabile, che qualcosa di così rozzo e primordiale riuscisse a fare il giro del mondo e a finire in mano a un tizio qualunque disperso nella provincia del Nord Italia.
Era un risultato davvero incredibile per qualcosa che non si limitava a essere brutto, ma ne infrangeva i limiti e si elevava a ricettacolo di ogni forma di depravazione. L’arte di Diana sarà di una povertà intellettuale disarmante, ma di certo non annoia e non passa inosservata. Un pregio tanto indiscutibile da far finire in galera l’autore. Per capire come, vale la pena raccontare questa incredibile storia fin dall’inizio.
Mike Diana nasce a New York nel 1969. Come ogni singolo articolo sulla sua vita ci tiene a precisare, viene battezzato cattolico. Incomincia fin dall’asilo a disegnare robe problematiche e all’età di nove anni si trasferisce con la famiglia nella puritana Florida. Il bigino del perfetto serial killer tratteggiato da un qualsiasi programma contenitore del pomeriggio.
In un numero di metà anni Novanta della fanzine Obscure (trovate la trascrizione dell’intero articolo, basato a sua volta sui rapporti della Electronic Frontier Foundation, qui) ci si spinge oltre, descrivendo l’infanzia del fumettista come una sorta di Luna Park bizzarro e repellente. Si parte raccontando di come all’età di sette anni il giovane autore fosse sottoposto a continui clisteri da parte della madre, all’epoca studentessa di infermeria. Una pratica tanto reiterata da spingere il diretto interessato a definirsi come «la sua cavia da laboratorio». Sempre Diana ricorda di come suo padre avesse vinto a un’asta due enormi borse piene di bamboline voodoo fatte a mano da fattucchiere di Haiti. Un acquisto quantomeno strampalato, che la famiglia del fumettista penserà bene di riciclare come decorazioni per l’albero di Natale. «Quando avevo 12 anni – spiega il fumettista – avevo un piccolo criceto maschio e mia sorella ne aveva uno femmina, così una notte mia madre ci chiamò nella sua stanza e ci chiese di portare con noi i due animaletti. Ci disse che era ora di spiegarci qualcosa sul sesso. Mise i criceti sul letto e obbligò me e mia sorella a guardarli mentre si accoppiavano. Quando i criceti finirono ci spiegò che quello era il sesso».
Non ho idea di quanti di questi racconti possano essere veritieri al 100%, ma anche se lo fossero in minima parte darebbero comunque un’idea piuttosto nitida del tipo di ambiente libertario in cui il Nostro è cresciuto. Piuttosto non sarebbero in nessuna misura utili a fornire materiale per disquisire sul perché abbia cominciato fin dall’asilo a dipingere scene di decapitazione, a realizzare collage con i resti di pesci morti trovati in spiaggia o a disegnare i componenti della sua famiglia completamente nudi. Non è un caso infatti che Diana si ostini a sostenere come la sua vocazione artistica derivi prima di tutto dalla voglia di imitare gli Ugly Stickers di Norman Saunders regalatogli da sua madre. La sua famiglia poteva essere stramba quanto volete, ma nel corso degli anni avrà diverse occasioni per dimostrarsi molto più amorevole e affettuosa di quanto ci si aspetterebbe.
Come volevasi dimostrare, in Florida la sua vita procede tranquilla. Non si manifesta nessun avvenimento particolare se non il divorzio dei genitori. Diana si barcamena con un rendimento scolastico piuttosto scarso salvato solo dagli ottimi voti in educazione artistica. Ispirato da quegli stessi fumetti autoprodotti che era solito ordinare per corrispondenza – unico modo di aggirare il divieto ai minori – decide di investire questo suo talento disegnando strane strisce fatte di violenza sui professori, accoppiamenti bestiali e scatologia. Li fotocopia con la Xerox dell’ufficio di sua madre presso la stazione di polizia dove lavorava (evidentemente il corso di infermiera non era andato come ci si aspettava) e li distribuisce a scuola. A casa cerca di tenere nascosta questa sua attività, ma il padre lo scopre subito. La reazione del genitore non è certo delle più terribili, limitandosi a un affettuoso «Perché non dipingi qualcosa di bello?».
Una volta diplomato arriva la vera rivoluzione. Appoggiandosi a un amico impiegato presso una copisteria da alle stampe la sua prima vera fanzine: Angelfuck. Ne usciranno tre numeri. Nel frattempo trova lavoro come bidello in una scuola elementare, dove approfitta del sabato mattina deserto per fotocopiare il primo numero di Boiled Angel. Il materiale è sempre più estremo e la tiratura è di sole 65 copie. La fama del nuovo antologico a firma Mike Diana cresce parecchio nei mesi, rimanendo sempre e comunque un fenomeno di ultranicchia. Si parla di una tiratura massima di 300 copie distribuite via posta in tutti gli Stati Uniti. Scoperto da una segretaria viene licenziato, il padre lo assume nel suo negozio di liquori e la sua produzione artistica continua senza sosta.
Nel frattempo, siamo nel 1990, a poche decine di miglia dalla sua casa vengono ritrovati i corpi mutilati di cinque studentesse di neppure vent’anni. Prima di essere pugnalate a morte le ragazze hanno subito violenze sessuali e i cadaveri vengono abbandonati in posizioni che vorrebbero essere provocanti. La polizia brancola nel buio, mentre tutti i campus dello stato sono costretti a prendere misure di sicurezza. L’unico sospetto è un giovane studente che pare prestarsi perfettamente al classico identikit del killer represso: affetto da disturbi della psiche (nulla di troppo grave, visto che comunque frequentava l’università), sfregiato in volto da un incidente d’auto e appassionato lettore di Boiled Angel. Particolare che sfugge agli inquirenti fino al 1991, anno in cui un’altra copia della fanzine capita tra le mani di un funzionario di polizia desideroso di qualche attenzione. Si tratta del numero 6. Per la precisione una delle sole 10 copie del magazine spedite da Diana, il che rende questa casualità quanto meno curiosa o comunque poco verificabile a distanza di oltre 25 anni.
Mike descrive la copertina come «un disegno di un ragazzo che spalanca le gambe di una ragazza e ne estrae un feto. Il ragazzo mi assomiglia – quasi un autoritratto. Ero stato influenzato da una serie di omicidi accaduti a Gainesville». Proprio il massacro su cui la polizia stava indagando. Non era la prima volta che il fumettista si inspirava a fatti realmente accaduti. Scott Pfeiffer di Rock Out Censorship lavorava presso la copisteria dove venivano stampati gli albetti e racconta di come «molto del materiale era scontato e privo di gusto. Tutto prendeva inspirazione da incidenti reali, come preti che molestavano bambini. Era più shockante del tg della sera solo perché lasciava meno all’interpretazione». La polizia pensa bene, con uno spettacolare doppio salto mortale, di collegare le due cose e di incriminare Diana come colpevole della strage. La madre spinge per un test del DNA che infatti decreta immediatamente l’innocenza del figlio, scagionandolo da ogni accusa.
Questo non impedisce però all’agente Michael Flores di scrivere a Mike Diana fingendosi un suo grande fan ed evitando con cura di specificare la sua posizione nelle forze dell’ordine. Il tutto per poter acquistare i numeri #7 e #8 (numerato in copertina come #Ate) della fanzine. L’obbiettivo è semplice: denunciare il giovane come nemico della pubblica decenza e guadagnarsi il ruolo di paladino della moralità nella placida Largo.
Ancora una volta al giovane autore le cose non vanno benissimo. L’ottavo numero è completamente dedicato al cannibalismo e riporta al suo interno alcune tra le sue trovate più disgustose. Una su tutte l’intervista al serial killer cannibale Ottis Toole, ben contento di svelare al pubblico la ricetta della sua rinomata salsa barbeque a base di ragazzino.
Per Diana è l’inizio di un calvario durato anni. Quando arriva in tribunale nell’aprile 1993 trova un numero sostenuto di giornalisti ad attenderlo, folla destinata a infittirsi con il passare dei mesi e l’accumularsi dei ritardi. Incominciano a spuntare i primi dibattiti televisivi e le manifestazioni contro il giovane. Tra queste spiccano i rumorosi picchetti delle Women Opposing Pornography. L’accusa parla di “corruzione della fibra morale del paese”, Diana risponde con un laconico «Pensavo ci fosse libertà. E la mia distribuzione è così piccola che non avrei mai pensato che loro potessero avercela con me». Un’attitudine schietta e sottilmente strafottente che porta avanti per tutto il processo. Lo stesso trattamento è riservato alle interviste con i giornalisti, improntate prevalentemente alla ricerca di presunte violenze subite in famiglia. A testimonianza di quanto questo luogo comune fosse assurdo, i genitori non hanno mai abbandonato il figlio, ormai ventiquattrenne, sostenendolo in continuazione. «Non puoi essere arrestato per quello che hai in testa. Non stai facendo del male a nessuno. Lo hanno accusato di un crimine a 150 miglia da qui solo perché disegna fumetti», sono le parole del padre.
L’avvocato dell’accusa Stuart Baggish intende sfruttare il processo del 1973 Miller v. California per allargare il range di quello che può essere considerato osceno, scavalcando i limiti protetti dal Primo Emendamento. Grazie al precedente venutosi a creare, ora ogni stato potrebbe arrivare a valutare cosa è accettabile o meno in totale autonomia. Il tutto basandosi solo sulla mancanza di un “serio valore letterario, artistico, politico o scientifico” del testo in questione. Praticamente ogni cosa non gradita al giudice o alla giuria potrebbe essere bandita.
Diana viene costretto da giudice Walter Fullerton a trascorrere in custodia il weekend prima della sentenza nell’ala di massima sicurezza del carcere di competenza. Se dovesse perdere il processo dovrebbe pagare 3.000 dollari di multa, dedicare 8 ore alla settimana ai servizi sociali, frequentare un corso di etica giornalistica, non avere più contatti con i bambini ed evitare in ogni modo di disegnare. Anche nello spazio privato della sua abitazione, visto che gli agenti della polizia sarebbero autorizzati a entrare in casa sua senza il bisogno di alcun mandato.
Diana è il primo fumettista americano della storia a essere incarcerato per il suo lavoro. Ed è più o meno a questo punto che entra in ballo il Comic Book Legal Defense Found, finalmente alle prese con il loro primo caso davvero importante dopo aver passato anni a difendere gestori di fumetterie accusati di vendere fumetti per adulti a minori.
Nonostante le premesse tragicomiche le cose incominciano comunque a mettersi meglio, anche per l’appoggio dimostrato al giovane da autentici giganti dell’industria. Il primo di molti a mobilitarsi è Art Spiegelman, che non esitata a definire le scelte del tribunale floridense come “barbariche”.
Così, dopo un paio di appelli e una petizione curata dal noto avvocato George Rehdart – e nonostante la corte non si sia mai fatta problemi a ricorrere a mezzi scorretti come l’utilizzo di prove raccolte dopo il processo originale – Diana si trasferisce a New York e da il via alla sua seconda vita. Esaurisce le ore di volontariato, uno psicologo lo definisce come assolutamente sano e frequenta un corso di etica giornalistica. Ma sopratutto può ricominciare a disegnare, a patto di non tornarsene mai più in Florida.
Siamo onesti: essere accusato di oltraggio del pudore per i propri fumetti è un biglietto da visita non indifferente. Molte delle dichiarazioni di questo articolo vengono da un’intervista pubblicata su Vice, pubblicata in concomitanza di una sua mostra londinese. Grosse testate come Wired gli commissionano illustrazioni. Lui stesso ricomincia a ripubblicare il suo materiale in diversi formati, dall’esauritissimo The Worst of Boiled Angel alle oltre 500 pagine di America: Live/Die – volume che segna inoltre l’inizio del rapporto tra Mike Diana e Neil Gaiman.
Ci sarebbero poi decine di apparizioni sulle peggio fanzine del mondo, da Answer Me! in giù, e le copertine di dischi di cui si parlava prima. Il suo ultimo lavoro risulta essere Firebrat per la misteriosa casa editrice Crna Hronika. E questo ci porta ai giorni nostri, quando il regista di culto Frank Henenlotter decide di dedicare a tutta questa folle vicenda un documentario.
Dopotutto chi meglio della mente dietro a gemme come Basket case o Frankenhooker potrebbe raccontarci nel migliore dei modi questa storia? Il progetto prendere rapidamente forma e da qualche giorno ha concluso la sua corsa su Kickstarter, superando la quota fissata di 40000 dollari e arrivando a raccogliere abbastanza denaro per permettere a Diana di pagare al multa e potersene tornare a casa sua in Florida. Un grande risultato raggiunto anche per il supporto offerto da stelle del fumetto come Neil Gaiman, Stephen Bissette e Peter Bagge.
Thrilled to see the Trial of Mike Diana made its goal. 24 hours left to get in on the rewards. https://t.co/wqkAHMxw7j
— Neil Gaiman (@neilhimself) November 17, 2016
Negli Stati Uniti e all’estero la campagna di raccolta fondi è stata seguita da un numero considerevole di testate, tra cui ad esempio il Guardian, cosa piuttosto insolita se si considera il materiale di partenza. Boiled Angel sarà anche assurto a simbolo di libertà d’espressione, ma si trattava comunque di un fumetto fotocopiato basato su minuscole storielle comiche a base di pedofilia, incesto, scatologia, ultraviolenza e sproloquio. Il tutto disegnato con un tratto più vicino agli scarabocchi sui bordi dei libri delle medie che a qualche raffinata graphic novel consigliata dal New York Times.
Penso sia chiaro come non si tratti di un piatto alla portata del palato di tutti. Ma allora perché questo documentario rischia di diventare così importante? Forse perché c’è bisogno di tornare a parlare di politicamente scorretto nella giusta ottica, e Diana è un punto di partenza perfetto per poterlo fare.
Viviamo in tempi complessi, dove il terrore delle conseguenze legali o sociali dell’aver offeso qualcuno ci ha paralizzato. Ogni minimo scivolone è l’occasione giusta per far montare casi enormi, che magari noi percepiamo come innocui e estemporanei ma che invece lasciano sempre e comunque delle conseguenze devastanti su chi ne viene coinvolto.
In un articolo del The Washington Post il giornalista Barton Swaim ci spiega come sia stata l’avversione contro questa correttezza imposta a spianare la strada a Trump. Uno percepito come “vero” solo perché non si fa problemi a offendere chiunque. E senza andare fino negli Stati Uniti basta guardarsi attorno per capire come anche da noi le cose non si stiano mettendo per il meglio. Un sacco degli elettori si dice stanco della pulizia e delle facciate concilianti dei politici di professione, ma quante di queste persone sarebbero state disposte a difendere Boiled Angel in tribunale? O forse sarebbe stato più facile vederli nello spiazzo fuori dalle aule, brandendo cartelli sgrammaticati e urlando slogan petulanti?
Eppure anche Diana si scagliava sopratutto contro il buonismo. «Il mio obiettivo era realizzare la fanzine più offensiva mai prodotta» lo si sente pronunciare nel trailer di The Trial of Mike Diana. E tanto basta per chiarire dove volesse andare a parare con il suo lavoro: una grassa e grossa scoreggia fatta in un ascensore pieno di gente con un sorriso a trentadue denti stampato in faccia. Vederci l’intenzione di corrompere il tessuto sociale significa dargli un peso assolutamente fuori misura.
Tutto il senso della scorrettezza politica è contenuto nell’innocua commedia di cui parlavamo all’inizio di questo articolo. Non c’è davvero molto di più. Infrangere le regole del buon gusto in maniera così esplicita è una scelta dettata solo dalla voglia di divertirsi disgustando qualcuno. Magari mostrandogli le copertine dei nostri dischi più inaccettabili, crogiolandoci nell’aver scovato quella più bestiale e depravata di tutti i tempi. Come ci piaceva fare da ragazzini. L’aspetto più centrato e incredibile della produzione di Diana è l’essere riuscito a rimanere sempre aderente a una certa sensibilità tipica di una buona fetta di adolescenti maschi.
Nel recente Almanacco de I Fumetti della Gleba Federico Bernocchi spiega come il dr. Pira sia uno dei pochissimi in grado di “simulare il pensiero del fanciullino”. Boiled Angel era la stessa cosa, ma traslata di 7/8 anni. Un po’ come sta cercando di fare il famosissimo game designer David Jaffe con il suo nuovo Drawn to Death.
Si tratta di opere guidate dalla ricerca di un divertimento liberatorio, slegato dal mondo reale. Chi è dotato di talento riesce a raggiungere tali risultati in maniera spietata e tagliente come una lama di rasoio, mentre la maggior parte della gente si limita a farla fuori dal vaso. Finendo magari per fare la figura di quello un poco lento piuttosto che del provocatore. Perché non è detto che ci debba piacere tutto per forza di cose, solo per paura di poter passare dalla parte del torto. Tenendo presente che il massimo della reazione dovrebbe essere comunque uno sbuffo annoiato, non la censura preventiva o la partenza dell’ennesima crociata social fatta a colpi di condivisione.
Come ci spiega lo stesso Gaiman in una conversazione con Stephen Bissette filmata per la promozione di The Trial of Mike Diana, se qualcosa non ti piace basta smettere di guardarla. In ogni modo possibile, anche distruggendo fisicamente la propria copia del soggetto di tanta avversione. Basta limitarsi alla nostra sfera personale però, evitando di prendere scelte anche per altri.
Vale la pena ricordare ancora una volta come si tratti di lavori di finzione studiati con l’idea di strappare una grassa risata liberatoria a chi ne è in grado di decodificarne i contenuti, nulla di più. Non riesco a trovare dimostrazione migliore di questo se non nella mitologica ospitata dei Gwar al Jerry Springer Show. Una band nota per i suoi costumi da alieni superdotati, per i loro show a base di eiaculazioni sul pubblico, decapitazioni papali e sanguinolenti combattimenti con dinosauri – senza contare hit del calibro di Saddam a Gogo – ospite nel salotto più iperpopulista della tv statunitense (se volete farvi una cultura su questa band procuratevi una qualsiasi testimonianza live dei primi anni Novanta, evitate con cura le ultime fiacche uscite).
Era palese come l’obbiettivo del conduttore fosse quello di suscitare un vespaio e mettere in croce i musicisti. Eppure i Nostri furono in grado di vincere il dibattito con una sola risposta, la più semplice possibile. Alla domanda «Su cosa si basa di preciso la vostra band?» eccoli rispondere con prontezza «Entertainment». Se qualcuno cerca di convincerti che dietro a ogni singola provocazione ci sia sempre l’intenzione di far riflettere o di suscitare chissà quale ragionamento, sappiate che non potrebbe essere più nel torto. O, più semplicemente, non ha ancora finito di prenderti per il culo.