Dopo la strage di Charlie Hebdo a Parigi l’interesse dell’opinione pubblica verso la satira e la libertà di espressione si è incrementata; sia trovando un rinnovato interesse per fenomeni di satira, sia nella sensibilizzazione verso i fenomeni di limitazione della libertà fuori dai nostri confini. Oggi, le notizie sull’attività dei vignettisti di protesta messa a repentaglio da regimi o mentalità conservatrici arrivano anche da noi, sensibilizzando particolarmente l’opinione pubblica (che sia la storia di vignettisti imprigionati o di un giornale messo in crisi dalla censura).
Prima di tutto questo ci fu un caso particolarmente grave, oggi quasi dimenticato. Quello di Naji al-Ali, di cui nel 2015 è uscita la raccolta di vignette Filastin compilata da Eris Edizioni (e ora ristampata). «Uno dei più coraggiosi vignettisti al mondo», lo ha definito Joe Sacco, Naji al-Ali è nato in Galilea, Palestina, nel 1936. Cominciò a disegnare all’inizio degli anni Sessanta, quando fu incarcerato per la prima volta dal servizio di intelligence libanese per motivi politici. Da lì in poi usò il disegno come mezzo di protesta. «Le acute grida che sentivo dentro di me avevano bisogno di un mezzo di espressione diverso. A un certo punto […] cominciai a disegnare sui muri del nostro Campo», così spiegava i suoi inizi (in una intervista citata in Filastin), che intrecciarono subito politica e disegno, nei primi periodi di repressione del suo popolo.
Già nel 1961, grazie al giornalista palestinese Ghassan Kanfani, le vignette di Naji al-Ali iniziano a essere pubblicate. Nel corso degli anni cambiano le testate per cui lavora, cambiano i paesi in cui si rifugia, ma non diminuisce il suo impegno politico espresso tramite il disegno, che denuncia la condizione del popolo arabo nelle regioni da cui lui proveniva. Nel 1985 venne espulso dal Kuwait e si rifugia a Londra. Le sue vignette sono ormai conosciute in tutto il mondo, e questo gli costerà la vita. Fu assassinato a Londra, nel 1987, con un colpo di pistola di fronte alla sede di al-Qabas, il giornale kuwaitiano per cui lavorava.
Leggi 20 vignette in anteprima da Filastin.
Leggi anche: 11 fumetti per capire il conflitto israelo-palestinese
Le sue vignette assurgevano al ruolo di cronaca illustrata del mondo palestinese. Attraverso un segno asciutto, graffiante e tratteggiato, componeva scenari che equilibravano sempre realismo e simbolismo. Volti e figure umane distorte e sofferenti, circondate da immagini che raffigurano esplicitamente o implicitamente guerra e dolore.
In quasi ogni vignetta compare un bambino raffigurato di spalle, come osservatore silente. La sua figura è icona di dolore e rassegnazione, in quella posizione appena china, da adulto (quasi da anziano), sporco, con abiti rattoppati. Il bambino è sia simbolo che elemento narrativo in un quadro immobile, è fattore di risonanza emotiva, una caricatura tristemente buffa, che insegna al lettore dove puntare lo sguardo.
Leggi anche: La vignetta politica come comprensione del reale: intervista al vignettista satirico Latuff
È piccolo e indifeso, metafora di un popolo intero, schiacciato da potenze ed equilibri mondiali a lui inafferrabili. Quel bambino, spiega Vauro Senesi nella prefazione, è un Handala, un bambino senza sorriso, che per questo non mostra il volto; per i palestinesi è un immagine simbolo di oppressione: “solo quando la loro terra sarà libera potrà sorridere e allora si volterà”.
I suoi disegni si elevarono allo stato di icona – immediatamente riconoscibili – uscirono dai giornali e campeggiarono sui muri, crudi antesignani della protesta pop di Banksy (l’artista inglese spesso espressosi anche lui nelle terre di Naji al-Ali).