Non c’è discorso o articolo sui film Disney che non tiri in ballo la loro inadeguatezza a essere prodotti solo per i bambini. Di solito si citano le morti della madre di Bambi o del padre di Simba. Ed è innegabile che quella Disney sia una tradizione di pellicole ombrose, quasi punk in alcuni casi, fatte di animali parlanti e numeri musicali sotto le cui apparenze di divertissement si nascondono inquietudini e turbe infantili. Basta un giro veloce sui motori di ricerca accademici per imbattersi in pezzi tipo Il fascismo Disney.
Non dovrebbe sorprendere che le fonti originali da cui Disney e soci hanno tratto i loro film siano ancora più oscure e si riallaccino a un’idea di fiaba che guarda al genere come a racconti cautelativi costruiti su paure da esorcizzare, istinti primordiali e conflitti interiori che il lettore deve risolvere.
Il primo lungometraggio Disney, Biancaneve e i sette nani, segue la versione scritta dai fratelli Grimm omettendolo alcuni dettagli trucidi, come il cannibalismo della regina, che si ciba degli organi interni di un cinghiale credendoli quelli di Biancaneve, e il suo destino ultimo: invece della caduta dal dirupo, muore sfiancata dopo essere stata costretta a ballare con un paio di scarpe di ferro incandescenti. I Grimm mostrano un’ossessione per le torture plantari anche nella loro versione di Cenerentola, un racconto popolare narrato da numerosi autori, in cui le sorellastre si tagliano la punta del piede e parte del tallone pur di calzare la scarpetta (come se non bastasse, vengono accecate dalle colombe agli ordini di Cenerentola).
Nei primi decenni di vita dello studio, la consuetudine era quella di edulcorare qualsiasi tipo di sofferenza fisica dei personaggi. E così il Grillo Parlante non moriva come succedeva nel Pinocchio di Collodi, mentre i realizzatori di Le avventure di Peter Pan fecero attenzione a non seguire il testo di J. M. Barrie alla lettera: nel libro Peter e Wendy, Barrie scriveva che Peter uccideva i Bambini Sperduti troppo cresciuti per stare sull’isola, rimpiazzandoli con altri.
Lo studio si allontanava dai canoni del folklore europeo negli anni Settanta, preferendo storie originali o, quand’anche adattati, spunti più avventurosi. Anche in quest’ultimo caso gli alleggerimenti fatti alla fonte erano radicali. Lo erano al punto che viene da chiedersi cosa ci avessero trovato di disneyano nella saga Le cronache di Prydain, adattato in Taron e la pentola magica, o nel libro di Daniel P. Mannix The Fox and the Hound, servito come base per Red e Tobi nemiciamici. Mannix non lesinava scene di morte animalesche e un finale cupo in cui il segugio veniva soppresso dal proprio padrone.
Alla fine degli anni Ottanta, durante il Rinascimento Disney, tornò in auge l’atmosfera fiabesca. Ron Clemens, artista che in coppia con John Musker aveva diretto Basil l’investigatopo, pensò di proporre una versione meno tetra de La sirenetta. Walt stesso ci aveva già provato negli anni Quaranta, e la figura della sirena aveva trovato nuova vita con la commedia Splash – Una sirena a Manhattan. Ma Andersen era troppo deprimente per una storia Disney, e il risultato finale fu spogliato dalle asperità introdotte dal danese. Non soltanto per il famigerato finale in cui la giovane, rifiutata dal principe, diveniva schiuma del mare (che in realtà era pure un lieto fine, dato che Ariel diventava spirito etereo e aveva la possibilità di guadagnarsi l’immortalità), ma anche per aspetti che puntavano sulle tribolazioni fisiche di Ariel: la lingua le veniva tagliata e camminare le provocava dolori lancinanti a ogni passo.
C’è un caso isolato in cui la cupezza del materiale è solo nascosta, senza neanche troppo sforzo. Negli anni Novanta, la Disney si concesse diverse libertà nei contenuti delle pellicole musicali. Reduce da una serie di successi via via crescenti, lo studio lasciò che i propri artisti si distanziassero dalle fiabe ottocentesche. Il risultato più radicale di questo ‘tana libera tutti’ fu Il gobbo di Notre Dame. Se in lavori come Hercules la leggenda di base era epurata da stupri e assassini vari, e in Aladdin si portava avanti una stucchevole estetizzazione dell’amore, ne Il gobbo di Notre Dame rimaneva parzialmente intatto il senso di oscurità del romanzo di Victor Hugo Notre-Dame de Paris.
L’atipica oscurità del film si manifestava in vari modi: ogni tentativo di rendere esteticamente gradevole Quasimodo fu rigettato e, pur semplificando il testo, i realizzatori evitarono l’edulcorazione, cercando di restituire alcuni dei suoi temi (il discorso sull’architettura, l’amore come forza distruttrice) con piglio convinto. Anche gli elementi a misura di bambino furono interpretati in ottica adulta: i tre gargoyle, protagonisti delle scene più leggere del film, per alcuni sarebbero solo il frutto della mente (malata) di Quasimodo.
A differenziare i toni dell’opera dall’adattamento era soprattutto il finale. Nel libro, Quasimodo, cresciuto dall’arcidiacono Frollo, era incaricato da questi di rapire la sedicenne Esmeralda con l’intento di possederla. Quando il suo piano fallì, Frollo la accusò di aver pugnalato un soldato e la fece impiccare. Quasimodo, sentendosi responsabile per l’accaduto, uccise Frollo e poi si recò al cimitero, dove riposava il corpo di Esmeralda, e vi si accoccolò accanto. Non staccandosi mai dalla giovane, trovò la morte per inedia.
L’antagonista, Frollo, diveniva un funzionario statale per ordine dei dirigenti che volevano evitare qualsiasi associazione negativa con la Chiesa. Eppure, pur diventando un elemento del bene (nel film l’arcidiacono arginava le malefatte di Frollo), la religione era fondamentale nella costruzione del personaggio. La canzone affidatagli, Hellfire (tradotta in Fuoco d’inferno) era uno dei momenti più alti del film. In contrasto con la precedente Heaven’s Light (Luce del Paradiso), in cui Quasimodo raccontava la sua passione per Esmeralda, Hellfire svelava invece i tormenti sessuali di Frollo verso la gitana.
Il manicheismo Disney era evidente, non esistono altre possibilità al di là di bene e male. Ma nel rappresentare questo sistema binario di valori, lo studio ha sempre affidato al cattivo una canzone ritmata in cui si esplicano i suoi piani, un testo facile da cantare al karaoke, non una melodia sofferta e rotta in più punti. Come scrive The Artifice: «La loro gioia nel causare dolore ci infonde sicurezza perché sappiamo che alla fine perderanno. Questi cattivi sono sì minacciosi, ma mai abbastanza da renderli spaventosi».
Frollo combatteva sé stesso e questo ripiegamento rompeva il dualismo – perché mostrava l’esistenza di un cattivo che aveva a cuore non solo la sconfitta del protagonista. I realizzatori ripercorsero in parte il profilo tracciato da Hugo: Frollo era meno antagonista e più antieroe. Nel farlo, accentuarono la connessione tra il giudice e la Chiesa. Avevano capito l’importanza narrativa dell’associazione di Frollo alla religione e, pur non rendendola palese, la suggerivano nel testo, colmo di riferimenti alla dannazione, al volere di Dio, al peccato, e con la messa in scena. Fecero iniziare la canzone nella cattedrale e poi, spostandola nelle stanze private del giudice, mostrarono una croce (senza il Cristo appeso) e lo fecero accompagnare dai preti che intonavano la preghiera penitenziale del confiteor. Agli occhi del pubblico, la distinzione tra l’uomo di legge e quello di fede era meno chiara del dovuto.
Alla fine della canzone, la lussuria (simbolizzata dall’elemento feticista dal fazzoletto) diventava violenza. Frollo aveva mediato tra le istanze sessuali e religiose e aveva proiettato la vergogna e la colpa sulla comunità gitana, nei confronti della quale ormai poteva agire con violenza. Distruggendo loro avrebbe distrutto i peccati di cui si era macchiato. Come diceva nella canzone, avrebbe bruciato tutta Parigi se necessario. Così serio, un film Disney non lo era stato mai.