Nei primi anni Sessanta, quando Stan Lee mise su quasi dal nulla la Marvel Comics – lanciando personaggi come Fantastici Quattro, Spider-Man, Hulk e tanti altri – il punto di riferimento principale per lo stile di disegno dell’editore divenne Jack Kirby. Stan chiedeva a tutti gli autori con cui collaborava in quegli anni di disegnare come Kirby, arrivando persino ad asfissiarne alcuni (come John Buscema) e ad allontanarne altri (Wally Wood). Stan fece poche ma significative eccezioni, e tra queste ci fu Gene Colan. Il disegnatore riprendeva la stessa filosofia di Kirby, legata alla resa espressiva del disegno davanti a ogni altra cosa, ma lo stile di disegno di Colan era completamente all’opposto rispetto a quello di Kirby. Dove lo stile di Kirby era solare, quello di Colan era cupo; dove Kirby prediligeva le esagerazioni anatomiche per meravigliare il lettore, Colan contorceva corpi anatomicamente naturali allo stesso scopo; dove Kirby amava inventare e creare, Colan preferiva riprodurre e personalizzare.
«Lo stile di Gene era troppo unico, troppo differente», avrebbe raccontato Lee. «Non avrebbe dovuto disegnare sui layout di nessuno, perché altrimenti non sarebbe sembrato Gene Colan.» Per Tom Field di The Comics Journal, la differenza tra Kirby e Colan poteva essere sintetizzata così: «Se Lee e Kirby erano i Lennon & McCartney di Marvel Comics, allora Colan era il Brian Wilson: un genio tormentato che combatteva le proprie emozioni e l’influenza degli altri». Insomma, Colan sembrava, in tutto e per tutto, un vero “anti-Kirby”, anche se forse la definizione più appropriata la diede lo sceneggiatore e storico del fumetto Roy Thomas, quando lo definì l’anello di congiunzione tra Kirby e Neal Adams, tra l’espressionismo del primo e il realismo del secondo.
Quando Colan approdò alla Marvel di Stan Lee, aveva già alle spalle un paio di decenni di esperienza, in cui aveva formato pienamente il proprio stile. Dopo gli studi artistici, aveva iniziato subito a lavorare per le case editrici maggiormente attive nell’immediato secondo Dopoguerra, tra cui EC Comics, Timely Comics e National Comics, disegnando storie horror, belliche, western o rosa, ovvero i generi più in voga in quegli anni. Appassionato di cinema e pittura (amava soprattutto Norman Rockwell), da ragazzo Colan aveva molto apprezzato le classiche strisce Terry and the Pirates di Milton Caniff e Dickie Dare di Coulton Waugh, ed era stato dunque da lì, e in particolare dai giochi di luci e ombre, che aveva deciso di iniziare la propria evoluzione artistica. La sua biografia del 2005, sarebbe stata non a caso intitolata Secrets in the Shadows, “i segreti tra le ombre”.
Durante gli anni Cinquanta, però, il giovane Colan aveva iniziato a guardare con sempre più attenzione a Reed Crandall, raffinato disegnatore suo contemporaneo – ma da lui mai conosciuto di persona – di storie di guerra e horror per EC Comics e Quality Comics. Anche lo stile di Crandall era parecchio influenzato da quello di Caniff, ma più realistico e soprattutto dotato di quella fluidità nella caratterizzazione delle anatomie da cui Colan avrebbe attinto a piene mani, rendendola una delle sue migliori peculiarità.
La lezione appresa da Crandall gli tornò utile nei primi anni Sessanta, quando Stan Lee lo arruolò per la neonata Marvel. In quel periodo Colan stava realizzando lavori minori per DC Comics e come autore di filmati educativi per un’agenzia pubblicitaria. In un’intervista con Roy Thomas per Alter Ego (Vol. 3) #6, a fine anni Novanta Colan ricordò il dialogo avuto con Lee, che rivelava anche la praticità del suo carattere:
Stan mi chiese di andare a lavorare con lui. Non ricordo come, ma so che entrammo in contatto e lui mi chiese «Che ne dici di venire da noi?». E la mia risposta fu: «Be’, qual è l’offerta? Perché dovrei lasciare la DC per venire a lavorare con te, se non c’è un qualcosa che mi invogli a farlo? Io non ho intenzione di lasciare la DC». E lui disse: «Be’, se stai cercando più soldi, è inutile. Perché, prima o poi, loro dovranno licenziarti, e tu dovrai venire da me». Io sorrisi e dissi: «Stan, credo di dover andare». Gli strinsi la mano e gli dissi: «Nessun problema, resterò dove sono». Il giorno dopo, ricevetti una telefonata di Stan, che mi offrì più soldi. Aveva cercato di bluffare con me… e io l’avevo stanato.
Messo al lavoro sulle storie di Namor il Sub-Mariner (con lo pseudonimo di Adam Austin per tenere nascosta alla DC la sua nuova collaborazione con Lee) su Tales to Astonish e di Iron Man per il mensile Tales of Suspense, Colan adottò un approccio più espressionista che in passato, guardando in parte anche a Kirby, per fornire alle proprie tavole una grande efficacia scenica. Ma il suo interesse principale era l’espressività dei personaggi, che riuscì a imprimere anche su Iron Man, tramite leggere modifiche alla fredda maschera dell’eroe in armatura, variando le angolature delle fessure per gli occhi e la bocca. Non si era invece trovato a suo agio con Sub-Mariner, perché, con le sue ambientazioni sottomarine, doveva avere a che fare con una sorta di fantascienza per la quale non si sentiva adatto.
Colan prediligeva infatti le più realistiche ambientazioni urbane, così fu poi trasferito sulla testata dedicata a Devil, personaggio che fino a quel momento aveva faticato a trovare una propria identità, sospeso com’era tra Batman e l’Uomo Ragno. Il disegnatore si adattò molto bene al cosiddetto “metodo Marvel di scrittura”: così come faceva con tutti i suoi collaboratori, Lee forniva a Colan solo un breve canovaccio dei singoli episodi, aggiungendo i dialoghi solo dopo che lui lo avesse sviluppato (più o meno a suo piacimento) in una storia vera e propria. In questo modo il disegnatore riuscì a dare la propria impronta al personaggio, rendendolo sempre più distintivo.
In particolare, Colan accentuò la deriva malinconica del personaggio, stabilendo quella che sarebbe stata l’atmosfera della serie almeno fino ai primi anni Ottanta. Il suo stile caratterizzato da un forte contrasto tra luci e ombre fu fondamentale per rimarcare l’anima tormentata di Devil, diviso tra le sue due carriere: avvocato di giorno – nei panni di Matt Murdock –, giustiziere mascherato di notte. Parallelamente, l’autore riuscì a fornire anche un carattere più ‘comico’ alla serie – prendendo spunto da quanto fatto da Will Eisner con The Spirit – tramite soprattutto il personaggio di Foggy Nelson ma anche gli atteggiamenti da sbruffone dello stesso Devil. Ma, soprattutto, Colan puntò molto sull’aspetto acrobatico del personaggio, concentrandosi su inquadrature e coreografie, pur se a discapito dell’accuratezza nello storytelling. Il suo scopo era quello di far perdere l’equilibrio al lettore, con vignette quasi mai perfettamente squadrate.
Colan disegnò le storie di Devil in maniera continuativa per molti anni, fino al 1973 e poi sporadicamente tra il 1974 e il 1979, tanto da guadagnarsi il soprannome di “Decano”. Vista la sua prolificità – realizzava due pagine al giorno, lavorando sette giorni su sette – in quegli anni Colan ebbe comunque modo di dedicarsi ad altri importanti personaggi come Capitan Marvel, Dottor Strange e Capitan America. Sulle pagine della testata dedicata a quest’ultimo creò, insieme all’immancabile Stan Lee, Falcon, primo supereroe afroamericano della storia del fumetto statunitense. L’idea di Falcon giunse proprio da Colan, che nella prefazione al quarto volume di Marvel Masterworks: Captain America – che ristampava la storia con l’esordio del personaggio – affermò quanto amasse disegnare personaggi di colore: «Ho sempre trovato i loro tratti somatici interessanti, e mi sembra che abbiano gran parte della loro forza, del loro spirito e della loro saggezza stampati in faccia. Così andai da Stan, da quel che ricordo, con l’idea di introdurre un eroe afroamericano, e lui la prese bene. […] Guardai diverse riviste afroamericane e le usai come base per portare in vita Falcon».
Anche il Dottor Strange era un personaggio che lo divertiva molto, come rivelato a Kevin Hall del sito americano Man Without Fear, dedicato a Devil: «Mi piaceva farlo perché eravamo nel mezzo degli anni della psichedelia e tutti prendevano droghe e altre cose selvagge così. Quindi avevo l’opportunità di creare delle ambientazioni selvagge in linea con l’epoca. Era divertente.»
Nel 1972, Colan decise per una svolta importante nella sua carriera: consapevole di aver dato tutto al personaggio di Devil, accettò di disegnare una nuova serie horror, The Tomb of Dracula, su testi di Marv Wolfman. In quegli anni, la Marvel stava cercando di differenziare le tematiche delle proprie testate, e quello fu il tentativo più riuscito di trovare uno sbocco nel mondo dell’orrore. Wolfman e Colan realizzarono un lungo ciclo di racconti (circa una settantina), che sarebbe poi diventato il lavoro più significativo delle loro carriere. Il disegnatore prese il celebre vampiro creato da Bram Stoker nel 1897 e lo rielaborò in modo peculiare, fornendogli i lineamenti (cadaverici, a suo dire) dell’attore Jack Palance, che aveva visto in un adattamento televisivo di Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde e aveva ritenuto perfetto per ‘interpretare’ un personaggio horror. Il suo stile si fece ancora più oscuro: le grandi campiture di nero sembravano vive e ricoprivano tutto in modo netto, dando alla serie un’atmosfera tenebrosa come di rado si era visto in precedenza in un fumetto seriale di Marvel Comics. Il layout si adattò di pari passo, perdendo in dinamicità ma guadagnando in mellifluità, con i contorni delle vignette che si facevano spesso fumosi e indistinti.
Su The Tomb of Dracula, inoltre, Colan trovò il suo inchiostratore ideale, Tom Palmer, che con le sue pennellate spesse e decise, contribuì ad accrescere la tenebrosità delle storie. In un’intervista con Tom Field per Comic Book Artist #13 della TwoMorrows Publishing (tradotta da Andrea Pachetti per Conversazioni sul Fumetto), Colan adulò in modo esplicito l’inchiostrazione di Palmer (pur riservandogli una critica):
Mi piaceva molto il lavoro di Tom. Un’inchiostrazione ricca, metteva tutto ciò che mi piaceva ˗ un po’ simile a Caniff. Il mio tratto non è semplice da seguire: dannazione, deve averci passato un sacco di tempo sopra. Anche Tom è un illustratore, ha realizzato un sacco di disegni per la pubblicità, così lui era proprio la persona giusta. C’era però una tecnica che Tom usava molto spesso e che io non sopportavo: si trattava del Ben-Day, un tipo di tratteggio a punti con cui sfumava le mie matite: era una sua caratteristica, ma non capivo perché lo facesse. Pensava che la tavola in questo modo sarebbe diventata grandiosa…
Lo stesso Palmer elogiava il lavoro di Colan, dal suo punto di vista privilegiato:
Le sue matite erano delicate. […] Se guardi le sue pagine a matita, vedi un rendering molto leggero, un grigio. Di solito hai tre valori distinti nelle matite: luce, medio, buio. Alcuni inchiostratori ignorano la luce e rendono il medio nero come il buio, ma io vedevo tutti i tre valori. La differenza era tutta lì.
Autore fedele ai personaggi, ma sempre desideroso di nuove sfide, nel 1973 Colan rilanciò con lo sceneggiatore Steve Gerber il personaggio di Howard il Papero, dimostrando di sapersi adattare anche a storie umoristiche, da lui affrontate con uno stile più grottesco. In realtà, aveva inizialmente snobbato il lavoro come un declassamento, considerato il fatto di dover disegnare (in apparenza) solo dei “funny animals”. E invece Colan si appassionò a quel lavoro e scoprì una vera e propria passione per il fumetto umoristico, che nel corso dei decenni successivi avrebbe prodotto esempi curiosi, come alcune storie di Archie e persino una storia di quattro pagine per Walt Disney. Intitolata “Tomb of Goofula”, questa vedeva Topolino e Pippo protagonisti di una parodia del suo Dracula, scritta oltretutto da Wolfman.
L’interesse principale era però per lo stile ‘oscuro’ mostrato su The Tomb of Dracula, così, quando nel 1981 tornò alla DC, il suo approdo sulle testate Batman e Detective Comics dedicate all’Uomo Pipistrello fu naturale. Colan realizzò numerose storie di Batman, del quale rimase il disegnatore di riferimento fino al 1986, collaborando con Gerry Conway e Doug Moench, in un periodo nel quale il personaggio aveva abbandonato le atmosfere camp dei Sixties e – rilanciato con un maggiore realismo da Dennis O’Neil e Neal Adams – si stava avviando verso la rivoluzione di Il ritorno del Cavaliere Oscuro di Frank Miller.
Nella seconda metà degli anni Ottanta, nonostante gli oltre quarant’anni di carriera, l’autore decise di iniziare a sperimentare nuovi stili di disegno fuori dal mercato mainstream. Per la rivista Eclipse dell’omonima casa editrice, si diede all’acquerello, mentre con Don McGregor creò il personaggio di Nathaniel Dusk – un detective privato senza alcun superpotere – per DC Comics. Nel 1989 tornò a lavorare per la Marvel realizzando il serial Panther’s Quest, con protagonista Pantera Nera, scritto da McGregor e pubblicato sull’antologico Marvel Comics Presents. In una storia che trattava il tema dell’apartheid, la sua Africa ricordava la Transilvania disegnata qualche anno prima per l’atmosfera lugubre e oscura che emanava, mentre la disperazione dei protagonisti trasudava dalle pagine. In riferimento alla sua capacità di trasmettere le emozioni tramite la rappresentazione dei personaggi, Wolfman ha sempre definito Colan «un disegnatore in grado di infondere in ogni personaggio cuore, anima e fegato. Guardavi il lavoro di Gene e pensavi che fosse reale».
A proposito di sceneggiatori, gli anni Ottanta furono un periodo duro per lui. Colan aveva l’abitudine di non leggere il soggetto per intero prima di iniziare a disegnare la storia, così a volte capitava che si soffermasse su scene particolari (come il dettaglio della maniglia di una porta) per poi ritrovarsi a corto di pagine e far arrabbiare lo scrittore di turno. Con il passare dei decenni, la sua “voglia di libertà” – spiegata con la logica di voler seguire la storia come farebbe il lettore – andò sempre più scontrandosi con la pretesa da parte degli sceneggiatori di avere il controllo completo della storia. Questo idiosincratico rapporto con gli sceneggiatori è evidente nelle interviste rilasciate in carriera, nelle quali, quando gli si chiedeva quali fossero le sue relazioni con loro o se avesse mai avuto da ridire su qualcosa, rispondeva quasi sempre con un laconico «non mi interessa del soggetto, io penso solo a fare il mio lavoro al meglio possibile».
Anche il suo rapporto con gli editor però non era mai semplice. Forse a causa della sua estrema dedizione al lavoro – che lo portava persino a trascurare la famiglia –, reagiva sempre con una certa permalosità alle indicazioni dei redattori con cui aveva a che fare. Negli anni Cinquanta aveva litigato spesso con Harvey Kurtzman – suo editor alla EC Comics –, mentre nei primi anni Sessanta era stato addirittura licenziato da DC Comics dopo aver dato del pazzo a Robert Kanigher. Jim Shooter – caporedattore della Marvel negli anni Ottanta – lo aveva poi spinto a lasciare la Casa delle Idee, costringendolo a ridisegnare in continuazione le tavole.
Un po’ per non dover avere a che fare più con sceneggiatori e editor a tempo pieno, ma soprattutto a causa di sopravvenuti problemi di salute (un infarto e un glaucoma che lo aveva reso praticamente cieco da un occhio), Colan iniziò a centellinare i propri lavori. Tra gli anni Novanta e il primo decennio del nuovo secolo, mentre la sua mano si faceva più incerta, fu perlopiù chiamato per operazioni dal sapore dell’amarcord. Con Wolfman, per esempio, realizzò nuove storie di The Tomb of Dracula e una con protagonista Blade (il cacciatore di vampiri da lui creato graficamente nel 1973). Periodicamente, tornò a disegnare anche il personaggio di Devil, a partire da un ciclo di storie sceneggiato da Joe Kelley. La Dark Horse lo chiamò invece a illustrare una storia di Buffy the Vampire Slayer.
Il suo ultimo lavoro è giunto nel settembre 2009, quando la Marvel ha pubblicato una storia di Capitan America scritta da Ed Brubaker, ambientata durante la Seconda guerra mondiale e con i vampiri come protagonisti. Nonostante l’età, i malanni e la tranquillità di chi non deve più dimostrare nulla, Colan ha realizzato una prova all’altezza del proprio passato glorioso, con i colori applicati direttamente sulle matite a fornire un senso di opacità tipico delle vecchie foto. La storia, tradotta in italiano come “Sangue rosso, bianco e blu”, ha persino vinto il premio Eisner come miglior storia singola. Tirando le somme, Colan è stato attivo per ben sette decenni, dagli anni Quaranta fino agli anni zero del nuovo secolo, per un carriera lunga come quella di pochi altri autori di fumetto, da vero Decano quale era.
Gene Colan è scomparso il 23 giugno 2011, a quasi 85 anni. In vita, il suo cruccio più grande era stato quello di realizzare le migliori tavole a fumetti possibili, lavorando anche a ritmi impensabili per altre persone e assumendo anfetamine per tenersi vigile. Quando – negli ultimi anni di età – gli fu chiesto per che cosa volesse essere ricordato, la sua risposta fu esemplificativa di questa sua modesta e costante dedizione al lavoro: «Per aver fatto un buon lavoro su tutto ciò che ho disegnato».