Un’auto corre sull’Interstate 95, l’autostrada che attraversa la costa est degli Stati Uniti. Dentro alla macchina c’è una coppia del Queens che sta andando a Hartford, Connecticut, dai genitori di lei. Sono Virginia e John Victor e stanno viaggiando con i due figli. Uno è Victor e l’altro è John Salvatore, ma tutti lo chiamano Junior.
John Victor disegna fumetti, un lavoro strano, di quelli che non hanno un vero orario e di solito un lavoro senza orario significa un lavoro a tutte le ore. Il viaggio verso Hartford ne dura tre ed è monotono. Il paesaggio del Connecticut che sfila dal finestrino è poco interessante e l’Interstate 95 è dritta, non ci vuole grande concentrazione per guidare. John ne approfitta per chiedere consiglio alla famiglia su cosa dovrebbe succedere nel suo prossimo lavoro, un fumetto in cui si scontrano l’Uomo Ragno e Devil. Dove lavora lui usano il “metodo Marvel”. Lo sceneggiatore, Stan Lee, gli ha dato l’idea generale della storia e due o tre punti chiave nel mezzo, poi se ne è andato a fare altro. Tocca a John il compito di sviscerare il resto dell’albo. E di disegnarlo. Quando avrà finito, lo sceneggiatore inserirà i dialoghi. Lee gli ha detto che Devil deve avere un momento di crisi. Virginia, la moglie, propone di far perdere i poteri a Devil. Su questo spunto, Victor, il figlio maggiore, suggerisce che l’eroe potrebbe momentaneamente riacquisire la vista. Continuano così fino alla fine del viaggio.
Questa melina avviene a ogni tragitto per andare a trovare i nonni. A volte John non usa nessuna delle idee della famiglia, ma il processo gli è essenziale per partorire ciò che finirà nei fumetti. Altre volte, invece, qualcosa gli torna utile. Come in questo caso: John Salvatore, il figlio minore, quello che tutti chiamano Junior, si è messo a disegnare un cattivo per l’Uomo Ragno. Lo ha chiamato Prowler (“predatore”) e gli ha messo addosso una corazza scintillante. Non va bene, un predatore dovrebbe essere il più discreto possibile per non farsi vedere dalle prede. Però il nome è interessante e l’idea arriva fino a Stan Lee, che la userà.
È il primo contributo al mondo dei fumetti di John Romita Junior, tredici anni.
La costruzione di un disegnatore
John Romita Jr. (da questo momento in poi JRJR, Johnny o in alternativa Junior) è figlio d’arte di John Romita (da questo momento in poi Romita, o in alternativa Romita Senior, anche se il figlio dice sempre che «Lui non è John Romita Senior, lui è IL John Romita»), uno dei grandi disegnatori di Marvel Comics durante gli anni Sessanta e Settanta. Principale responsabile dell’aspetto visivo di Spider-Man, dopo il suo creatore Steve Ditko, Romita ha contribuito a definire il look Marvel in qualità di art director, ruolo che ha ricoperto fino agli anni Novanta. Suo figlio non è stato da meno.
Per quarant’anni, John Romita Jr. è stato la Marvel. Fosse uno sportivo, sarebbe il calciatore bandiera. Mai un apprendistato da qualche editore minore, un periodo di prova altrove, un’uscita. Nella buona e nella cattiva sorte. Anche quando la Casa delle Idee iniziò a perdere colpi e Jim Lee gli offrì di vivere il sogno Image, lui restò con la squadra.
In trent’anni ha avuto una sola sbandata, nel 2004 con The Gray Area. Anche il suo lavoro su Kick-Ass con Mark Millar è comunque nei confini Marvel (lo pubblica l’etichetta creator-owned Icon). Millar lo aveva scelto perché, come scrive Simon Abrams su TCJ, «lo stile di Romita è Darrow-esco nel senso positivo, iperbolizza la violenza disegnando ogni colpo nel minimo, truculento, dettaglio. È pensato per essere figo, non verosimile». La coppia si è ritrovata con un franchise tra le mani che ha generato due film e svariati seguiti su carta – due sono in arrivo nel 2017.
Da quei viaggi in macchina Romita Senior non aveva capito che il figlio sarebbe diventato un disegnatore. Anche quando cominciò a intuirlo poco dopo, entrambi mantennero un certo distacco. «Tra i dieci e i quindici anni fece un migliaio di disegni ma non me ne mostrò neanche uno», racconta. «Disse che non era pronto e che quando lo sarebbe stato me li avrebbe mostrati». E lo stesso fece Romita, non intromettendosi mai: «Un genitore può uccidere la scintilla più velocemente di chiunque altro se è troppo zelante, consigliando troppo».
La prima volta che i due collaborarono a un disegno Junior aveva vent’anni e il padre gli disse: «Ottimo, ora fammi fare le chine», e corresse tutti gli errori. Romita racconta questo episodio durante l’ospitata al programma Comic Book Greats e Junior esclama stupefatto «Ma mi avevi detto che era buono!», «Cosa volevi che facessi? Che ti ammazzassi l’entusiasmo giovanile?», «Be’, me l’hai ammazzato adesso!».
L’unica cosa in cui il padre si intromise fu l’educazione. Gli fece frequentare il Farmingdale State College, dicendo che non si sarebbe dovuto ritirare prima di due anni, sperando che poi gli venisse voglia di proseguire. Invece, finito il secondo anno, Johnny se ne andò, desideroso di iniziare a disegnare da professionista. Non che servisse una laurea per lavorare nel mondo dei fumetti. «Non c’era alcuna richiesta di persone istruite», racconta JRJR. «Se eri bravo, ti assumevano. La richiesta di mio padre serviva a darmi delle basi, a farmi capire cosa volesse dire la pittura, l’illustrazione, la forza del bianco e nero». Soprattutto a fargli capire che fare fumetti di supereroi era un lavoro, non un hobby, e come tale richiedeva impegno costante e continua applicazione.
Quando Junior si fece vedere negli uffici Marvel il padre quasi finse di non conoscerlo, non lo raccomandò mai a nessuno e la madre, che lavorava col marito, fece lo stesso. Art director uno, production manager l’altra: JRJR aveva le spalle coperte e avrebbe potuto restituire con gli interessi qualsiasi sgarro ricevesse. Ma i suoi genitori avevano deciso di non difenderlo, anche quando lo meritava, per non far diventare l’ambiente di lavoro una grossa faida famigliare.
C’è un episodio che Senior racconta sempre, giurando che sia accaduto davvero. Johnny sta lavorando sugli X-Men e riceve una telefonata. «John, sono la tua traffic manager, Virginia Romita. Sei in ritardo», gli dice. «L’ho detto al tuo editor e volevo dirlo anche a te prima che lo facesse lui: se non consegni in tempo le pagine dovremo farle disegnare da qualcun altro», e poi attacca, senza nemmeno badare alla risposta. Passano cinque minuti, il telefono squilla ancora. «John, sono tua madre. Tutto okay?».
La palla di neve la fece rotolare Marie Severin, storica colorista diventata supervisore di Marvel UK, la divisione inglese dell’editore. Marvel UK ristampava materiale della casa madre in bianco e nero dividendo le storie in due parti. Per ogni numero bisognava realizzare una seconda copertina e una nuova splash page. E Severin incaricò Johnny. Era il 1976. Dopodiché divenne l’assistente di produzione di Roy Thomas per 18 mesi. E quando sei assistente di produzione ti mettono a correggere gli errori degli altri disegnatori. E quando hai finito di correggere gli errori ci sono quelle tavole che vanno fotocopiate per i coloristi. Ah, e quei vetri sono sporchi, andrebbero puliti.
Fu in quel periodo che Archie Goodwin gli consegnò la sua prima storia, Caos al Coffee Bean, un riempitivo di sei pagine con protagonista l’Uomo Ragno. A Johnny non sfuggì l’ironia.
L’esordio non aiutò JRJR a chiarire i dubbi sulla propria carriera: Goodwin era un amico di famiglia, doveva averlo scelto per via del suo stato di figlio di papà, non si era davvero meritato l’incarico. E sentiva di non aver fatto un buon lavoro, che erano state le chine di Al Milgrom a salvare la baracca.
In più c’erano un sacco di colleghi, specie i giovani, che lo insultavano più o meno apertamente. Johnny avrebbe voluto affrontarli, ma teneva la testa sul tavolo da disegno e non rispondeva a nessuno solo perché voleva tenersi il lavoro. Non voleva demordere, ma se il morale fosse stato sotto le scarpe anche durante i prossimi ingaggi, sarebbe stato meglio ritornare al college. D’altronde c’era da disegnare anche altre cose oltre ai fumetti, lì fuori.
Poco dopo però l’editor Scott Edelman gli propose Iron Man, che per un ventiduenne era un compito prestigioso. Finì per diventarlo sul serio, dato che la saga a cui partecipò, Demone nella bottiglia, sarebbe diventata una delle più iconiche del personaggio. Edelman giustificò la scelta dicendogli: «Non credo nel nepotismo, ma non credo nemmeno nell’anti-nepotismo». JRJR fu incaricato dei breakdowns, impostò le pagine che Bob Layton avrebbe coperto con la sua mano pesante: «Era un inchiostratore col pugno di ferro. Le mie tavole finirono per essere le sue».
Iron Man diede il via a una serie di incarichi che culminarono con Uncanny X-Men di Chris Claremont, dove dovette subentrare a Paul Smith. Una rottura forte: l’atmosfera quasi eterea delle matite di Smith soppiantate dal peso e dalla gravitas di un JRJR ancora acerbo.
In retrospettiva, quello degli X-Men era un impiego che rispecchiava la sua vita. Adolescenti in perenne mutamento alla ricerca del loro posto nel mondo, disegnati da un ragazzo artisticamente adolescente alla ricerca di un suo stile. Per i lettori lo iato tra Smith e Junior doveva avere la delicatezza di un cubo di marmo che piomba su un cartone di uova. Gli editor ne erano consapevoli e tentarono una transizione morbida, con un numero disegnato a metà da Smith e da un JRJR che lo imitava. Non funzionò granché e nei primi tempi nessuno apprezzò il cambio di segno.
Fu la prima volta che JRJR sentì le critiche di fan e addetti ai lavori bruciargli sulla pelle. Non veniva invitato alle convention, se non molto raramente, e le poche lettere che lo nominavano erano piene di ostilità. Heidi McDonald su Comics Journal #99 scrisse un pezzo che distrusse la gestione di Claremont, confinando il contributo di Romita Jr. in un paragrafo: «Da quando è arrivato John Romita Jr. le cose sono peggiorate a un ritmo forsennato. Romita è un disegnatore di supereroi più bravo della media, ma i suoi pregi finiscono qui. Racconta le cose in modo pedestre, ha un repertorio di facce ed espressioni limitato. Le sue donne, in particolare, sono tutte uguali. Perfino le sue copertine sono brutte, di solito. I disegni privi di immaginazione di Romita non aggiungono niente alle storie, anzi, a volte le rendono più confusionarie».
Dobbiamo parlare di Jim Shooter
I difetti che gli accusava McDonald erano in parte dovuti all’editor-in-chief Jim Shooter, che voleva vedere le storie raccontate in un solo modo: il suo. Era una scuola draconiana, se qualcuno aveva delle lacune, lui ci si sedeva a fianco e gli spiegava come fare le cose per bene. Bisognava essere deliberati nel racconto. Ogni due pagine bisogna far vedere dove ci troviamo, il lettore deve capire tutto e subito, non essere frastornato dal succedersi degli eventi. Niente bizzarrie, zero sofismi – quelli erano per chi voleva entrare in un collettivo con sede nello scantinato di qualche ex-fabbrica di vernici a Berlino.
JRJR imparò quindi una narrazione funzionale ma pedante, che si metteva in mezzo ai suoi desideri di grandeur ma piantava dei paletti utili per non finire in sbrodolate avanguardistiche. Come stava facendo Todd McFarlane su The Amazing Spider-Man, aggiornando il personaggio alla contemporaneità, JRJR prese i mutanti e diede loro abiti moderni, guardando direttamente alle rivista di moda. Il risultato fu che gli X-Men divennero un gruppo del presente che rigettava la classicità. Sembrano dettagli, piccolezze che non dovrebbero interessare a un artista. Ma il mondo dei supereroi è un mondo che funziona anche grazie ai dettagli, perché quello che sta accanto (o addosso) ai personaggi è altrettanto personaggio. La serialità vive e muore attorno a un taglio di capelli.
«È al corrente di quello che succede nel mondo e nell’industria dei fumetti», disse Romita Senior spiegando il motivo per cui il figlio è durato fino a oggi. «Cerca di rendere il suo lavoro non datato. Quando Jack Kirby disegnava le auto negli anni Sessanta, erano ancora le auto che si ricordava dal 1935». Lo capirono anche i dirigenti Marvel quando gli affidarono la creazione di Dazzler, la mutante discotecara nata nell’ambito del progetto cross-mediale con l’etichetta musicale Casablanca Records.
«L’immagine che non riuscivo a togliermi dalla mente era quella di Grace Jones, una modella statuaria dall’aspetto internazionale e dai capelli corti», a cui JRJR aggiunse un make-up blu in stile Kiss. Sopra le spalle di Romita pendevano gli sguardi di un’intera commissione (in cui figuravano Stan Lee, Jim Shooter e uno gli avvocati della casa discografica) che alla fine lo costrinse ad adeguarsi alla fisicità dell’attrice Bo Derek, candidata al ruolo nell’adattamento cinematografico poi sfumato. «Non che non fosse bella», ricorda Junior. «Era solo una scelta irrealistica. Sono cresciuto in una città dove il 90% delle ragazze erano afroamericane, ispaniche, asiatiche».
Gli anni Ottanta furono il momento in cui la carriera di JRJR iniziò a decollare, dandogli l’occasione di vivere il periodo Shooter, «una cosa per cui meriterei una medaglia al valore». Durante la gestione Shooter le idee ambiziose erano le più ambiziose e i tonfi erano i più sonori. Sotto la sua supervisione nacquero alcune delle storie Marvel più celebri e le condizioni lavorative degli artisti migliorarono grazie alla battaglia per i diritti d’autore, ma l’editor sapeva tiranneggiare i dipendenti come nessun altro e rimase vittima della sua stessa megalomania. Gary Groth, il patrono del Comics Journal, lo definì prima «un collaborazionista nei campi di concentramento» e poi «il Nixon dei fumetti».
Furono tempi folli, in cui Chris Claremont, in una gara di ego con alcuni colleghi, invitati a una convention a cui lo sceneggiatore non era stato chiamato, aveva preteso di essere mandato a Parigi in tour promozionale con il resto della squadra che lavorava sugli X-Men. Solo che invece di adempiere ai doveri pubblicitari passarono il tempo in hotel lussuosi, ristoranti stellati o locali alla moda a baccagliare le francesi. E il tour si allargò, andando a toccare altre capitali europee. Finalmente anche Junior poteva dire di aver fatto viaggi incredibili, come quando il padre andò nelle Filippine a reclutare disegnatori per la post-produzione degli albi.
Erano i lati positivi del lavorare per una grande casa editrice. I lati negativi erano che, spesso, dove ti mettono stai. Anni più tardi JRJR spiegherà che, dato che il suo contratto aveva un certo peso (libera interpretazione: lo pagavano bene) era implicito che assecondasse senza protestare le richieste degli editor. Il suo incarico sugli X-Men terminò prima del previsto perché Shooter lo volle sulla sua magnus opera, il New Universe, un parco testate avulso dalla continuity Marvel, un progetto realizzato in occasione dei 25 anni di vita della casa editrice su cui Shooter puntò molto.
A JRJR venne affidata Star Brand, scritta dallo stesso Shooter, che in più occasioni affermò invece che Romita e l’inchiostratore Al Williamson si erano mossi in prima persona per lavorare sulla serie. «Non mi obbligarono a farlo ma dissero “Sarà una cosa buona per te, dovresti farlo”. E quando l’editor-in-chief dell’azienda ti dice che dovresti farlo, ti fidi». Avrebbe potuto puntare i piedi ma non disse nulla, perché voleva tenersi il lavoro.
Nonostante Strar Brand sia il meno vituperato dei titoli, il New Universe fu un insuccesso di vendite. Gli avevano detto che sarebbe stata la mossa giusta per la sua carriera, che comunque quella di Star Brand era solo una libera uscita e che sarebbe tornato a disegnare gli X-Men, il gruppo di punta, quello che garantiva visibilità e prestigio a chiunque ci lavorasse sopra.
Successe la stessa cosa qualche anno dopo, nel 1994, quando, per disegnare il crossover tra il Punitore e Batman, lasciò Uncanny X-Men nelle mani di Joe Madureira e dopo appena un mese gli comunicarono di averlo sostituirlo permanentemente, nonostante le promesse fatte. Sentire il nome dell’editor Bob Harras e della sua assistente Kelly Corvese ancora gli fa digrignare i denti dal nervoso. Scoprì perfino che Harras, pieno di buone parole nei confronti del suo lavoro, lo denigrava alle sue spalle.
Mortificato dall’esperienza lavorativa, dopo Star Brand smise di disegnare. L’unico suo altro lavoro nel 1987 furono due numeri di The Amazing Spider-Man. Fu sul punto di fare fagotto e attuare il piano che aveva preparato in caso la sua carriera non fosse decollata: Iscriversi all’Università di Buffalo, insegnare, diventare un pubblicitario. Una vita tranquilla, lontana dalle sbornie di ego di Shooter e dalla Marvel fuori controllo di quegli anni. Sarebbe diventato una nota a piè di pagina nelle biografie del padre («Ah sì, suo figlio ha disegnato per un po’, ma poi, sai com’è, non c’aveva il fisico») e si sarebbe ritenuto fortunato di non aver fatto la fine di Joe DiMaggio Junior, che tentando di ripercorre le orme del padre era rimasto schiacciato dalla sua ombra, finendo la vita tra alcool e droga. Di sicuro non avrebbe più parlato di fumetti con il padre.
«Era la mia più grande paura», confida Romita Senior nel libro The Romita Legacy. «Non poter discutere con lui di fumetti senza ricordargli il suo fallimento». Sarebbe stato lo spettro di ogni conversazione, avrebbe rovinato il loro rapporto perché il padre era la dimostrazione vivente che qualcuno in famiglia c’era riuscito e qualcun’altro no. In un mirabile esempio di metafora pedestre, a tentarlo arrivò il diavolo.
Senza paura
L’editor Ralph Macchio gli offrì di lavorare su Daredevil, dicendogli che poteva fare quello che voleva: tempo per delle matite rifinite, controllo della narrazione, niente più trame chiuse col lucchetto. «Le sinossi dello sceneggiatore saranno libere e le tue matite complete». Su Uncanny X-Men si era limitato a eseguire la partitura di Claremont, e i tempi di realizzazioni concitati lo avevano portato a sfornare tre pagine al giorno, con il risultato di produrre matite abbozzate che l’inchiostratore Dan Green aveva poi dovuto rendere presentabili alla stampa.
Certo, i palcoscenici erano diversi. Uncanny X-Men era il Metropolitan Opera House dei fumetti, Daredevil era la sala Off-Off-Broadway da cento posti, una testata di seconda fascia. Ma questo era anche un punto di forza: fintanto che le vendite non andavano sotto la soglia minima – all’epoca 40.000 copie al mese (Uncanny ne macinava dieci volte tanto) – a nessuno importava di cosa succedesse nel fumetto. JRJR e la sceneggiatrice Ann Nocenti consegnarono alcune delle storie più strane del personaggio e nessuno disse mai nulla. La presenza autoriale di JRJR si fa sentire al punto che in alcune occasioni viene accreditato come soggettista. La più pregevole di queste occasioni è Una birra con il diavolo, racconto natalizio in cui Devil fa conoscenza con Mefisto.
È uno di quegli albi che ora non si vedono più, intanto per l’ambientazione natalizia: all’epoca esisteva la stagionalità nei fumetti, che era un modo un po’ retorico di scandire la serialità ma che forniva un livello di vicinanza al lettore – sì, è estate e ti facciamo vedere gli eroi in speedo e bikini, oppure è dicembre e stai leggendo un racconto natalizio – e spunti per storie laterali. E infatti Una birra con il diavolo inizia come un episodio di Cheers, in cui Devil sembra uno spettatore, ma nell’ultime pagine l’intreccio si tira buttando il Cornetto al centro delle vicende.
In quelle storie, Nocenti e JRJR introducono Mefisto, un antagonista di solito scritturato per gli eroi mistici (Thor, Strange, Silver Surfer) che cozza con il gusto urbano di Devil. I due lo usano per indagare la natura divina del Cornetto, gli danno un figlio, Cuore Nero, e portano una forza visiva nuova. Mefisto diventa una creatura rettiliana dagli artigli affusolati e dalla bocca di pappagallo, invece che un uomo pittato di rosso come nelle precedenti incarnazioni.
«Vedere Devil entrare in conflitto con nemici di alto livello lo rese a sua volta un personaggio di alto livello», dichiarò l’editor della testata Marc Siry. «Una battaglia con il Principe del Male è ben più impressionante che combattere con un invalido volante che può vedere al buio». Ciononostante Junior ha ben chiaro in mente che il secondo personaggio più importante della serie è New York. Non una New York generica, da cartolina, ma la New York di fine anni Ottanta, cupa, sudata, respingente verso i turisti, e di cui JRJR cattura la consistenza ruvida. Aderendo il parte allo stereotipo che gli affibbiano da italoamericano – in quanto tale dovrebbe conoscere a memoria i film di Martin Scorsese e avere agganci con la mafia (uno dei produttori di Kick-Ass ne è tuttora convinto) – nelle vignette le strade della città sono anguste, i bidoni dell’immondizia abbondano e le auto sempre hanno una patina di usura.
Altrettanto importante sarà il ritorno sul personaggio nei primi anni Novanta con L’uomo senza paura, che nacque dal desiderio di JRJR di lavorare con Frank Miller. JRJR gli propose Wolverine, ma Miller lo rimpallò: «Tutti stanno facendo Wolverine, facciamo altro». Questo “altro” a cui Miller si riferiva era una sceneggiatura che aveva scritto come pilota per una serie tv su Devil. Con qualche modifica poteva diventare un fumetto che rinarrasse le origini del personaggio, portando a compimento un percorso ideale che collega la sua gestione di Daredevil con le reinvenzioni di Batman: Anno uno.
Come scrive Tonio Troiani, «è la prova definitiva di John Romita Jr. sul personaggio, ma è anche l’opera che lo consacra definitivamente come uno dei disegnatori più apprezzati degli anni Novanta, [grazie a] un segno anfibio, molto europeo, caratterizzato da anatomie granitiche ma dotate di un’incredibile leggerezza». Se ne accorse anche Miller, quando le tavole che gli inviò Junior lo ispirarono a scrivere nuovo materiale, portando il progetto dalle 64 pagine previste a una foliazione di 144, più del doppio.
Insieme all’Uomo Ragno, Devil è il personaggio con cui JRJR ha più affinità, grazie alle atmosfere urbane e a quel costume semplice che evidenzia la muscolatura del corpo e permette di giocare con l’anatomia. Un gioco che funziona a meraviglia nelle pagine che chiudono L’uomo senza paura, in particolare nell’edizione nostrana, la cui traduzione rende meglio dell’originale.
Sotto una splash page di Devil che si lancia dal palazzo Miller piazza la didascalia «God only knows how it looks like», un’esternazione accorata ma pur sempre fredda nella costruzione. Invece l’italiano «Dio solo sa come mi sta» la butta sul personale, rivela i desideri di Matt, che pur non potendo vedere si attacca alla speranza che quell’abito non lo faccia sfigurare. Capiamo che ci tiene. Potendo vederlo nella sua imponenza, in quella posa che JRJR disegna come se uscisse dalla pagina (un po’ grazie alla curva che dà al corpo, un po’ per come sistema la prospettiva), vorremmo rassicurarlo, dirgli che sta bene e gli siamo vicini ancora di più, proprio sul finale della storia.
Oldie but goldie
Gli anni Novanta per JRJR sono un periodo di negoziazioni, emotive e contrattuali. Si sposa con la californiana Kathy (la prima moglie era stata l’ispirazione per Thypody Mary, quindi non dovevano andare d’accordissimo), si trasferisce con lei a San Diego e nel 1997 nasce il figlio Vinny. I suoi genitori abbandonano l’azienda, il fumetto vive la fase economicamente più alta e più bassa allo stesso tempo e lui si ritrova d’un tratto a essere circondato da giovani e nuove leve pronte a sostituire i dinosauri, cioè i disegnatori che fino a poco prima erano considerati i maestri. «Era l’era dei McFarlane, dei Jim Lee, dei Rob Liefeld. Mentre lavoravo su Daredevil ebbi l’impressione di venire ignorato in favore di questi disegnatori. Le vendite sui fumetti che disegnavo erano più alte delle loro, ma loro erano i preferiti dai fan». Non dice mai nulla, perché vuole tenersi il lavoro.
Eppure, il suo momento migliore è questo, dove infila una serie di progetti non memorabili in termini di scrittura ma con disegni solidissimi. La reazione di molti suoi coetanei all’arrivo dei futuri ragazzi della Image Comics è quella di andare dietro a mode che non riescono a padroneggiare e in cui non possono eccellere comunque. Invece, consapevole di non poterli battere sul loro terreno, JRJR tiene a freno gli arditismi, prosegue con la propria linea, non senza cedere qualcosa in termini di vezzi e idiosincrasie grafiche.
Perché nella vita di JRJR c’è lo spettro del fallimento. Lo dice in tutte le interviste, che vuole migliorare, e quando accetta un progetto lo fa sempre perché «It keeps me on my toes», lo tiene in punta di piedi, nel senso che non lo fa mai adagiare sugli allori. Non se lo può permettere, forse perché quel desiderio di dimostrare di non essere solo il figlio di suo padre, forse perché non dà mai per scontato che la qualità del suo ultimo lavoro influirà su quanto velocemente otterrà il successivo.
Nel 1992, l’anno di fondazione della Image, JRJR si trova a disegnare Punisher: War Zone, la nuova testata del Punitore, personaggio oscuro che la Marvel sta spingendo con tre serie titolari, credendo di aver trovato il proprio Batman, che tra il film di Tim Burton e la revisione di Frank Miller sta dominando la scena fumettistica.
Ha già avuto in passato occasione di disegnare il Punitore, ma Zona di guerra esordisce nel bel mezzo della frenesia Image e vari fattori gli chiedono di spingersi oltre: lo sceneggiatore Chuck Dixon strappa qualsiasi connessione empatica che autori come Mike Baron hanno tentato di instaurare e consegna un esageratissimo Frank Castle (nei modi, nella logorroica voce narrante).
JRJR tramuta il Punitore in un orso, un ammasso di carne e proiettili a cui l’estetica del tempo poi mette il carico da novanta. La testata diventa un’orgia di occhiali monolente, armi giganti e codini. JRJR resiste alla tentazione di lasciarsi andare a composizioni azzardate, vignette sbilenche (cede solo alle splash page rovesciate di lato) rendendo opere come Zona di guerra o La seconda guerra delle armature – un ciclo coevo di Iron Man sceneggiato da John Byrne – le cose più leggibili di quel frangente per un lettore di oggi.
Disegnare un ragno, disegnarlo molte volte
Il suo lascito più grande sono i quasi trent’anni non consecutivi passati a disegnare l’Uomo Ragno. Di tutte le gestioni, la più importante è quella con J.M. Straczynski (2000-2004), con il quale rivoluziona il personaggio contribuendo a plasmare la Marvel di oggi.
Nonostante le tantissime storie di Spider-Man disegnate (tra cui una sezione della saga del Clone, di cui Junior avrebbe salvato il personaggio di Ben Reilly «perché sarebbe potuto diventare una storia di Wolverine del mondo di Spider-Man, con un approccio più crudo alle storie»), il periodo con Straczynski è quello preferito da Romita, e probabilmente il migliore anche agli occhi del pubblico. «Joe ha unito il soprannaturale con il realismo, e questi due elementi, bilanciati bene, sono la ricetta perfetta per il personaggio», ha detto, intervistato dal podcast Spider-Man Crawlspace.
All’inizio l’accoppiata con Straczynski non era cosa scontata. All’alba del nuovo millennio, Alex Alonso aveva preso il comando del parco testate ragnesche e fatto piazza pulita di tutti gli autori: «L’unica cosa che secondo me non era un problema per le vendite era Johnny, bastavano delle buone sceneggiature». JRJR fu l’unico a sopravvivere all’epurazione, dovette abbandonare il metodo Marvel e lavorare su sceneggiature complete. Non eravamo più negli anni Novanta, gli sceneggiatori avevano sempre più potere e gli universi fumettistici dovevano cominciare a essere più coesi, a scapito della personalità dei singoli autori. Ma JRJR continuava a essere un asset prezioso. «Anche se partivo da una sceneggiatura completa, se vedevo qualcosa di migliorabile la cambiavo, e poi Joe cambiava i dialoghi in base alle mie modifiche. L’unica cosa che mi dà fastidio, più di tutto, è che uno sceneggiatore suggerisca il formato della vignetta. Quando mi scrivono “Questa vignetta me la immagino verticale” io vado in un’altra stanza, urlo fino a sgolarmi e poi torno alla scrivania, tranquillo».
Johnny si trovò a disegnare il solito personaggio in un ambiente nuovo. Erano cambiati lo scrittore, l’inchiostratore e il colorista. Straczynski eliminò i comprimari, si concentrò su Peter, ora insegnante al liceo, e i suoi rapporti con zia May e Mary Jane. Esplorò la natura totemica dei poteri di Spider-Man (controverso all’epoca, ma Dan Slott ancora ci mangia su queste idee), fece a meno della rogue gallery classica creando nuovi antagonisti. «Per fortuna c’è una zona di sicurezza nel disegnarlo da parte mia, perché lo faccio da molto tempo ma anche perché gli altri personaggi fanno una cosa sola. Hulk spacca, Thor ha il martello. Visivamente, all’Uomo Ragno, come a Devil, puoi far fare qualsiasi tipo di acrobazia».
La serietà del Peter Parker insegnante doveva avergli ricordato gli anni giovanili, quando il suo, di insegnante, lo aveva soprannominato come l’illustratore Norman Rockwell, che nelle sue copertine per il Saturday Evening Post dipingeva un’America confortevole e piana: «Mi chiamava Rockwell. “Devi fumarti una canna, Rockwell. Se troppo serio, sei troppo rigido. Rilassati”. Questo perché erano gli anni Sessanta e la gente disegnava occhi sanguinanti e fantasie lisergiche, mentre a me piacevano le cose concrete. Mi piacciono gli angoli», dice, mentre parla del suo illustratore preferito, J.C. Leyendecker, altro grande copertinista del Saturday. «Mi piace la precisione della linea. È realtà mischiata con uno stile interessante. La realtà può essere noiosa e penso che lo stile aggiunto alla realtà sia utile come lo è stato aggiungere realismo ai fumetti».
Raccontando la sua permanenza su Amazing Spider-Man, Comics Alliance ha raccontato che non ci sono caratteristiche particolari del suo Spider-Man. In realtà, JRJR è uno dei pochi che ha attuato un recupero degli stilemi imposti dal padre, soppiantati negli anni Ottanta dalle innovazioni di Todd McFarlane che ancora tengono banco. La sua ragnatela è meno viscosa, più classica, a rete, il suo Uomo Ragno è magro, in pose che lo lanciano da una parte all’altra della vignetta con forza. JRJR è il disegnatore dei volumi pesanti, delle masse kirbyiane, eppure – e qui sta il prestigio – il suo Spider-Man volteggia tra i tetti più leggero di una libellula. In quei quattro anni ci sono alcune delle pagine più memorabili di Junior: il ritorno di Mary Jane, l’anniversario del numero 500, disegnato insieme al padre, la storia muta. Soprattutto, Amazing Spider-Man #36, “The Black Issue”, in cui Spider-Man è messo di fronte alla tragedia dell’11 settembre.
11 settembre
L’editor-in-chief Joe Quesada credeva che l’Uomo Ragno, il personaggio Marvel che più di tutti ha portato in scena New York come personaggio nei fumetti, dovesse essere coinvolto nell’attualità della città. Quando Junior ne parlò col padre, questi gli consigliò di non accettare l’incarico. Erano passate appena sei settimane dall’evento, era troppo presto per provare a intavolare qualsiasi discorso a riguardo. Sapevano entrambi che una cosa del genere non doveva essere accettata, ma JRJR accettò comunque, senza nemmeno sapere bene il perché. «C’è sempre qualcosa di un’immagine che mi ricorda qualcosa. Se ero al telefono con qualcuno, se c’era qualcuno nella stanza, vedo l’immagine e ricordo» disse poi al New York Times. «Di quel numero non ho memoria. Non mi ricordo di averlo disegnato, è diventato una macchia opaca».
Quello dei creatori non voleva essere un omaggio all’accaduto, ma una reazione a caldo. Come tale, pecca di distanza, è tutto pancia e niente cervello, retoricissimo in alcuni punti tanto da suonare falso (Dottor Destino che piange). Però ha anche tanto cuore, e gran parte di quel cuore sta nelle immagini di JRJR, nella doppia pagina in cui uno straziato Uomo Ragno sembra strapparsi di dosso la pelle dal dolore.
Un punto in particolare resta spinoso, l’omaggio dei supercattivi al dramma della città. Nella sceneggiatura Straczynski ha soltanto inserito il nome dei personaggi, descrivendoli mentre guardano attoniti le macerie. Per Junior l’idea che un cattivo come il Dottor Destino renda onore a dei morti è già di per sé retorica, tanto vale accelerarla per farla crollare del tutto e renderla evidente, invece che lasciarla lì a traballare. Quando alle fiere gli chiedono se quel numero sia stato importante nella sua carriera, lui annuisce ma poi chiosa: «Non lo apro da quando è stato pubblicato, non credo di poterlo più fare».
Marvel No More
Negli anni Settanta, quando Jack Kirby migrò alla DC, i pubblicitari si inventarono il lancio «KIRBY IS COMING!». Un pilastro della Marvel – del fumetto in generale – che passava alla concorrenza era un evento da celebrare a modo. Nessuno se lo sarebbe mai aspettato, ma nel 2014 JRJR ha traslocato in casa DC Comics, cambiando casacca dopo trentasette anni di carriera. Il marketing ha notato fin troppe analogie tra lui e il Re per non lasciarsi andare a un nostalgico «ROMITA IS COMING!».
Parlando a CBR dell’esperienza, JRJR ricorda che il momento epifanico lo ha colto mentre disegnava la doppia splash in Superman #32 «Non mi sono trasferito in un altro paese. Non sono andato su un altro pianeta. Sto solo disegnando un costume diverso». Eppure i suoi lavori su Superman mostrano pose mal costruite e mancano della solidità e della fermezza tipiche del suo stile.
In generale, nell’ultimo decennio, la qualità media dei suoi lavori è calata. Kick-Ass è disegnato da un Romita imbolsito, che fa a meno dei neri, riempie di linee tutte le figure e le disegna come fossero tutte imbottite di cortisone. D’altronde ha disegnato più pagine lui di quanto potranno mai fare gran parte dei suoi colleghi nelle loro carriere. Sarebbe anche comprensibile che non riesca a mantenere il livello di una volta.
«Tutti impazziscono per Frank Quitely, ma un sacco delle cose che fa lui le fa anche Romita, senza tanto snobismo», dice Joe McCulloch di The Comics Journal. «Entrambi vengono criticati da un certo tipo di lettori che non li trova realistici a sufficienza. Quindi Quitely viene sbeffeggiato perché disegna le facce a patata e Romita perché disegna “i Muppets”. La forza di Romita sta nel fatto che comunica la fisica del mondo che sta disegnando. Cioè: i suoi personaggi sono molto stilizzati, talvolta cartooneschi, ma si muovono con un peso e una velocità plausibile. Non è realistico, ma ha senso secondo le regole che imposta negli ambienti che disegna e nel modo in cui mostra i personaggi mentre navigano in quegli ambienti. E questo lo contraddistingueva dai disegnatori coevi, più interessati alla posa a effetto. Credo che disegnare molte pagine di Spider-Man insegni questi valori. Penso che un certo pubblico abbia percepito uno stop nell’evoluzione di Romita o l’assenza di nuovi trucchi e innovazioni e magari lo trova noioso».
In parte è quello, anche se i suoi lavori più recenti sembrano promettere bene. Più che altro, viene spesso penalizzato dai coloristi moderni, specie da quelli che hanno a cuore la sovrapposizione di consistenze diverse. L’esempio più radicale è Capitan America: Morte di un eroe, di cui JRJR e Dave Finch hanno disegnato un capitolo a testa. Stessa colorazione, di Morry Hollowell, incarnati lavoratissimi, tanti riflessi. Su Finch – scuola Top Cow, allievo di Mark Silvestri – calzano a pennello, su Romita stonano, portano dettagli che il suo segno non prevedeva. Quando gli chiedono se i colori offuschino la sua linea, lui stesso si trattiene dal rispondere per rispetto dei colleghi coloristi. «Non voglio commentare. Diciamo che potrebbe o non potrebbe essere vero».
È un uomo delle tradizioni, le sue tavole hanno una costruzione piana, priva di effettacci o disposizioni atipiche delle vignette. Non usa i social network e con le tavolette digitali non si trova bene. Le ha provate quando ha lavorato come character designer sul film Big Hero 6, ma preferisce i vecchi sistemi. Carta e matita, su un tavolo quasi verticale, o almeno un paio di fumetti sotto il foglio quando disegna per i fan. Deve per forza disegnare su una superficie inclinata – più della norma – perché quando aveva otto anni si è danneggiato il polso e non è mai guarito del tutto.
JRJR stesso ammette che il suo punto di forza non è il segno ma il senso della narrazione. «Credo di aver resistito perché non metto tutte le mie uova nel paniere del disegno. Il mio stile è okay, è nella norma. È lo storytelling che mi salva e fa risaltare il disegno. Così, quando la gente mi fai i complimenti per come disegno, penso “Forse non ha prestato molta attenzione”». Il suo stile è “lo stile della scadenza”, come lo chiama lui, cioè qualsiasi cosa sia funzionale per fargli consegnare in tempo il materiale e portare a casa la pagnotta.
60 anni
Suo padre aveva più o meno la stessa età quando si ritirò dalle scene, ma, dice Romita, la sua era sindrome da Michael Jordan. «Jordan ha fatto tutto quello che era umanamente possibile fare e quando ha smesso lo ha fatto perché non traeva più emozioni dal basket. Mio padre è uguale. Io, invece… È una cosa a cui sono molto attaccato, il disegno, quindi non lo so se quando avrò 75 anni smetterò del tutto o se ne avrò bisogno come una terapia. Magari sarò una di quelle persone che dipinge fino a 120 anni».
Per ora John Romita Jr. è impegnato con il suo lavoro alla DC e i progetti creator-owned, tra cui uno disegnato e scritto da lui, insieme a Howard Chaykin, su una coppia di assassini italoamericani nella New York degli anni Settanta che JRJR aveva conosciuto da piccolo. Sarà il terzo fumetto creator-owned dopo The Gray Area e Kick-Ass. Lui la possibilità di andare all’Image e arricchirsi con fumetti creator-owned come fecero i McFarlane, i Liefield e i Lee l’aveva avuta vent’anni fa, ma aveva declinato per un atavico aziendalismo. È un bivio non indifferente, perché la carriera di molti autori è viva o morta per via di quella scelta.
Da eterno colletto blu del fumetto, gli ricapita di ripensare alla decisione presa: «Non so se sarei a questo punto della mia vita se avessi accettato l’offerta della Image. Se non avessi fatto un paio di cose non avrei conosciuto mia moglie. Questi pensieri mi impediscono di impazzire perché ho fatto tante cose stupide nella mia vita e sono comunque felice. Se non avessi fatto quelle cose stupide, sarei qui ora?».