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Perché i cinecomic non stanno aiutando i fumetti

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Nonostante i continui record d’incasso dei cinecomics, l’accresciuta popolarità dei supereroi e lo sdoganamento del nerd – con esiti spesso catastrofici – i fumetti sono rimasti quasi del tutto intaccati dalla mania del pubblico nei confronti di Iron Man e soci.

Un po’ di dati: dal 2002, l’anno di uscita di Spider-Man, al 2014 non c’è stato anno in cui un film tratto dai fumetti non fosse tra i primi dieci film per incasso (domestico o internazionale). Nel maggio 2002, negli Stati Uniti, solo cinque fumetti superavano lo scoglio delle 100.000 copie vendute. Dieci anni dopo, mentre The Avengers si apprestava a diventare il terzo incasso più alto di sempre (se non si tiene di conto l’inflazione), i fumetti che superavano le 100.000 unità erano sempre e solo cinque.

Publicity photo from the film "The Avengers"

I miliardi di dollari entrati nelle casse degli studi non sono stati accompagnati da risultati altrettanto lusinghieri nell’editoria, che per segnare qualche copia in più sul libro mastro è costretta a stunt e colpi a effetto (cambio di etnia o sesso, morte, riesumazione). Lungi dal «genocidio culturale» di cui parlava Alejandro González Iñárritu, i cinecomic, i film tratti dai fumetti, hanno influito e continuano a influire sull’industria dei fumetti più di quanto i comic book abbiano fatto con il cinema.

Ridotto ai minimi termini, il concetto è che il fumetto non è riuscito a convertire gli spettatori appassionati di Avengers o Il Cavaliere Oscuro in lettori. Vero è che non è detto che un pubblico attratto da un mezzo poi si riversi per forza nell’altro. Quanti hanno letto Il padrino di Mario Puzo dopo aver visto il film? D’accordo, ho sbagliato esempio perché il libro di Puzo è bruttarello, però il concetto è lo stesso.

Ci sono generi duri, che creano cioè reazioni viscerali e/o di forte attaccamento nei fruitori, come la fantascienza o il fantasy, che hanno un pubblico segmentato, composto sia da fan hardcore sia da consumatori casuali. Non credo succeda con tutto l’intrattenimento. Non credo succeda con Il padrino. Ma so che c’è uno zoccolo duro, quindi ristretto, dei fan di Terminator che guardano la serie tv, che leggono i fumetti o i romanzi, che giocano al videogioco. E quello, e solo quello (a meno che il prodotto collaterale non sia di qualità talmente alta da trascendere il target e riconquistare anche quel pubblico casuale), sarà disposto a seguire i propri beniamini su una qualsiasi piattaforma. Difficile che avvenga con le masse.

Il fumetto è un mezzo tanto visivo quanto letterale e questo dovrebbe rendere più facile la transumanza di pubblico dalla sala alla fumetteria. Ma nei fumetti c’è la continuity, c’è una complessità da far venire la labirintite, non ci sono gli stessi eroi visti sullo schermo, non c’è Robert Downey Jr., c’è uno con un pizzetto che se ne va in giro a fottere aliene sexy. Anche se le case editrici stanno facendo il possibile per livellare i piani, ci sarà sempre una differenza. Perché sono mezzi diversi e la narrazione compressa di un film non può reggere contro le migliaia di pagine dedicate a un singolo personaggio.

Dal 2011 ‘semplificare’ è l’ordine che si sono dati i colossi USA: New 52, Marvel NOW!, Convergence, Secret Wars. Come diceva Kevin Smith, «ogni fumetto è il primo fumetto di qualcuno» ed è fisiologico che in una produzione seriale gli eventi si accumulino, le storie si attorciglino e i casini si incasinino. Quello che è cambiato è il punto di non ritorno oltre cui anche un qualsiasi lettore regolare fatica a stare dietro alla trama. Ecco, quel punto di non ritorno si è abbassato come mai prima.

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E quindi il vero discriminante è la continuity. Almeno per i supereroi, perché volumi singoli come V for Vendetta o Watchmen hanno riscontrato un incremento delle vendite considerevole dopo l’uscita delle rispettive pellicole, e non a caso la politica Marvel è stata quella di intitolare i film come cicli di storie famose per poter fornire un riscontro facile (quando annunciarono The Winter Soldier il commento di Ed Brubaker fu, parafrasando, ‘finché io ricevo un assegno va bene tutto’). I film, anche perché devono raccontare storie semplici per attrarre un pubblico vasto, ne hanno poca. I fumetti tanta. Su Den of Geek Mike Cecchini ha scritto: «Lo scenario migliore è quello in cui i fan smetteranno di volere a tutti i costi una continuity di ferro, specie quando coinvolge delle proprietà intellettuali vecchie mezzo secolo.» Le chiacchiere, secondo il sito, stanno a zero: a nessuno importa più di Bova, dell’Alto Evoluzionario, di chi è il padre di Pietro e Wanda. Basta vedere un tizio in calzamaglia azzurra sfrecciare sullo schermo. E basta che le storie raccontate siano belle. Ma altri avrebbero da ridire: in fondo, il bello del genere supereroistico è proprio il suo gusto da soap opera.

«Forse è il tempo di lasciar perdere tutto», scrive Peter Bebergal. «Io e mio figlio guardiamo insieme qualsiasi cinecomic, ma per quanto posizioni strategicamente un fumetto in casa nostra, lui non lo legge. Li vede come qualcosa di impenetrabile, fatti per la nostalgia degli adulti, non ci si identifica.»

Una riproposizione pratica di quello che scriveva, in linea teorica, Michael Chabon nel suo articolo Roba per ragazzini (una trascrizione del discorso tenuto agli Eisner Awards del 2004), adducendo come crisi del fumetto supereroistico l’allontanamento dal loro pubblico di riferimento originario, i ragazzi. Gli editori fanno sì fumetti per ragazzi, ma per ragazzi nati prima del 1982.

Su Comic Vine hanno fornito una spiegazione simile a quella che dava Jeph Loeb nel libro Comics Above Ground: How Sequential Art Affects Mainstream Media: «Prendete X-Men: First Class. Per tutti gli spettatori che hanno visto il film e vogliono leggere i fumetti, non c’è davvero un’opera a cui rimandarli [anche se esiste una serie con quel titolo, ma dal contenuto differente, Ndr]. Non c’è un fumetto degli X-Men ambientato negli anni Sessanta e non c’è una serie che veda per protagonisti Azazel o Darwin.» Certo, lo spettatore medio sarà rimasto colpito dal ruolo di James McAvoy, ma rimarrà confuso quando aprirà un fumetto e vedrà un tizio pelato in carrozzina (o non lo vedrà affatto, a seconda del fumetto preso). Questo non significa che i fumetti debbano diventare una prosecuzione delle avventure cinematografiche – anche perché, dopo sei mesi, il problema si ripresenterebbe da capo (non che la Marvel non ci abbia provato, vedi la testata Avengers Assembled) – ma è indubbio che l’approcciabilità dei film faccia più gola dell’intrecciosità dei fumetti.

Il sito si domanda anche perché, nelle edizioni home video dei film, non siano mai inclusi fumetti o messaggi pubblicitari relativi a essi. In realtà, nei primi anni Duemila, sinergie simili erano comuni (tre esempi a caso: il DVD di Spider-Man aveva una sezione intera dedicata alla storia dei fumetti, con gallerie di personaggi e copertine varie; quello dell’Hulk di Ang Lee mostrava una scena del film disegnata da tre artisti Marvel; e Daredevil ripercorreva la storia del personaggio con interviste a quasi tutti gli autori che ci avevano lavorato), ma doveva essere difficile condensare l’ingombrante retroterra dei supereroi in una clip di cinque minuti, e le major hanno abbandonato la prassi.

Comics Alliance, tempo addietro, ha organizzato una tavola rotonda con alcuni professionisti del settore per sviscerare il problema da un’ottica interna. Fred Van Lente, sceneggiatore di The Incredible Hercules e Cowboys vs. Aliens, spiega il perché del successo di vendite di opere come 300 post-uscita cinematografica. Sì al volume singolo, al paperback, al fumetto come esperienza letteraria (nel senso di unica e indivisibile), no alla serialità: «Un fattore importante è la saturazione del genere. Ogni anno escono al cinema tre o quattro film sui supereroi. Di fumetti coi supereroi ne escono un centinaio ogni mese. Le persone non sono così appassionate dal genere come chi legge fumetti. Vanno volentieri al cinema ma non hanno la pazienza di stare dietro a una serie.»

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David Steinberger, co-fondatore di ComiXology, si domanda se in realtà la crescita sia avvenuta a nostra insaputa, cioè nell’acquisto nei fumetti digitali, settore dove non esistono dati di vendita ufficiali. Il prezzo, in effetti, è uno dei motivi che potrebbe frenare l’acquisto: «È come comprare una canzone su iTunes, solo che quando compri un numero di un fumetto stai comprando solo la prima strofa di una canzone e devi tornare il mese dopo per poter ascoltare il ritornello. Non ha senso.»

Chi poi invoca un ritorno ai numeri degli anni Novanta, quando vendere meno di 100.000 copie significava condannare la testata alla chiusura (oggi se un fumetto facesse quella cifra non lo chiuderebbero nemmeno se fosse il Necronomicon), forse non comprende che, in realtà, quel mercato non è mai esisto: «Era tutta speculazione. Gli investitori vedevano ‘numero 1’ o ‘copertina variant’ e ne compravano a pacchi sperando di rivenderli a peso d’oro. Quindi forse tutti quei ‘lettori’ non sono mai esistiti.»

Che fonte e adattamento restino due cose diverse e che non sempre chi guarda il film poi legge il libro sembrano due fenomeni ancora aperti e, certo, a scriverci qualche cartella sono bravi tutti. Raymond Chandler (Addio mia amata, Il lungo addio) riassunse le questioni in una semplice risposta a un giornalista che gli aveva chiesto: «Cosa pensi che abbia fatto Hollywood ai tuoi libri?». «Hollywood», rispose Chandler, «non ha fatto niente coi miei libri. I miei libri sono lì sullo scaffale».

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