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Un’intervista inedita a Bill Watterson

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Uscito lo scorso marzo (e già prontamente consigliato) Exploring Calvin and Hobbes: An Exhibition Catalogue è il catalogo della mostra dedicata a Bill Watterson dal Billy Ireland Cartoon Library & Museum, dell’Ohio, e svoltasi da marzo ad agosto 2014.

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Pubblicato dalla Andrews McMeel Publishing in collaborazione con il museo, il volume contiene le scansioni degli originali esposti nella mostra, che comprendono strisce di Calvin and Hobbes, del proto-Calvin and Hobbes, le vignette politiche e una selezione degli autori preferiti di Watterson (con il suo commento a opere come Peanuts, Flash Gordon, Doonesbury, Bloom Country o alle vignette di Ralph Steadman, Jim Borgman e Pat Oliphant); e poi le copertine a colori delle raccolte, alcuni dipinti e una carrellata sugli strumenti del mestiere di Watterson («cancellina, tanta cancellina»). Ma il piatto forte che apre il volume è una lunga conversazione tra Watterson e la curatrice della mostra Jenny E. Robb che tocca temi già affrontati dal fumettista – il merchandising, l’infanzia, le origini della striscia – ma indaga anche su aspetti inediti della vita umana e professionale dell’artista.

Di seguito alcuni dei passaggi più interessanti, suddivisi per argomento.

I fumetti (il primo, il preferito, il ripudiato):

«I Peanuts sono stati i primi. Non avevo idea di quanto fosse strana e bislacca quella striscia. Da bambino ero attratto dal disegno. L’espressività della tristezza di Charlie Brown fece colpo su di me, certo, ma più che altro fui attratto da Snoopy e dalle sue fantasticherie. Il Barone Rosso era eseguito in modo perfetto, dalle premesse alla battuta finale. A tutt’oggi la trovo un’opera ammirevole.»

«Ho letto alcuni numeri di Batman quando trasmisero la serie tv negli anni Sessanta. Era roba pacchiana ma divertente, un diversivo che però non mi ha mai appassionato davvero. Più tardi, da adolescente, mi colpì molto Mad. Mi piacevano Don Martin, Sergio Aragonés, Mort Drucker. Oggi non provo più nulla per quella rivista. Voglio dire, quando avevo undici anni era grandiosa. Ma se fosse stata una rivista migliore, con più profondità, forse ci avrei trovato qualcosa di interessante anche a quindici o venti anni. Ma quello è umorismo da undicenni, non si sono mai sforzati di ampliare il pubblico. Non ridicolizzavano le cose perché volevano criticarle, ma perché erano popolari e volevano cavalcarne l’onda.»

«Non ero propriamente un appassionato di fumetti, ma mi ricordo la versione di Batman a opera di Frank Miller. Fu il primo fumetto che lessi dopo dieci anni. Quel tipo di violenza oscura non è di mio gusto, ma fu una rivelazione sulla reinvenzione del personaggio. E mi ricordo anche di aver prestato attenzione ai lavori di Bill Sienkiewicz che uscivano in quel periodo. Dipingeva, fotocopiava e incollava i disegni molto prima di Photoshop ed erano tutte tecniche che non avrei mai pensato di applicare ai miei fumetti. Di fondo, il loro stile era ancorato ai supereroi, di cui non m’importava, ma il loro approccio ai materiali era pieno di inventiva. Quindi non direi che i fumetti avessero una qualche influenza su di me, ma mi accorsi che si stavano aprendo a sofisticazioni letterarie e artistiche. Mi fece chiedere ‘Perché questo non succede anche nelle strisce?’.»

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Perché Hobbes è una tigre:

«Non ci pensai molto. Volevo solo qualcosa di meno convenzionale di un orso. Per Calvin sarebbe dovuto essere qualsiasi cosa di inusuale. Ci pensai sì e no cinque minuti. Quando mi venne in mente la tigre, pensai fosse quella giusta. Ho un rapporto particolare con gatti e felini, quindi per me era una scelta azzeccata. Forse Hobbes sarebbe potuto essere un altro animale, ma piombò lì come un grosso gatto e questo rafforzò il mio rapporto con lui. Hobbes è un mio alter ego così come lo è Calvin.»

Sulla paternità (propria e altrui):

«Il padre di Calvin non è molto diverso dal mio. Mio padre aveva sempre molto entusiasmo per i suoi interessi. Se si appassionava a qualcosa leggeva ogni libro sull’argomento e ne diventava un esperto. Nella striscia ho parodiato molte passioni di mio padre. Non c’era disastro grave abbastanza da scoraggiarlo a riprovarci. Aveva una bici da corsa europea quando nessuno la usava, correva le maratone. Ma io non ero molto consapevole del fatto che mio padre non fosse uguale agli altri padri. Ma in molte situazioni il padre ero io che reagivo da adulto agli eventi che mi si ponevano davanti.»

«Dopo che sono diventato padre le cose sono cambiate. Anche rispetto ai figli. Oggi qualcuno chiamerebbe la polizia se vedesse un bambino chiuso in macchina mentre i genitori sono fuori a fare spese, ma i miei lo facevano e l’ho fatto io con Calvin molte volte. Oggi cose del genere non potrei più disegnarle.»

Sull’ispirazione dal vero:

«Per Stupidopoli ho guardato a un libro che aveva molto foto fatte da aerei a bassa quota. È stato utile perché mi ha ricordato come si costruiscono i paesaggi. Pensi di sapere come sono fatte le cose finché non ti siedi a disegnarle. E allora capisci quanto tu sia un pessimo osservatore. È strano… se avessi avuto Google Immagini all’epoca non so se avrei mai finito una sola striscia. Ci sono così tante informazioni che ti senti quasi obbligato a guardarle tutte. Vuoi disegnare uno squalo? Be’, che tipo di squalo? Lo vuoi di profilo, frontale, dal naso? Negli anni Ottanta inventavo e basta. Una pinna, tanti denti, e avevo uno squalo. E forse è bene così, perché c’è più personalità, le cose sono più vicine a come le penso e disegno io. A parità di qualità, il tratto fumettistico è preferibile a quello realistico.»

«Oltre al verde della mia città in cui ho immerso Calvin e Hobbes, ho guardato alla Monument Valley, perché volevo vedere l’area che ha ispirato George Herriman per Krazy Kat; e Spaceman Stiff era in pratica una scusa per disegnare lo Utah. Io e mio fratello ci andavamo perché sembrava di stare sulla luna e aveva un aspetto scheletrico che ti permetteva di cogliere la vastità del tutto. Ti ricorda che siamo solo esserini su un pianeta enorme e che la natura ti ucciderà se non farai lo stupido. Lo trovo un pensiero confortante.»

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Sulla costruzione delle storie:

«Mi piaceva variare tra singole gag e archi narrativi. Più varietà hai, più rendi le cose imprevedibili. Non penso che all’epoca mi piacessero come ora, però. Dal lato pratico era d’aiuto con le scadenze perché una volta che accumuli momentum una cosa ne suggerisce un’altra, una possibilità dà vita ad altri spunti e la scrittura si fa veloce. Ma logisticamente era un incubo, dovevi mettere in moto certi meccanismi, ricordarne altri ai lettori e spesso mi era difficile rendere le cose naturali e spontanee. Preferivo le storie ‘chissà-che-succede-adesso’, quasi senza trama, ma quel tipo di idee era difficile da trovare. Da un certo punto di vista, quelle storie hanno accresciuto la personalità dei personaggi. Se metti qualcuno in una gag compiuta non puoi dire di conoscere quella persona. Ma se la metti di fronte a un problema e guardi come lo risolve, quali decisioni prende, capisci chi è e come ragiona. È il classico show, don’t tell. Inoltre sviluppa i rapporti tra i personaggi e col lettore, che è più emotivamente coinvolto.»

Sulla profondità filosofica di Calvin and Hobbes:

«Una delle cose più belle delle strisce è che le aspettative sono nulle. Disegni qualcosa di più sofisticato di una torta in faccia e sei subito etichettato come un filosofo. Mi piace che questo mezzo non si prenda troppo sul serio. Se mi mettessi a scrivere un tomo di duecento pagine dal titolo I grandi pensieri sulla vita, nessuno lo leggerebbe. Ma se inserisci quei pensieri in una battuta a fumetti parlerai a milioni di persone.»

La fine della striscia:

«Le strisce degli ultimi anni, dal 1992 al 1995, specie le domenicali, sono i lavori che mi rendono più orgoglioso. Rappresentano ciò che più si avvicina all’idea che ho io di una striscia a fumetti.»

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Sul futuro della sua carriera:

«Non so se vorrò mai esporre i miei quadri. Mai dire mai, ma io dipingo senza alcuna ambizione. È più un processo di apprendimento. Non mi faccio alcuna illusione sulle mie potenzialità come pittore, so che non aggiungo niente al discorso artistico. Mi ci diverto perché è interessante e basta.»

«Mi manca poter disegnare Calvin and Hobbes. Ma per ora mi concentro sulla mia vita famigliare. Se trovassi un’idea che mi entusiasmasse la realizzerei, ma dovrebbe essere davvero diversa e inaspettata. E di certo non mi sono impegnato per trovarla in questi anni. Vedremo.»

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