Se c’è stato un evento imperdibile, durante l’edizione 2016 del Festival International de la Bande Dessinée di Angoulême, quello è stato sicuramente l’incontro con Katsuhiro Otomo. E nessuno dei presenti sarebbe mai voluto essere da nessun’altra parte al mondo.
C’erano gli addetti ai lavori, i giornalisti, gli autori, i semplici appassionati, gli otaku, i fanatici, i nostalgici, quelli che sono cresciuti a pane e manga, quelli a cui Akira ha cambiato la vita. Mi sono voltata a guardare le facce e posso dire che buona parte era di nati a cavallo tra anni Settanta e Ottanta. La mia generazione è quella che più profondamente, più marcatamente, è stata segnata da Otomo.
E lui era lì, nella grande sala del teatro di Angoulême, per la sua masterclass straordinaria, occasione più unica che rara in Occidente (ma forse anche in Oriente). Ed io ero lì, grazie al biglietto prenotato via telefono in un maldestro francese al minuto 1 dell’apertura delle prenotazioni, e poi acquistato in loco sborsando i 20 euro meglio spesi della mia vita. Se la felicità costa 20 euro, e non implica malattie veneree, è il caso di non farsi scrupoli e pagare col sorriso.
Dirò di più: sono andata al mio primo Festival di Angoulême solo per lui. Solo perché potevo vederlo, sentirlo parlare, magari incontrarlo e – magari magari – strappargli un autografo, dicendogli “maestro, lei mi ha cambiato la vita”. Non che non ci abbia provato, quando me lo sono trovato di fronte per pura botta di fortuna davanti al Museo del Fumetto. Non che non abbia provato a rivolgergli parola in giapponese, chiedendo un autografo sul gigantesco artbook appena acquistato. Ne sono uscita però malamente sconfitta, azzittita dallo staff di editor, assistenti e interpreti del maestro, e divenuta poco dopo lo zimbello della piccola cittadina invasa dai fumettari di mezzo mondo. Poco male (ma lo rimpiangerò fino al giorno della mia morte), in fondo ero andata per la conferenza (raccontiamocela così).
E dunque sabato 30 il teatro è gremito, tutti trattengono il fiato in attesa che arrivi Otomo, sorta di pagano messia del nostro tempo (colui che, vale la pena ricordarlo, parlava delle Olimpiadi di Tokyo del 2020 circa trent’anni prima che la sede per quell’anno fosse ufficialmente designata. Oggi sappiamo che è davvero Tokyo).
Otomo arriva ed è un amabile sessantenne in pantaloni color senape e maglione grigio. Ha la faccia simpatica e i capelli bianchi, si siede sul divano davanti a tutti, affiancato solo dalla sua interprete, e comincia a parlare. Va a braccio, nessuno lo intervista, dice: «Mi hanno chiesto di raccontare la genesi di Akira e il mio lavoro, è la prima volta che faccio una cosa simile in vita mia, spero di dire cose sensate». E ne racconta di cose, due ore dense come un manuale, come un’autobiografia narrata. Il maestro si svela, il pubblico in religioso silenzio pende dalle sue labbra.
Si dice innanzitutto lettore di manga e amante del cinema fin da piccolo, lui che dopo il liceo si trasferì a Tokyo e cercò di vivere come illustratore. I suoi numi tutelari furono Osamu Tezuka, Shotaro Ishinomori e Mitsuteru Yokoyama, mostri sacri della storia del manga. Appassionato di fantascienza, provò a convincere il suo editor dell’epoca a disegnare un fumetto sci-fi, ma incontrò resistenze perché il genere era ormai tramontato. Gli fu concessa una storia breve, Fireball, pubblicata nel 1979 sulla rivista Action Deluxe e lunga cinquanta pagine. Era incompiuta, ma possedeva in nuce tutti gli elementi che avremmo ritrovato in Domu prima e in Akira poi. Due fratelli, di cui uno (chiamato Akira) con poteri ESP, alle prese con una rivolta popolare e un super-computer (chiamato Atom, di chiara ispirazione tezukiana) che governava la città. In Italia la storia comparve nel prezioso quanto ormai introvabile volume antologico Memorie, pubblicato da Star Comics nel 1994 (e che la sottoscritta, nerd della prima ora, custodisce gelosamente).
Otomo si ritrovò frustrato dalla non riuscita dell’opera, rimasta incompleta, e decise di sviluppare meglio il tema nel lavoro successivo, Domu. Nelle intenzioni di Otomo, Domu (letteralmente tradotto con “Sogni di bambini”) doveva funzionare come la visione di un film, essere racchiuso tutto in un unico volume e lasciare l’impressione di una storia conclusa. Il lavoro si rivelò non facile, e di nuovo l’autore si ritrovò frustrato dal limite di pagine che gli era stato imposto e che gli impediva di sfruttare i personaggi come desiderava. In Italia, Domu comparve alcuni anni fa nella collana I classici del fumetto di Repubblica Serie Oro (e indovinate chi lo custodisce gelosamente nella sua libreria?).
In seguito gli fu proposto di pubblicare su una nuova rivista, Young Magazine di Kodansha, e di nuovo Otomo scelse di sviluppare i temi a lui cari. Nacque Akira, serializzato dal 1982 al 1990 e poi raccolto in sei corposi volumi, per un totale di oltre duemila tavole. La prima grande influenza sulla stesura del manga fu quella del Tetsujin 28 (in Italia Super Robot 28) di Mitsuteru Yokoyama, fumetto del 1956 capostipite del genere “robottoni”, il cui protagonista era un bambino di nome Shotaro Kaneda. Otomo usò lo stesso nome per il protagonista del suo fumetto e diede al personaggio di Akira il numero 28 (il seriale con cui era stata marchiata la mano dei bambini esper). La storia di Tetsujin 28 era banale: un’arma segreta messa a punto dall’esercito giapponese, il robottone chiamato per l’appunto Tetsujin 28, fu ritrovata dopo la fine della guerra e usata per vari scopi, telecomandata a distanza da un ragazzino. A Otomo non interessava copiare la storia, quanto piuttosto il background del Dopoguerra, su cui inserire anche l’elemento delle Olimpiadi, dopo che quelle di Tokyo del 1964 avevano segnato la sua infanzia.
A livello cinematografico, le influenze maggiori furono Arancia meccanica (per i teppisti), Blade Runner (soprattutto per il film di Akira, del 1988), Metropolis di Fritz Lang (per la megalopoli) e Mad Max. Quest’ultimo lo aveva colpito per la presenza delle bande di motociclisti, all’epoca un fenomeno molto diffuso anche in Giappone. In una scherzosa digressione il maestro rivela di essere affascinato dai motori ma di non avere neanche la patente. Da ragazzino viveva in campagna “e una volta a Tokyo… che te ne fai della macchina a Tokyo?” Ilarità generale.
Il cinema lo influenzò su tutti i piani: montaggio, fotografia, design, regia. Come per Domu, voleva che anche il fumetto di Akira potesse essere fruito come un film. Voleva riuscire a controllare la velocità di lettura dell’opera, il ritmo con cui si giravano le pagine. Al contrario dei fumetti francesi, i manga hanno centinaia di pagine, e l’autore deve saper dirigere lo sguardo del lettore tramite il montaggio della tavola, per farlo soffermare dove lui vuole. Nei comics americani le scene d’azione hanno vignette molto grandi, splash page e simili. Otomo faceva esattamente il contrario: rendeva serrato il ritmo giustapponendo vignette piccole. Il posizionamento dei climax narrativi, maggiori e minori, fu l’elemento a cui prestò più attenzione nella costruzione della storia. Fin dagli appunti raccolti in fase iniziale, sapeva già abbastanza chiaramente come si sarebbero mossi i personaggi, ma scelse di inserire la distruzione di Tokyo, un climax potentissimo, nel terzo volume, ovvero a metà della storia. In corso d’opera aggiustò il tiro e apportò delle modifiche, ma l’intero plot era già stato deciso fin dall’inizio.
Riflettendo e documentandosi sulle sue fonti di ispirazione, si rese conto che un breve fumetto di Shotaro Ishinomori (Soshite… daremo inakunatta, ovvero …E poi non rimase nessuno), letto quando era alle medie, conteneva l’immagine della distruzione di una città, forse New York, quasi identica a quella che anni dopo avrebbe realizzato lui per la distruzione di Tokyo in Akira. Non era l’unica reminiscenza di tale fumetto, del quale si sarebbero ritrovate altre tracce nella sua opera, seminate inconsciamente (di certo non era sua intenzione riprenderle di proposito) e riemerse una volta concluso il lavoro.
L’immagine di Tetsuo fu ispirata da quella dei Police di Synchronicity, molto anni Ottanta, e anche il suo nome ˗ come quello di Kaneda ˗ veniva da Tetsujin 28. Per le moto, le fonti principali furono Easy Rider e Tron (e a questo punto il maestro fa lo schizzo della moto di Tron, troppo grossa e tonda per i suoi gusti, e poi la modifica per renderla più simile a quella di Kaneda, e il pubblico resta senza fiato, anche se si tratta solo di pochi tratti). Anche il design futuristico dell’ingegnere tedesco Luigi Colani fu fondamentale (Otomo lo definisce italiano, ma in realtà è tedesco di origine svizzera, e tuttora vivente). Decise di copiare di sana pianta il modello di Colani, ma per non incorrere in problemi riempì la famosa moto rossa di adesivi. Fu dunque solo un modo per evitare guai legali…
Ancora risate quando rivela l’origine del satellite “Sol”. Per il suo design copiò quello del suo… rasoio elettrico. E anche per il nome. In giapponese “radersi” si dice “soru”, che ha la pronuncia uguale a “sol”. Pubblico in visibilio. Raggiungiamo il picco di delirio quando mostra una foto del suo pennino preferito, regalatogli nientepopodimeno che da Moebius in persona. Nella fumettara terra di Francia, è parso come menzionare Dante in un festival letterario italiano (circa). Giù il teatro tra applausi e lacrime, poi, quando racconta che il pennino è fatto con un ramoscello di albero del giardino dello stesso Moebius, su cui questi scrisse “Moebius pour Otomo”. E no, non mi sono trattenuta.
Infine, un discorso a parte meritano le spiegazioni sui retini. Il retino ˗ piccola premessa mia ˗ è uno strumento fondamentale per i mangaka, più che per i disegnatori di tutto il resto del mondo. Ci sono assistenti arruolati solo per applicare i retini sulle tavole, ne esistono centinaia di tipi e il loro utilizzo è realmente cruciale per la resa grafica di una storia. Ebbene, Otomo afferma candidamente che lui, per creare retini dal nulla appositamente per Akira, utilizzò i disegni di Gustave Doré, uno dei più grandi illustratori e incisori di tutti i tempi. Dai disegni del Don Chisciotte di Doré estrapolò gli sfondi, anche ritoccandoli all’occorrenza (con del bianco per schiarirli o aggiungendovi sopra altri retini), che poi avrebbe applicato alle sue tavole per dare particolari effetti alle ombre e ai background. Una rivelazione abbastanza sconvolgente. Ero seduta accanto a un amico, stimato illustratore, che per poco non ha avuto un mancamento. «Ha copiato Doré?!» Ma, pensiamoci bene, non è un’idea geniale? Otomo disegnò Akira al ritmo di quaranta tavole al mese, per otto anni, avvalendosi al massimo di due assistenti. Un’enormità, una mole di lavoro smisurata. Per mantenere livelli altissimi nel minor tempo possibile, quale migliore idea che sfruttare, adattandolo al meglio, il lavoro di un altro mostro sacro? Otomo chiosa l’intervento affermando, sereno: «Avrei voluto brevettare il mio sistema. Doré è stato davvero un ottimo assistente» (e ora accapigliamoci).
Nella fase finale dell’incontro Otomo mostra molte foto risalenti all’epoca della stesura di Akira. I suoi quaderni di appunti, le foto del suo studio, le foto scattate in giro per il Giappone come fonte di documentazione (ad esempio nell’isola di Gunkanjima, a largo di Nagasaki, disabitata e abbandonata, le cui miniere dismesse in rovina servirono da modello per la Tokyo distrutta del manga).
Rispondendo alle molte domande del pubblico, afferma che con il suo fumetto si voleva schierare dalla parte dei cittadini e assolutamente non dalla parte del governo o delle forze militari. Lo stesso titolo, Akira, è soltanto un nome maschile molto banale, che cozza con le terribili esperienze sovrumane vissute dai protagonisti, che però sono solo bambini come tanti altri. Parla dell’influenza subita da Moebius e da Robert Crumb e del fatto che lui le donne non le sa disegnare (l’inserimento di Kei nel fumetto fu voluto dall’editor, per movimentare un po’ la storia: rivelazione agghiacciante pure questa). Parla della collaborazione con il collettivo musicale Yamashirogumi, creatore della colonna sonora del film di Akira: negli anni Ottanta unico ensemble in Giappone a occuparsi di musica etnica, nasce come coro universitario composto da musicisti amatoriali riuniti intorno al leader Yamashiro, a cui Otomo in persona andò a bussare.
Ecco. Sarebbe potuto non finire mai.
Sarebbe potuto andare avanti altre due, tre, quattro ore e saremmo comunque rimasti lì a berci qualunque aneddoto. Avrei potuto scrivere altre due, tre, quattro cartelle di report, sviscerando qualsiasi parola pronunciata e (forse) avreste continuato a leggere. E non per i meriti di chi scrive, umile scrivana, ma per quelli di chi racconta. L’autore di una cosa che, diciamolo, ha influenzato diversi campi della cultura e dell’entertainment per molte (tutte?) generazioni a venire. Qualcosa con cui tutti gli autori e i lettori dovrebbero fare i conti. Che sta lì, perché è una pietra miliare, un’opera monumentale, un capolavoro del Novecento, o come preferite nominare voi questa “cosa grande”. Una cosa di una tale bellezza che chiunque ami leggere o scrivere o disegnare dovrebbe conoscere e poi tenere con sé. È un fumetto. È Akira. E gli siamo tutti debitori.
L’incontro con Otomo è disponibile in versione integrale sul canale ufficiale YouTube del Festival di Angoulême, cliccando QUI.