L’attesa per Lo Scultore di Scott McCloud – quello che quasi all’unanimità viene considerato uno dei maggiori teorici viventi del sistema fumetto grazie ad una fortunata serie di manuali a fumetti – sembra essersi definitivamente conclusa in questi giorni, in cui il nostro è stato in giro per la penisola presentando in affollati incontri il libro frutto di cinque anni di intenso lavoro.
Ho letto le quasi 500 pagine in bicromia in cui McCloud parla della storia di uno scultore – per l’appunto – fallito di nome David Smith e della sua rinascita, se così vogliamo chiamarla. Rivelare quelle che sono le intime pieghe della trama sarebbe un atto di sadismo gratuito, pertanto rimando direttamente alla sintesi contenuta nella bandella:
Grazie ad un patto con la Morte, il giovane scultore riceve un dono preziosissimo: poter scolpire ciò che vuole a mani nude. Gli restano soltanto duecento giorni di vita, e decidere cosa scolpire è più difficile del previsto; il fatto di essersi innamorato quando il suo tempo sta per cadere, poi, non fa che complicare le cose […] etc. etc.
Cosa c’è oltre questo ne Lo Scultore? Poco più che nulla. Perché il giudizio del sottoscritto dopo aver chiuso il libro – ma già durante la lettura consumatasi in preda alla noia già a pagina 178 – è irrimediabilmente negativo.
Non è tanto la banalità dello spunto narrativo a compromettere la qualità del volume, che gode di un’indubbia qualità nella costruzione formale della narrazione, mostrando da vicino quanto la teoria di McCloud sappia produrre un flusso quasi privo di sgranature, quanto l’affastellare una serie di probabilissimi cliché nell’arco di centinaia di pagine: mostrandoci alla fine la parabola umana di un – bisogna dirlo – mediocre e inutile artista.
Lo spunto faustiano che vede David Smith rinunciare ad una vita “qualsiasi” per cui «miliardi di persone ammazzerebbero» come suggerisce prudentemente e saggiamente la Morte – qui nei panni del vecchio zio Harry – delinea quasi una traiettoria volutamente lineare e priva di sorprese. Ed infatti, tutto si svolge pacatamente anche nei momenti più tragici e in quelli che dovrebbero destare maggiore sorpresa nel lettore. Peccato che non sia così: ogni frammento di questo ampio, ma piatto affresco narrativo, si colloca senza difficoltà e, di conseguenza, senza alcuno sforzo per il lettore.
McCloud è famoso per aver coniato una delle definizioni più famose riguardo il fumetto, inteso come un insieme di «immagini e altre figure giustapposte in una deliberata sequenza, con lo scopo di comunicare informazioni e/o produrre una reazione estetica nel lettore». Il fumettista usa la sua ‘arte invisibile’ con ottimi risultati, tanto da porre il lettore in una situazione di totale passività nella ricostruzione della vicenda.
Lo Scultore, grazie ad un stretto e potente meccanismo della narrazione, stritola l’immaginazione del lettore, la sua capacità di ricostruire una sua storia al di là delle immagini che vengono giustapposte sullo sfondo bianco, piegandola e fiaccandola attraverso una serie a catena di «reazioni estetiche». McCloud usa una chimica emotiva elementare cercando di creare un’empatia crescente tra il lettore e il protagonista, facendo leva su situazioni quotidiane e comuni, anzi forzando l’eccezionalità all’interno di un orizzonte tutto calibrato sull’attenzione alle piccole cose, ma talmente microscopiche da diventare evanescenti.
L’estetica, come ci insegna Alexander Gottlieb Baumgarten, prima che teoria del bello, è in primis teoria del sentimento, o meglio della facoltà di sentire: un correlato minore della logica razionale, ma pur sempre produttrice di conoscenza. Scott McCloud si impone anche e soprattutto come esperto della retorica del sentimento: dissemina continui aneddoti secondari – senza sfilacciare l’ordito – che creano un’aurea pregna di tranelli empatici.
Il colpo più basso è forse quello che cerca di dare spessore alla protagonista femminile, Meg, ma che cade anch’esso in uno dei tanti abusati cliché degli ultimi anni, soprattutto nel campo dei graphic novel. Ormai le debolezze femminili, la loro presunta incomprensibilità, la differenza sostanziale del femminile vengono fatte passare attraverso il patologico. Tutto ciò – a mio avviso – purtroppo appare come una forma di riduzionismo. Ma, senza entrare nel merito di una questione che ci porterebbe lontano da quello che è il nostro argomento, potremmo far fede anche a quanto lo stesso McCloud ha detto in un’intervista apparsa sulle nostre pagine. Nello specifico, mi riferisco al tentativo dell’autore di disintegrare la distanza tra autore e lettore. Processo attuabile, secondo McCloud, attraverso la soppressione della densità della storia:
«Molti autori scelgono uno stile denso, in modo che aprendo le pagine puoi distintamente vedere la mano dell’artista nelle linee, nelle forme e nei colori. Puoi vedere lo stile dell’artista, puoi percepire la voce dell’autore. Solo dopo vedi effettivamente i disegni. Questo è un nobile metodo di lavoro, non ho nulla contro di esso, anzi lo ritengo uno degli aspetti più affascinanti del realizzare fumetti. Ma c’è anche un altro modo di raccontare storie, quello cioé di rimuovere l’autore.»
L’utopia di McCloud rimane tale. Pur stornando qualsiasi elemento di disturbo da quello che è l’ordito principale della trama, l’intenzionalità del narratore non può essere soppressa: tra il ruolo attivo dell’autore che sceglie, distribuisce, ordina e finalizza e lo spettatore vi sarà sempre una distanza imprescindibile, ma soprattutto eliminare la densità, ha come effetto diretto quello di appiattire la storia su se stessa. Insieme alla densità si corre il rischio di perdere la profondità.
Pensiamo ad un’opera fondamentale nello sviluppo del graphic novel come Asterios Polyp. La storia raccontata da David Mazzucchelli è anch’essa banale: una storia di caduta e rinascita sullo sfondo di un destino ineluttabile. La differenza è nella presenza dirompente dell’autore, che piega le linee, le forme e i colori di volta in volta per enfatizzare e sottolineare determinati passaggi, fornendo un vademecum visivo: costringendo il lettore a soffermarsi, ad approfondire i rimandi, a chiedersi il perché di determinate scelte, al di là di quello che in primo luogo Mazzucchelli ci sta raccontando. E se anche la storia raccontata da Mazzucchelli appare per certi versi evanescente – al di là dell’enigmatico finale – quella imbastita da McCloud corre talmente veloce verso una prevedibile conclusione da affossare quei pochi spunti interessanti in una melassa di banalità.
La storia di David Smith – scultore poco dotato e quasi completamente estraneo al sistema dell’arte contemporaneo, ferocemente estromesso da una critica che forse ha visto bene per una volta tanto – si rivela un apologo buonista sull’importanza della quotidianità e sull’arte come esercizio sul sé, prima che sulla materia.
Il rapporto che David Smith intrattiene con la realtà è oggettivante: persino la relazione con Meg passa attraverso una forma di possesso e di strumentalizzazione. In questo, McCloud si pone esattamente a metà strada tra un l’ipertrofia narrativa di un Craig Thompson, copiandone anche il tono ruffiano e accondiscendente verso il lettore, e la lezione di Mazzucchelli (a cui ruba anche qualche trovata grafica). La tipica drammaticità “adolescenziale” dell’autore di Blankets viene calato in un contesto affine a quello che Mazzucchelli seziona in Asterios Polyp, abusando di una serie di archetipi triti e ritriti (il critico acido e supponente, l’ambiente artistico popolato da creature vuote e fameliche, l’artista gay opportunista e estraneo al valore dell’arte per l’arte, l’attrice con turbe mentali, la mecenate cinquantenne svampita etc. etc.).
Se Mazzucchelli faceva passare il ritratto di un ambiente volutamente stereotipato attraverso precisi riferimenti iconici – ad esempio le illustrazioni di Saul Steinberg – McCloud sceglie uno stile dimesso e volutamente userfriendly, dimenticando di caratterizzare e di precisare in maniera accurata il contesto artistico in cui si muove David Smith. Mentre Mazzucchelli aveva attinto al mondo dell’architettura in maniera diretta e precisa, con riferimenti per nulla scontati e puntuali, la scultura è in McCloud solo una metafora e tale rimane, non contribuendo ad una caratterizzazione del contesto, ma solo a delineare il protagonista e i suoi dilemmi (si veda ad esempio il riferimento a Giacometti).
E’ proprio David Smith il punto debole dell’opera. Una figura che non ispira simpatia, ma compassione: non tanto per la sfortuna che sembra perseguitarlo – che come scopriremo non è tale, ma solo “giustizia” – ma per l’ottusa stupidità con cui si approccia al mondo e alla vita. McCloud riversa in lui il peggio di quello che (forse) è stato in passato, costringendolo a crescere e a capire l’importanza della vita prima dell’arte. Peccato che questo ribaltamento debba passare attraverso una situazione così estrema da suscitare quasi ilarità. Alla fine, McCloud ci sbatte in faccia, attraverso la (fiacca) parabola umana di David Smith, la massima secondo cui l’immortalità si guadagna non attraverso precisi meriti artistici, ma attraverso la generazione biologica e la cura degli altri: vivendo la propria vita come la vivono milioni di persone, cioè conseguendo piccoli traguardi.
500 pagine per un così flebile risultato appaiono uno sforzo inutile, tanto più che provengono dalle matite di quello che è ritenuto uno dei massimi teorici del sistema fumetto. Casi di teorici che passano dall’altra parte della barricata (nonostante McCloud abbia già prodotto fumetti, questo è il suo primo “graphic novel”) sono abbastanza famosi. Ad esempio, Umberto Eco ha esercitato la sospensione dell’arte per almeno un buon trentennio, frequentando la narrazione sotto mentite spoglie (dall’oralità ai pastiche sino ad una forma di narrazione filosofica). Il passaggio è avvenuto con un romanzo come Il nome della rosa nato intorno ad una semplice immagine su cui poi si è stratificato un mondo. Il romanzo grafico di McCloud forse risponde allo stesso motivo “esigenziale”: cioè costruire il mondo intorno ad un’intuizione e ad un’immagine. Il problema è che le immagini che costruiscono il mondo di McCloud sono bidimensionali. Se Lo Scultore fosse stato una romanzo tout court, consegnato al ritmo della scrittura, sarebbe stato un feuilleton, la cui lettura molti di noi forse avrebbero agevolmente evitato.
p.s. Uno sforzo in più per la copertina avrebbe potuto giovare.
Lo Scultore
di Scott McCloud
Bao Publishing, 2015
496 pagine, 21,00 €