«Dio Santo, che schifo. Doveva essere il peggior personaggio mai disegnato al mondo e io presi spunto da come Rob Liefeld aveva creato Cable, buttandogli addosso qualsiasi cosa – le cicatrici, la roba all’occhio, il braccio. Poi, qualcuno mi spiega perché avesse tutte quelle armi?». Quando Alex Ross dovette creare il personaggio di Magog per Kingdom Come, ricevette dallo sceneggiatore Mark Waid le istruzioni di disegnare un condensato di tutto quello che odiavano del fumetto moderno. Ross scelse come esempio Liefeld, come rivelato in un’intervista di qualche anno dopo.
Rob Liefeld è tante cose. È il co-creatore di Deadpool e Cable (poi ci torniamo), è uno dei fondatori dello studio Image, ideato dai fumettisti più in voga degli anni Novanta per poter avere il controllo creativo e legale delle loro opere, ed è il disegnatore più odiato al mondo. Ogni sua caratteristica stilistica è diventata fonte di battute e parodie. Le anatomie impossibili, le spalline esagerate dei costumi, la sua incapacità a disegnare i piedi. Chi frequentava forum di fumetti e annessi nella loro epoca d’oro si sarà imbattuto almeno una volta nell’immagine riassuntiva dello stile liefeldiano, il Capitan America steroideo.
«Tutto quello che disegna è interessante, che sia accurato o meno», lo difende Robert Kirman, l’autore di The Walking Dead. «Quelli che criticano le sue anatomie non hanno gioia nel cuore. Penso che Rob guardi al corpo umano dicendo “È noioso, io so fare di meglio”». D’accordo, disegnare sette muscoli brachiali su un solo arto potrebbe essere divertente da vedere. Di certo non lo è l’incuria verso qualsiasi tipo di dettaglio. Gli sfondi sono spesso inesistenti, e la continuità visiva non è contemplata: una finestra quadrata all’esterno diventa rotonda in un’inquadratura dall’interno, marsupi e sacchetti spariscono da vignetta a vignetta. Il tutto all’insegna di un raffazzonamento generale che non prevede nessuno studio preliminare. «C’erano questi militari che andavano da Jim Lee a dirgli quanto fossero accurati i suoi disegni», racconta Liefeld. «Io temevo il loro giudizio e pensai “fanculo, non mi metto a perdere tempo guardando le foto delle armi. Me le inventerò e basta”».
Nei primi anni Novanta, grazie all’apertura dei media generalisti al fumetto (che finì col provocare una bolla speculativa dagli esiti devastanti), gli autori erano diventati il corrispettivo cartaceo delle rockstar. E Liefeld era una di loro. Nel 2015 il Nostro ha scritto un paio di serie per la Image e ora ha in programma un graphic novel sul Mercenario Chiaccherone, per il resto sono più ben accolti gli intoccabili di lui. Ma ragazzi, come andava forte negli anni Novanta. Addirittura, nel 1992, le due case d’asta più famose al mondo, Christie’s e Sotheby’s, organizzarono in modo indipendente tra loro delle vendite con protagonisti i fumetti. C’erano prime edizioni importanti e un lotto assortito di tavole originali. Sotheby’s batté le pagine di Amazing Spider-Man #31 (1965) disegnate da Steve Ditko, in cui compariva per la prima volta Gwen Stacy, per 20.000 dollari. Niente rispetto a oggi, s’intende, ma un altro lotto fece anche meglio. Gli originali di X-Force #1 di Liefeld, uscito appena un anno prima, furono venduti per 39.000 dollari.
La carriera di Rob ha dell’incredibile. Dopo una gavetta non pervenuta – neanche ventenne debutta in DC, per poi disegnare qualche fill-in per la Marvel – viene messo su New Mutants, testata che stava zoppicando nelle vendite. Con lui al timone, la serie recupera pubblico e rinasce come X-Force, altro colosso di vendite, grazie all’introduzione di nuovi personaggi come Domino, Cable e soprattutto Deadpool. All’inizio un semplice assassino laconico, Deadpool è un melting pot di altri personaggi: prima di sfondare la quarta parete come She-Hulk o Howard il Papero, è un miscuglio tra l’aspetto dell’Uomo Ragno e il retroterra di Wolverine.
Negli anni, i dettagli della genesi cambiano di intervista in intervista, specie quelle degli ultimi mesi. La versione migliore è quella in cui un machiavellico Liefeld vede i colleghi assegnati a personaggi importanti come Spider-Man e gli X-Men e decide di crearsene uno pure lui, tenendo a mente, nel processo di design, il consiglio di Todd McFarlane, a cui bastava disegnare un ovale per completare una tavola dell’Uomo Ragno. E dato che è pure un mezzo plagio di Deathstroke, personaggio della DC Comics, alla fine si pensò di rendere esplicita l’ispirazione: Deathstroke si chiamava Slade Wilson? E Deadpool si sarebbe chiamato Wade Wilson. La più grande ispirazione però è Danny DeVito ne I gemelli. Sì, perché, come il personaggio di DeVito è la versione malriuscita di Schwarzenegger, Deadpool è l’esperimento fallito che porta a Wolverine. E noi siamo ancora qui a chiederci perché Liefeld ha avuto successo.
Da lì in poi, con un lento bruciare. Grazie anche grazie ad autori come Joe Kelly e Christopher Priest, Deadpool diventerà un personaggio culto per schiere di fan e un simbolo d’orgoglio per il suo creatore. Meglio, co-creatore, visto che l’albo di debutto di Deadpool, New Mutants #98, era sceneggiato da Fabian Nicieza. Eppure per Liefeld, tutto il processo di nascita del personaggio è da ricondursi a lui. «Se un bidello avesse sceneggiato quel numero, sarebbe stato lui il co-creatore del personaggio», ha affermato Liefeld in un recente pezzo del New York Times. La dichiarazione ha portato molti autori, tra cui Dan Slott e Kurt Busiek, a criticare le affermazioni di Liefeld, che è poi stato salvato in angolo da Nicieza. Su Twitter, lo sceneggiatore ha spiegato di aver chiarito con Liefeld e che l’autore del pezzo ha manipolato le affermazioni del disegnatore. Liefeld però non ha mai nascosto di ritenersi responsabile della fortuna di molti scrittori: «Le scrivevo io quelle storie e, come Jim Lee e gli altri, uno sceneggiatore mi affiancava per aiutarmi. Chiunque lo avesse fatto sarebbe stato il vincitore della lotteria Liefeld». E in generale è uno a cui piace fare a botte sui social. Se l’è presa con Scott Snyder per motivi che lo stesso sceneggiatore non ha ben capito.
Liefeld è fermo a quando era giovane, quando i fumetti li facevano i disegnatori. Ora le cose sono diverse, la serialità su carta è simile a quella televisiva e gli sceneggiatori tengono le redini del discorso. All’epoca non era così, Liefeld, Lee e gli altri erano spesso soggettisti: si inventavano una storia, disegnavano le loro ventidue pagine e poi subentrava uno scrittore che, in una giornata o due, doveva riempire le nuvolette di dialoghi che avessero senso in relazione alle azioni. In quel periodo, McFarlane e Liefeld furono ospiti della serie The Comic Book Greats. La prima regola che diedero agli aspirati disegnatori fu di non rimpicciolire troppo le vignette. Di disegnarne poche, per privilegiare grandi immagini a effetto. «Tu dai a uno sceneggiatore dieci vignette e lui racconta la storia in dieci vignette», diceva il creatore di Spawn, facendo trasparire ben poco rispetto per la componente letteraria del mezzo. «Dagli una splash page e lui racconterà tutta la storia in quella pagina. Deve solo mettere più nuvolette ai lati». Ospite al Comic-Con di San Diego nel 1992, McFarlane partecipò a un panel intitolato “I disegnatori hanno davvero bisogno degli sceneggiatori?”.
In quel momento storico, la risposta era: no. Perché erano i nomi di Liefeld, McFarlane e compagnia a muovere le vendite. Erano loro di moda, non Nicieza o Claremont. Era Liefeld che rilasciava interviste al Los Angeles Times e appariva nei talk show (diurni e notturni). Fu persino il protagonista di uno spot di jeans Levi’s diretto da Spike Lee. All’apice della fama, insieme ad altri sei colleghi, Liefeld lasciò la Marvel per fondare la Image e monetizzare il loro status di icone. La Image prima maniera era diversissima da quella attuale, fucina di talenti e idee patinate. Quando nacque, era un centrifugato di disegnatori in preda alle loro manie di grandezza, tutte puntualmente giustificate. Youngblood di Liefeld e Spawn di McFarlane, i primi titoli a uscire, segnarono record di vendita per un editore indipendente.
Il sogno durò pochi anni: ci fu chi se ne andò (Marc Silvestri), chi si stufò di stare al tavolo da disegno e divenne imprenditore (McFarlane) e chi invece sta ancora lì a fare il suo, ieri come oggi (Erik Larsen). Il gruppo si fece meno compatto. Jim Lee e Liefeld ne approfittano per tornare sui propri passi. Dopo che alcuni dei più importanti eroi Marvel vennero uccisi e ricreati in una realtà tascabile nell’evento Onslaught, la Casa delle Idee subappaltò a Liefeld e Lee le sue testate di punta nell’operazione nota come La rinascita degli eroi. Ma come, due dei paladini dei fumetti creator-owned che tornano a lavorare per il padrone? Pure Frank Miller e Barry Windsor-Smith avevano dato la loro benedizione, e questi fanno i crumiri? Fu un episodio imbarazzante per Image. E quando poi venne fuori una lunga lista di porchette a opera di Liefeld (ritardi nelle consegne, uso di staff e fondi per progetti con l’etichetta personale Maximum Press, indipendente dalla Image), McFarlane fu costretto a scindere i rapporti, lasciandosi andare a promesse che non è stato in grado di mantenere come: «Per tornare alla Image quel ragazzo dovrà passare sul mio cadavere».
Per Liefeld fu l’inizio della fine. Le vendite de Il ritorno degli eroi non furono alte abbastanza da giustificare gli onerosi servigi di Liefeld che, a pochi mesi dalla fine del suo contratto, fu messo alla porta. Poi, di colpo, gli riuscì di fare qualcosa di giusto. Uscito da Image, fondò la Awesome e assunse Alan Moore per scrivergli i fumetti. Peccato che Moore mollò poi tutto e portò le sue idee alla Wildstorm di Jim Lee (risultato: America’s Best Comics). La cosa interessante, forse degradante se vista dall’esterno, è che Liefeld ha sempre perso i suoi ingaggi non per la fattura infelice dei suoi disegni, come sarebbe lecito aspettarsi, ma perché la sua condotta ha allontanato editor e collaboratori. Dal 2000 a oggi ha fatto la spola tra rimpatriate in Marvel e DC, annunciando molti progetti e disertandone altrettanti. Di recente, la reinvenzione di Prophet, uno degli Youngblood, a cura di Brandon Graham ha dimostrato che una qualsiasi eredità liefeldiana deve per forza passare attraverso il rifiuto della stessa.
Fino a qui, la storia di Liefeld sembrerebbe quella di un miracolato. L’Ed Wood dei fumetti, come lo ha definito lo scrittore Peter David. Però qualcuno che lo apprezza in giro c’è. Grant Morrison, per esempio, o Robert Kirkman. «Ogni personaggio che disegna ha una certa energia e un certo entusiasmo», ha detto Kirkman al New York Times. «Ha un’estetica che quand’ero ragazzino mi sconvolgeva. Lo idolatravo».
Da ragazzino, appunto. Ci sono due modi per guardare al suo fenomeno. Detta in maniera truce: Rob Liefeld è il perfetto case study di come non serva essere bravi per affermarsi nel proprio lavoro. Chi se ne frega dello studio, chi se ne frega delle cose fatte bene. No alla competenza e sì alla roba «un tanto al chilo». Oppure, si riconosce che, se negli anni Novanta Liefeld era una delle stelle del fumetto e i giovani lettori compravano i suoi fumetti, qualcosa di buono deve pur averlo fatto – anche solo aver avuto la fortuna di ritrovarsi nel posto giusto al momento giusto. Che all’epoca fosse seguito da molti è spiegabile prendendo a prestito le parole del saggio di Carl Wilson Musica di merda: certi artisti riscuotono successo perché il pubblico vuole, come scrive Evil Monkey, «emozioni sparate in faccia con la violenza di un treno merci in pieno deragliamento». Le splash page disseminate negli albi, le tavole velocissime e il nugolo di linee tracciate su volti e corpi dei personaggi sembrano aderire a questa idea di intrattenimento.
La citazione iniziale di Alex Ross mostra proprio questo: Liefeld ha colto lo zeitgeist degli anni Novanta, con le spalline, gli spuntoni, i marsupi e le armi fuori misura, e ha coniato un immaginario che disegnatori più dotati di lui non sono riusciti a inventarsi, diventando – per quanto bravi – note a margine della storia dei fumetti. E qui i più acculturati di voi potranno snocciolare serafici argumentum ad judicium come «Mangiate merda, milioni di mosche non possono sbagliarsi». Liefeld continuerà a disegnare mentre è al volante del suo bolide, a dimostrazione che è inutile starci a ragionare. Ha vinto lui comunque.