Paolo Cattaneo è un giovane fumettista genovese che abbiamo imparato a conoscere bene negli ultimi mesi grazie al suo primo graphic novel uscito a fine 2015 per Canicola Edizioni. L’estate scorsa è un racconto denso e intenso – che per poco non è entrato nella spietata selezione dei migliori graphic novel del 2015 – che affronta il tema dell’adolescenza senza perdersi in luoghi comuni, ma con forte consapevolezza generazionale (per una lettura più profonda vi rimandiamo alla recensione pubblicata all’uscita del libro).
L’intervista che segue nasce dalle conversazioni prima e durante lo Showcase di Cattaneo a Lucca Comics 2015, rivista successivamente dall’autore.
Leggi alcune pagine in anteprima da L’estate scorsa.
Come hai iniaziato a lavorare a L’estate scorsa?
La storia è nata un po’ di anni fa. Ha avuto una lavorazione lunga, di quasi quattro anni. Prima e durante un percorso di produzione di storie brevi, mi sono deciso a lavorare a una storia lunga. Decisi si puntare su un argomento già affrontato, l’adolescenza, ma con un approccio più profondo e di largo respiro. Quel periodo, l’adolescenza, per me è ricco di ricordi, situazioni condivise, che hanno un fascino particolare.
Per lavorazione lunga, intendi anche travagliata?
Anche, nel senso che in fase di lavorazione ci sono state molte correzioni e molto editing, a più riprese. Non avendo un’esperienza lunga, essendo fondamentalmente un esordiente, mi sono buttato in una realtà editoriale come quella del mio editore, Canicola, composto da persone dalla grande esperienza e competenza. Quindi il lavoro svolto mi ha soddisfatto e formato molto. Sono contento di aver rifatto delle cose, soprattutto nella parte della scrittura. Dal punto di vista del disegno le cose sono andate molto più lisce.
La tua storia è raccontata in modo molto dettagliato, oltre che nei dettagli narrativi, anche proprio in quelli visivi. Di che tecniche ti servi? È una scelta in relazione anche alla storia?
Fondamentalmente disegno con una matita a scatto, con mina dura, per permettermi tutti i dettagli. Perché è più veloce e perché non me la sento mai di ripassare. Ho fatto esperimenti in passato ma mi annoiavo, i disegni si irrigidivano. La matita invece mi permette di sfumare – con una tecnica che io chiamo “sfumatino marcio” – non è uno sfumato fatto benissimo, ma non è nemmeno un tratteggio. Poi uso carta da fotocopie, semplicemente perché per me è la scelta più facile; mi prendo una risma, la trovo sempre e non ho esigenze particolari. L’unico problema sorge se ho da fare delle mostre o vendere gli originali [ride].
La tua attenzione al dettaglio si manifesta in scenari molto precisi e riconoscibili, condiviso a chi lo ha vissuto o visto. Perché questa maniacalità?
L’idea è quella di riproporre tutto il contesto in cui vivevamo io e i miei amici, fatto proprio anche di abiti e accessori. Se indossavi, per esempio, le scarpe Nike Air Max o le Converse, ti stavi distinguendo per un tipo di individuo piuttosto che per un altro. Anche se io mi tenevo fuori da certi meccanismi, nel raccontare mi è piaciuto ricreare questo contesto.
Dopo alcuni anni, senti in qualche modo dei limiti con la matita? Pensi di passare ad altre soluzioni?
Adesso la matita non è che mi abbia stufato, mi piace sempre, è comoda e continuerò a usarla. Però subisco la fascinazione per il colore, essendo ossessionato dal dettaglio e la verosimiglianza marcia e naif. Il colore ti può dare la possibilità di descrivere un pantalone in particolare o una maglietta dei Metallica, per esempio, ti serve il colore. Quindi vorrei provare il colore, senza abbandonare il tratto a matita. Quindi immaginati il mio disegno ma riempito di matita colorata. Senza digitale, però. Perché io faccio fatica a dialogare con una macchina.
Come ti confronti con le necessità tecniche di riportare su digitale e in stampa le tue tavole?
Eh, quando passo allo scanner, lui distrugge le tavole, nel senso che le fa diventare tutte grigette, con i pelucchi e i peli del gatto e allora devo fare un lavoro di pulitura che non sono molto bravo a fare. Quando poi ripulisco, cerco di mantenere il più possibile l’effetto originale, quindi fuori dalle vignette la pagina la rendo bianca, ma dentro lascio “sporcizie” della grafite. Cerco di stravolgere il meno possibile l’originale. Voglio che quando si vede la tavola si capisca bene che in originale il lavoro è fatto a matita.
Narrativamente, come lavori? Fai storyboard o racconti passo passo?
Io non avevo mai fato storyboard in vita mia. Mi sembrava un metodo che toglieva freschezza al racconto, togliendo entusiasmo al lavoro. Ma lavorare a una storia lunga per una casa editrice importante, che io considero tra le migliori in Italia, mi ha dato un senso di responsabilità da rispettare. Devo interagire con delle persone, e queste devono capire di cosa sto parlando. Lo storyboard in questo senso è efficace. Uso un blocco a quadretti da 30 centesimi, righello per i bordi, matita, e passo a fare schizzi nel peggior modo possibile, con appunti ai bordi. Rileggo più volte, anche a distanza di mesi, poi in fase di compilazione originale cambio abbastanza. Magari mi accorgo che una tavola è troppo densa e pesante, allora magari sposto delle vignette.
La tua mania per il dettaglio sfocia in un piacere a distanziarsi dal “bel disegno”. Qual è il percorso che ti ha portato a questo segno?
Ci sono arrivato dopo un lungo periodo passato senza disegnare, almeno cinque anni. Non avevo più la mano di prima e non riuscivo più a “disegnare bene” come avevo imparato all’Accademia, studiando pittura. A quel punto pensai di spingermi comunque a disegnare, magari forzando la mano proprio su quei difetti che mi sembrava di aver sviluppato. Come riferimenti penso sempre a pittori, come Ligabue – con le dovute distanze – che faceva un’anatomia stravolta, ma poi indugiava sui dettagli, restituendo realtà all’immagine. Per esempio, se io disegno una mano, la disegno con una prospettiva non esatta, ma poi mi metto lì con calma e disegno pellicine, unghia e spessore dell’unghia, impronta digitale, e alla fine chi guarda la può riconoscere come credibile.
In L’estate scorsa c’è del vero e del vissuto?
Sì, racconto di adolescenza perché il periodo lo ricordo bene, non necessariamente con nostalgia, ma con tenerezza. Io ammetto di aver vissuto da osservatore, non ricordo di esser stato un protagonista. C’è inevitabilmente del vissuto in quelle vicende, c’è anche dell’autobiografia, non voluta, entrata quasi in modo involontario.
Ci sono arti o discipline diverse dal fumetto che ti influenzano? Trovo una forte attenzione per inquadrature – cinematografiche e fotografiche – e per l’architettura, mentre le vignette sono curiosamente stondate come il monitor di un televisore a tubo catodico.
Sì, mi piacciono molto i palazzi di architettura popolare anni Sessanta, ci ho abitato e mi affascinano. Dal punto di vista cinematografico non mi considero un esperto, ma sono di più i film che guardo dei fumetti che leggo. Cerco senza dubbio di comportarmi come un regista, quando costruisco le vignette, mi piace un approccio diretto, con inquadrature tagliate male. Riguardo ai bordi delle vignette, è vero, ma non c’è un motivo esatto. Prima li facevo a mano e forse dipende da quello.