Nel tentativo di cavalcare l’onda del presente, a febbraio la Fox ha trasmesso un segmento di I Simpson in cui Marge sogna il dibattito tra i numerosi candidati per le presidenziali statunitensi.
Si tratta di una clip realizzata a fini promozionali, ma che dice molto sul nuovo rapporto che la serie ha con l’attualità. La politica scorre da sempre nelle vene dello show di Matt Groening e a volte sfocia in esiti che hanno fatto testo: in Musica maestro, il giardiniere Willie definisce i francesi «cheese-eating surrender monkeys» («arrendevoli scimmie mangia-formaggio», tradotto in italiano con «pizzechelli rompiscatole spioni»). Il termine ha preso piede tra i commentatori politici all’alba della guerra in Iraq, diventando un cliché giornalistico.
Storicamente, si è sempre cercato di mantenere una certa distanza verso le questioni politiche, destreggiandosi tra le tensioni ideologiche e le gabbie d’analisi che ogni critico vorrebbe imporvi a forza. «La satira politica generalizzata è difficile», scrive AV Club. «Prendersela col sistema senza dare la colpa a qualcuno nello specifico produce risultati blandi». E in effetti I Simpson è riuscito a mantenere un equilibrio rappresentativo.
Se a prima vista I Simpson sembrerebbe demolire il politicamente corretto, in realtà non patteggia per nessuno. Sotto alcuni punti di vista è il più conservatore dei programmi tv: il nucleo famigliare è il cuore delle vicende; gran parte della cittadinanza è cristiana, va in chiesa e accetta con difficoltà il credo altrui – quando Lisa si converte al Buddismo, Marge è molto poco incline all’idea. Anche personaggio apparentemente senza connotazione religiosa come Homer (non si sprecherà tanto a dissudere la figlia ad abbandonare la Chiesa) e Bart si sono scoperti credenti negli episodi Homer l’eretico e Bart si vende l’anima. Sotto altri si avvertono gli ammiccamenti a sinistra e le istante distruttive degli sceneggiatori. Il comico Conan O’ Brian, che fece parte dello staff all’inizio degli anni Novanta, ha detto che vorrebbe vedere la serie finire con Homer sbattuto fuori di casa da Marge dopo l’ennesimo guaio combinato.
Nella raccolta I Simpson e la filosofia, il critico Paul Cantor afferma che la forza della serie sta nel suo postmodernismo, nella consapevolezza di se stessa, e nel portare avanti il paradosso che «combina il tradizionalismo con l’antiautoritarismo. Si fa costantemente beffa della famiglia tradizionale americana. Ma, nello stesso momento in cui ne fa satira, offre l’immagine di una famiglia nucleare che resiste». E questo si estende a tutte le altre grandi istituzioni (chiesa, scuola, municipalità), prese in giro ma anche rivendicate nella loro importanza quasi ancestrale – perché legata a una concezione provinciale e antica del rapporto tra cittadino e stato.
Uno degli ex-sceneggiatori più bravi della serie, John Swartzwelder, è vicino al libertarianismo, sostiene il diritto alle armi e crede che ci siano più foreste pluviali adesso che cent’anni fa. Eppure è riuscito a scrivere La famiglia Cartridge, alla fine del quale ammette che una persona come Homer non dovrebbe possedere un’arma (ma una come Marge sì). Anche quando non sembra, lo show mantiene un equilibrio giudizioso nei temi che affronta.
Uno degli esempi concreti di questo equilibrio è Cittadino Kang, segmento del settimo special di Halloween. Ambientato durante le elezioni presidenziali del 1996, vede gli alieni Kang e Kodos prendere il posto dei candidati Bill Clinton e Bob Dole. I due gettano alle ortiche qualsiasi possibilità di fare bella impressione sugli elettori perché sanno che uno dei due otterrà la carica, sancendo la disfunzionalità di un sistema bipartitico. «Voterò per un terzo partito», esclama un passante quando Homer mette alla berlina il loro piano. «Fa pure, butta via il tuo voto»: stacco su Ross Perot, il candidato indipendentista che in quella tornata riuscì a fare peggio delle elezioni del 1992. «Vent’anni dopo, la questione è più rilevante che mai», scrive AV Club. «Per molti, la scelta tra Clinton e Trump non è diversa da quella tra Kang e Kodos. Per i votanti americani è ancora una fonte di estrema frustrazione dover votare quello che odiano di meno». Il concetto è ribadito in Tra molti, Winchester!, in cui entrambi i partiti, a corto di idee e candidati, scelgono Ralph Winchester come possibile presidente. La puntata sembra avercela più che altro con tutto il corollario mediatico che distoglie l’attenzione dalle questioni reali ma sottolinea anche lo spaesamento della politica tutta di fronte ai bisogni della società.
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Quello di Cittadino Kang è un messaggio che, nonostante resti valido nel contenuto, appare datato nei riferimenti, e questo è uno dei contraccolpi che la serie ha sempre tentato di evitare. Con le dovute eccezioni. Bill Clinton, per esempio, è stato uno dei bersagli preferiti degli autori, che lo hanno attaccato con insistenza, per quelli che sono gli standard televisivi. «Ricordatevi», dice Clinton in Febbre da cavallo galattica, «se le cose non vanno bene lamentatevi affinché i vostri sogni si realizzino». «Questa è una lezione piuttosto penosa», lo rimbrotta Marge. «Ma io sono un presidente piuttosto penoso», è la conclusione del dialogo.
È caduto il silenzio invece sugli otto anni di mandato di Bush Jr., mai comparso nella serie se non attraverso fugaci menzioni. Forse perché gli autori hanno capito che c’era poco da ridere su un presidente che era capacissimo di mettersi in ridicolo da solo. Di sicuro non si è messa in mezzo la rete che li trasmette. La Fox, pur sfacciatamente faziosa verso la propria parte, i repubblicani, viene sbeffeggiata di continuo dagli sceneggiatori, che usano ritrarre le riunioni di partito in un castello lugubre. E nessun dirigente ha avuto da ridire, a detta degli interessati.
Diversa la storia con Obama. Lui e la moglie sono apparsi e stati citati nello show più di ogni altra coppia della Casa Bianca – in accezioni positive, per giunta. Non a caso, dal 2008 il modus operandi è cambiato: nelle ultime due elezioni c’è sempre stato un segmento a tema, associato alle puntate di Halloween o usato come spot pubblicitario. L’ultimo, quello che ironizzava su Donald Trump, è stato utilizzato come prova per asserire che I Simpson avessero predetto il futuro nel 2000. La svista è da attribuirsi al fatto che Trump veniva citato nell’episodio di quell’anno intitolato Bart al futuro, in cui uno sciamano mostra una realtà futura in cui Lisa è presidente della nazione, dopo essere successa proprio a Trump. E anche questa è comunque una non-notizia, perché gli sceneggiatori stavano facendo dell’ironia su quella che era la prima candidatura di Trump.
Nella storia dello show però la faida politica più acrimoniosa è stata quella con George Bush Senior. Nel 1990, Barbara Bush rilasciò un’intervista a People affermando di essere rimasta sconcertata da I Simpson: «Sono la cosa più stupida che abbia mai visto in televisione. Ma sono una famiglia, per cui credo possa andare bene». Quello della Bush era un sentimento condiviso da molti. Ora I Simpson sono uno show notiziabile in assoluto ma non nel dettaglio degli episodi, e quando se ne parla spesso è per le couch gag d’autore e poco altro. All’inizio degli anni Novanta però ogni aspetto della serie faceva storcere il naso a una platea abituata a show neoconservatori come I Robinson o Casa Keaton, dal fatto che un cartone potesse essere adulto nel tono, fino all’atteggiamento amorale di Bart e al suo essere un pessimo modello comportamentale per i più piccoli. Le magliette con l’immagine del primogenito dei Simpson vennero bandite dalle scuole.
Gli autori dello show colsero la palla al balzo inviando una missiva alla Casa Bianca firmata Marge Simpson, in cui il personaggio diceva di sentirsi offesa dalle parole della First Lady. Nel giro di un mese, Bush rispose alla lettera scusandosi dell’incidente. Poi, nel gennaio 1992, il presidente tenne un discorso alla convention delle televisioni cristiani. Dato che la sua campagna per la rielezione era basata sui valori della famiglia, durante il comizio disse: «Dobbiamo far diventare la famiglia americana molto più come i Walton e molto meno come i Simpson».
Nel libro La vera storia dei Simpson, Brad Bird commenta: «Eravamo felici, ma pensavamo anche fosse un’idiozia. Bush stava parlando di una famiglia animata. E sembrava che non ne avesse mai visto un episodio». Bush ripeté il discorso a un’altra convention, la stessa in cui il paleoconservatore Pat Buchanan tenne il discorso sulla guerra di valori in seno alla nazione. I produttori allora misero in testa a una replica dello show un frammento in cui i Simpson stanno guardando il discorso di Bush alla tv. «Ehi, noi siamo come i Walton, preghiamo anche noi per la fine della Depressione». La battuta ironizzava sulla campagna di Bush, incentrata sulla difesa dei valori famigliari invece che su piani a lungo termine per combattere la povertà. «Era il classico stile dello show», ricorda Bird. «Invece che offendersi, accettarono la frecciata e idearono la risposta più intelligente che potesse mai essere proposta».
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Quando tutti si dimenticarono dell’incidente, gli autori vollero tornarci sopra con Due pessimi vicini di casa, una puntata del 1996 in cui Bush trasloca nella stessa via di Homer. L’idea era di non dare segno politico alla trama, ma di far diventare l’episodio «un attacco personale», come disse lo showrunner Bill Oakley. La politica venne quindi rimossa dall’equazione. Anche perché Homer e il resto della cittadinanza non hanno davvero un’opinione in materia. I Bush, nell’episodio, dicono di aver scelto di trasferirsi a Springfield in quanto città con la minor affluenza alle urne di tutta l’America. E quando Marge ricorda a Homer che lui non ha mai votato, questi puntualizza: «Ho votato per le mucche e perché il latte torni in bottiglie di vetro. Dopodiché sono diventato cinico».
Gli autori non mossero critiche all’operato di Bush, si concentrarono sulla sua persona, tentando di essere bipartisan. Nel finale, Bush viene sostituito dal repubblicano Gerald Ford, «il presidente che più assomigliava a Homer», secondo gli autori, anche per via dell’immagine da uomo comune che Ford aveva acquisito durante la sua presidenza.
Nel 1997 il Wall Street Journal presentò un editoriale di Benjamin Stein intitolato Tv Land: From Mao to Dow, nel quale si sosteneva che lo show non ha posizione politica precisa e la stessa tesi è dimostrata empiricamente da Den of Geeks, che vede lo show come una terra di nessuno in cui l’unico credo valido è quello della commedia. Lo ha dimostrato lo stesso Homer in un recente episodio della serie, Simprovised, in cui il capofamiglia ha risposto in diretta a una serie di domande dei fan (i critici dicono che non è stato un granché). Un paio di ascoltatori gli hanno chiesto per chi avrebbe votato. Prima ha citato Bernie Sanders, poi Jeb Bush, «se sono ancora in tempo». Quello che scrive Den of Geeks sembra quindi condivisibile: «I conservatori li vogliono per sé. I liberisti dicono che parlano per loro. I comunisti ne tessono le lodi. Gli anarchici li citano. Tutti vogliono rivendicarne l’appartenenza. La verità è che i Simpson sono schiavi della battuta. Abbasserebbero i loro valori, diamine, abbasserebbero pure i loro pantaloni, per una risata». E comunque la migliore in tema politico resta questa.