Negli anni Quaranta, gli studi d’animazione Disney erano all’avanguardia in quanto a spazi lavorativi. Dopo il successo di Biancaneve e i sette nani, il papà di Topolino rinnovò lo studio, trasferendolo a Burbank e modernizzandolo. Neal Gabler, il biografo di Disney, racconta che, come Olivetti dall’altra parte dell’oceano, Walt innalzò la qualità dell’esperienza lavorativa creando «un luogo di lavoro perfetto per creare film perfetti. C’erano mense, palestre, perfino un garage dove far riparare la proprio auto».
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Tuttavia le idee di Walt sulle questioni salariali rimasero su posizioni stabili. Alla fine degli anni Trenta, in seguito ai tumulti economici del paese, i sindacati di Hollywood avevano iniziato a protestare per migliorare le condizioni dei lavoratori. Ciò era stato reso possibile dal National Labor Relations Act del 1935, che aveva concesso ai lavoratori il diritto di formare sindacati e negoziare collettivamente i contratti.
I Fleischer Studios furono i primi a scioperare, nel 1937. L’anno dopo, seguendo l’esempio della categoria degli attori, che nel 1933 avevano fondato la Screen Actors Guild, gli animatori guidati da Herbert Sorrell battezzarono la Screen Cartoonist’s Guild, raccogliendo sotto di sé i principali studi dell’epoca (tra cui Fleischer Studios, Terrytoons, Metro-Goldwyn-Mayer e Leon Schlesinger Productions). Mentre firmava con i sindacati, Leon Schlesinger, il produttore dei corti Looney Tunes e Merrie Melodies, chiese ridendo: «E Disney che pensa di fare?».
Disney pensava di fare quello che gli pareva. «Gli ho fatto un nuovo studio, dovrebbe bastargli», fu il suo commento alle rimostranze. Gli animatori Disney erano quelli con gli stipendi più alti del settore, ma il retro della medaglia includeva crediti misconosciuti (anche a livello d’immagine, l’unico nome che doveva circolare era quello di Walt), privilegi arbitrari e ore di lavoro estenuanti (che talvolta includevano la domenica). Walt si arrogava il diritto di gestire i propri affari senza l’intrusione dei sindacati.
Nel 1940 i fiaschi di Pinocchio e Fantasia costrinsero lo studio a licenziare personale e rivedere le paghe. I salari erano disomogenei e fuori controllo: gli animatori di punta arrivavano a guadagnare 300 dollari alla settimana (circa 5.000 dollari odierni) mentre la manovalanza (gli interpolatori, i coloristi, gli addetti alla pittura del rodovetro) raggiungevano a stento i 12 dollari (200 in valuta corrente).
Il malcontento non arrivava soltanto dagli impiegati sotto-remunerati. Art Babbitt, pilastro dell’animazione statunitense, nonché uno degli animatori più pagati in assoluto, divenne leader delle proteste. Disney percepì la cosa come un tradimento, e i rapporti si fecero tesi. In un’occasione i due non vennero alle mani solo grazie all’intervento esterno di pacificatori. «Non mi interessa se tieni il tuo dannato naso incollato al tavolo da disegno tutto il giorno, o quanto lavoro riesci a produrre», disse Disney a Babbitt. «Se non la smetti di guidare i lavoratori ti sbatterò fuori direttamente dai cancelli principali». Nel maggio 1941, Disney licenziò Babbitt, citando come causa le sue “attività sindacali”.
La fuoriuscita dell’animatore fu la miccia dello sciopero. Il 29 maggio 1941, un giovedì, nel bel mezzo della produzione di Dumbo, 334 lavoratori (sui 637 totali) incrociarono le braccia e iniziarono a picchettare fuori dall’edificio di Burbank. Leggenda vuole che la scena in Dumbo in cui i clown si organizzano per chiedere «un buon aumento al principale» contenga le caricature di alcuni scioperanti.
Disney rifiutò le negoziazioni di Babbitt e Sorrell, asserendo che i suoi dipendenti erano rappresentati dalla Federation of Screen Cartoonists, un sindacato farlocco che era stato già dichiarato illegale dal National Board of Labor Relations. Poi tenne un discorso che si concludeva dicendo: «Alcune persone si domandano perché certi abbiano posti migliori di altri, si chiedono perché certi uomini abbiano un parcheggio riservato e altri no. Io ho sempre creduto che coloro che contribuiscono di più dovrebbero godere di alcuni privilegi. Il mio consiglio a voi è questo: se non state progredendo come dovreste, invece che urlare e lamentarvi, vedete di fare qualcosa a riguardo».
Non fu d’aiuto. Per far sbollire gli animi, Disney accettò la richiesta di Nelson Rockefeller, a capo della sezione Latin American Affairs, che lo aveva invitato a fare un tour in Sud America come ambasciatore di buona volontà, lasciando ai mediatori il compito di arginare le proteste. Da subito emersero le dinamiche tipiche degli scioperi: molti dipendenti si chiesero a cosa servisse protestare, quando la loro preoccupazione maggiore era fornire sostentamento alla propria famiglia. Ma più dipendenti scioperavano, più la produzione dei film rallentatava, dando al sindacato più margini di manovra. «Non c’erano vie di mezzo, o con Walt o con il sindacato», scrisse Sito. «Immaginate di andare al lavoro sentendovi urlare “Crumiro! Comunista! Unisciti a noi fratello! Traditore!”»
«Fu la Guerra civile dell’animazione», scrisse Tom Sito in un vecchio pezzo per AWN. Sito, ex-presidente della sezione locale della Guild, lavorò per la Disney tra gli anni Ottanta e Novanta e scrisse un lungo capitolo sullo sciopero per il libro Drawing the Line: The Untold Story of the Animation Unions from Bosko to Bart Simpson. «Ma aiutò a far ottenere pensioni, assicurazioni mediche e gli standard di vita più alti del mondo per un animatore.»
Alla fine, Walt fu convinto dagli investitori della Bank of America e da suo fratello Roy a trattare con la Guild. Nel settembre 1941 lo studio tornò a pieno regime. I salari per la nuova settimana lavorativa (40 ore spalmate su cinque giorni) furono duplicati, e i dipendenti ottennero il riconoscimento del loro lavoro nei film. Eppure, sia Sito che l’episodio della serie documentaristica American Experience: Walt Disney sottolineano come lo sciopero mandò in frantumi il senso di cameratismo e apparente coesione nello studio. Lo stesso Walt non recuperò mai lo spirito gioviale che aveva coi collaboratori. Joe Grant, altro grande nome dei cartoni, disse che dopo quelle settimane Disney sospettò della fiducia di tutti.
I simpatizzanti del sindacato vennero allontanati. Se occorrevano dei tagli, erano i primi a essere licenziati. E quelli che restavano subirono mobbing. L’art director Maurice Noble racconta che a un certo punto tutti i suoi colleghi smisero di parlargli.
In questo senso, la protesta aiutò il mercato dell’animazione a fiorire anche fuori dall’egemonia Disney, facendo circolare talenti verso altri lidi. Per via delle conseguenze dello sciopero se ne andranno, tra gli altri, proprio Maurice Noble, che aiuterà Chuck Jones a concepire l’aspetto di Cane all’opera e dei corti di Wile E. Coyote e Beep Beep, e Bill Melendez, regista degli adattamenti televisivi di Peanuts.
Lo sciopero ebbe ripercussioni anche sul mondo dei fumetti. Walt Kelly, il papà di Pogo, per non dover scegliere una fazione, prese un congedo giustificandolo con una «malattia della famiglia». Durante la sua assenza dagli studios, rifletté sui limiti della forma artistica, capì di sentirsi costretto e prese la strada dei fumetti. Gli animatori Hank Ketcham e George Baker, entrambi scioperanti, vennero in seguito chiamati nell’esercito e durante il periodo bellico crearono rispettivamente Dennis la minaccia e Sad Sack.
Oggi, la tradizione antisindacalista di Disney è tenuta in vita da Ed Catmull, mogul degli studi Pixar e Disney che, oltre a essere un forte oppositore delle unioni (ha fatto in modo che la Pixar non firmasse con alcun sindacato e come risultato oggi gli stipendi di partenza dello studio sono al di sotto della media del settore), è stato uno dei protagonisti del Techtopus, lo scandalo sui livellamenti degli stipendi per cui le case d’animazione e le aziende della Silicon Valley si accordavano per non intraprendere guerre d’assunzioni a colpi di golosi salari.
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