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Hermann, un uomo ‘malato di disegno’

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Senza dubbio l’assegnazione del Grand Prix de la ville d’Angoulême non è mai stata tormentata quanto quella di quest’anno. Le accuse di sessismo rivolte dal  sono state in grado di mandare in confusione l’organizzazione del premio, che prima ha annunciato che non ci sarebbe stato alcun cambiamento alla lista (con soli nomi maschili), per poi aggiungere sei autrici all’elenco e, infine, ri-modificare il tutto rendendo libera la votazione a qualsiasi autore e autrice. Un effetto interpretato come segno di una ‘resa’ alle pressioni, e/o presa d’atto (tardiva) degli errori commessi.

Alla fine, fra i tre finalisti emersi dalla nuova procedura di voto, l’ha spuntata Hermann. Un risultato che potrebbe – chissà – avere accontentato molti, dato che è difficile contestare nel merito un veterano del suo calibro. Classe 1938, con i suoi 77 anni di età e più di 50 di carriera, porta a casa un record: è l’autore più anziano all’interno di un palmarès, quello del Grand Prix, in cui l’età media si attesta poco sopra i 50 anni.

E pensare che Hermann non ama Angoulême. Dopo l’edizione 2010 del Festival, infatti, aveva dichiarato di non volerci più tornare, ritenendolo un ‘supermercato’ con troppa gente. E andando ancora oltre, aveva definito la bande dessinée «un business, un tipo di arte avvolto da pretese e snobismo», come dichiarò al quotidiano Le Populaire du Centre. Lo scorso anno – presente nella terzina finale – si ritirò persino dalla corsa al Grand Prix, salvo poi ripensarci (forse convinto dal suo editore Glénat). Quest’anno, però, gli è toccato tornarci, ad Angoulême.

Nato in Belgio, più precisamente nelle Ardenne, Hermann Huppen è tra gli autori ‘classici’ più eclettici del panorama della bédé. Nel corso della sua carriera ha infatti realizzato, soprattutto come disegnatore (ma non solo), fumetti polizieschi, western, fantascientifici e di guerra, con un forte gusto per l’avventura che traspare in tutte le sue opere. E una vera e propria ‘malattia’ per il lavoro, come ha ammesso in alcune interviste, tanto da disegnare ancora oggi due album all’anno. Del resto, Hermann ha sempre amato dire di considerarsi un artigiano, più che un artista.

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Una tavola dal primo album di Comanche

Il western “anti-linea chiara”

La sua carriera ebbe inizio nel 1964, per la piccola rivista Plein Feu, sulla quale pubblicò una breve storia intitolata Histoire en able, che oggi è possibile leggere gratuitamente sul suo sito ufficiale (cliccando QUI). Ma fu nel 1966 che la sua carriera prese una svolta decisa, quando entrò come apprendista nello studio di Greg, pseudonimo di Michel Louis Albert Regnier, di 7 anni più grande di lui, che sarebbe diventato un suo enorme punto di riferimento. Su sceneggiatura di Greg, Hermann lanciò una serie diventata ormai classica come Bernard Prince (1966), poliziesco con protagonista l’eponimo agente dell’Interpol e ambientazioni esotiche. In Francia la serie fu pubblicata inizialmente sul Journal de Tintin, segnando un momento importante, dato che Hermann, con il suo tratto realistico – tra gli autori di riferimento ha spesso citato Sergio Toppi, Dino Battaglia e Milo Manara – interruppe l’egemonia della “linea chiara” alla Hergé presente nella rivista, segno del cambiamento dei tempi, ma anche di come l’autore fosse già preso in grande considerazione, nonostante la giovane età.

La collaborazione con Greg proseguì poi nel 1969 – sempre sul Journal de Tintin – con Comanche, una serie western in linea con le avanguardie del genere dell’epoca, dato che si distanziava dallo stretto dualismo tra sceriffi (buoni) e indiani (cattivi) proponendo, invece, ambienti e personaggi dai contorni sfumati (e trame piuttosto intricate). Fatto curioso, nonostante la serie fosse intitolata a una giovane ragazza che si trovava a dover gestire un ranch contro chi voleva appropriarsi delle sue terre, il vero protagonista della serie divenne fin da subito il cowboy Red Dust, il cui misterioso passato faceva da filo conduttore alle singole storie. Nel 1967, intanto, Hermann aveva anche creato con lo sceneggiatore Jean-Luc Vernal la serie Jugurtha – con protagonista l’omonimo re numida realmente esistito – che però aveva abbandonato dopo solo due storie, per passare proprio a Comanche.

Realismo amaro. Dall’avventura post-apocalittica al (crudo) Medioevo

Negli anni Settanta, il secondo snodo importante della sua carriera: con Jeremiah (1979) Hermann iniziò a scrivere, oltre che a disegnare, le proprie storie. Questa serie, ambientata in un futuro post-apocalittico alla Mad Max – ma con una inclinazione poco pessimistica, più in linea con il fumetto d’avventura tout court – può vantare oggi 34 album, ed è ancora in corso di pubblicazione. Non a caso Jeremiah è forse la serie per cui Hermann è più noto al di fuori del Belgio, grazie alla trasposizione in un serial tv live action di produzione statunitense del 2002, durato due stagioni. La serie tv – che in realtà aveva pochi punti in comune con il fumetto – vedeva come attore protagonista Luke Perry, il Dylan di Beverly Hills 90210, e come showrunner J. Michael Straczynski, autore televisivo con molti fumetti sceneggiati alle spalle per Top Cow e Marvel Comics, negli anni Duemila.

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Jeremiah, protagonista dell’omonima serie di Hermann

Parallelamente a Jeremiah, dal 1984 Hermann portò avanti anche la serie Les Tours de Bois-Maury, di ambientazione medievale, sceneggiata da lui fino al 1998, quando arrivò il figlio Yves H. (ovvero proprio Huppen) ad affiancarlo. Anche se non aveva aderenza storica, la serie era caratterizzata da un crudo realismo, nel pieno rispetto della filosofia dell’autore, che nel 2001 a Le Figaro avrebbe poi rivelato che c’era sempre stata un po’ di amarezza nelle sue storie, nelle quali gli piaceva mostrare la reale crudeltà del mondo, senza maschere né illusioni.

Da fine anni Ottanta in poi, inoltre, Hermann si è dedicato anche ad alcune opere “one-shot”, sceneggiate dal figlio, da sceneggiatori come Yann o Jean Van Hamme e da lui stesso, come nel caso di Sarajevo Tango (1995). Quest’ultima costituisce ancora oggi un “unicum” all’interno della produzione dell’autore, che volle dire la sua su un tema d’attualità come quello della guerra che all’epoca stava straziando i Balcani. Sarajevo Tango mette in scena una narrazione ‘piccola’ e anedottica, ma molto realistica; per smorzare la crudezza Hermann sceglie di insistere sulle allegorie (come un grosso pallone a forma di “indice accusatorio”, puntato dalle Nazioni Unite contro i paesi in guerra, che aleggiava sopra i cieli dell’ex Jugoslavia), con un risultato forse non particolarmente raffinato, ma certo d’impatto.

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La cruda realtà di ‘Sarajevo Tango’

Dopo oltre 50 anni di produzione, è inevitabile riconoscere come Hermann rappresenti in modo emblematico un approccio classico al disegno fumettistico, figurativo e naturalistico. Ma in questa cornice, il senso del riconoscimento di Angoulême è che il talento di questo autore ha permesso al suo stile di attraversare i decenni senza risultare datato. Nell’intervista realizzata dal giornalista Olivier Delcroix di Le Figaro subito dopo la vittoria del Grand Prix, l’autore ha tenuto a sottolineare la costanza, la motivazione e la dedizione per il proprio mestiere, che continua a nutrire questa fase della sua carriera:

C’è sempre stata un’evoluzione nel mio tratto. Se si prendono i miei primi disegni, ci si accorge che c’è una grande differenza tra il mio stile degli anni Sessanta e quello di oggi. […] Come sempre, seguo i miei impulsi.

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