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Jean-Christophe Menu e l’appiattimento della Bédé

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Sulla copertina dell’ultimo numero della rivista francese specializzata Kaboom campeggia un’illustrazione di Jirô Taniguchi e al suo interno è dedicato ampio spazio alla pubblicazione dell’edizione francofona di Here di McGuire. Il contributo più interessante, però, è un lungo articolo al vetriolo di Jean-Christophe Menu intitolato Dix ans de platitude (10 anni di piattezza), una requisitoria critica sull’omologazione della bande dessinée indipendente.

Menu è tra i fondatori dell’editore indipendente l’Association, che ha pubblicato graphic novel ormai imprescindibili quali Persepolis di Satrapi e Il grande Male di David B. Allontanatosi dalla sua stessa creatura per divergenze interne con gli altri soci nel 2011, ha in seguito fondando la casa editrice L’Apocalypse (al riguardo si legga questo interessante articolo). Attualmente Menu disegna per la storica rivista Fluide Glacial.

Jean-Christophe Menu
Jean-Christophe Menu

Nell’articolo – i cui punti essenziali sono stati ripresi dal magazine online Le Nouvel Observatour – Menu traccia, con un atteggiamento quasi nostalgico, il clima esaltante degli anni Novanta. Anni culminati in una sorta di normalizzazione e disinnesco del linguaggio critico e antagonista nato dalla sperimentazione condotta dai piccoli editori indipendenti.

Secondo Menu, il periodo compreso tra il 1990 e il 2001 è stato un periodo decisamente particolare, in cui quelli che venivano definiti editori indipendenti erano in grado di proporre una reale alternativa all’interno del microcosmo della bédé, nonostante i loro tentativi fossero destituiti di credibilità perché estranei alla classica definizione di bande dessinée, coniata da pseudo-specialisti.

Quegli anni, spiega Menu, furono:

«al contempo, difficili ed esaltanti: sembrava che non esistesse né un vero e proprio pubblico né un altrettanto circuito di diffusione, ciononostante era comunque un territorio totalmente inesplorato, e che non rientrava negli interessi dell’industria della bédé. I libri degli “indipendenti” furono accolti un po’ per volta dalle librerie specializzate più “aperte” […] perché da anni ci assillavano dicendo che il fumetto doveva uscire dal ghetto del circuito specializzato.

Sono i piccoli editori indipendenti che hanno dato al fumetto la possibilità di fare breccia nel circuito delle librerie generaliste con libri differenti, con argomenti e formati alternativi e con tentativi di sperimentazioni molto più prossime alla letteratura…Per riassumere il tutto in maniera grossolana: con l’autobiografia, il realismo, l’assenza del concetto di “eroe”, il numero esiguo di pagine, spesso stampate in bianco e nero, ha preso corpo il fenomeno poi conosciuto come “romanzo grafico”».

Pertanto, le coraggiose iniziative editoriali dei piccoli editori hanno portato il fumetto ad uscire – nonostante il riconoscimento già concesso, ma comunque limitato alla sfera di genere e del circuito specializzato – da una nicchia di mercato per approdare nel circuito generalista, mettendo in crisi quel formato tipico e riconoscibilissimo che aveva caratterizzato per decenni la striscia disegnata franco-belga. In questa coraggiosa sperimentazione di tematiche e formati, Menu individua il nucleo storico del graphic novel, fenomeno “letterario” ampiamente analizzato e oggetto di discussioni sempre più stringenti e nel contempo spesso inconcludenti.

Ora, però, quest’epoca di sperimentazione sembra essersi spenta e giunta a conformarsi ad uno standard di pericolosa anonimia. Riflettendo sul ruolo de L’Association, Menu non nega che la loro avventura editoriale abbia rappresentato «la punta di diamante», ma dopo il riconoscimento del graphic novel come standard editoriale si è esaurita.

«Dopo la chiusura della rivista L’Éprouvette la riflessione sul fumetto è svanita e la polemica è stata destituita di significato. La restaurazione ha avuto luogo e l’ideologia del fumetto è quasi morta, cedendo il posto ad una realtà in cui il nuovo standard è molto più difficile da riconoscere, poiché si è diffuso dappertutto. Il “mercato” e i suoi imperativi, che siano d’ordine commerciale o di semplice prestigio, si sono spostati, e ormai formano una matassa di implicazioni di tale complessità che è quasi impossibile venirne a capo».

Il cofanetto raccogliotire de 'L’Éprouvette', rivista di teoria e critica pubblicata da L'association fra il 2006 e 2007
Il cofanetto raccogliotire de ‘L’Éprouvette’, rivista di teoria e critica pubblicata da L’Association fra il 2006 e 2007

La presenza del “mercato” è, agli occhi del fumettista, una criticità che ha messo in scacco la vivacità stessa della nuova ideologia del fumetto, fagocitandone la creatività e utilizzandola per fini diversi rispetto a quelli che l’hanno generata. Menu si chiede:

«Quale discorso si può ancora sviluppare? Quali rivendicazioni si possono avanzare dal momento che la più importante è stata concessa; cioè far passare l’idea che il fumetto poteva essere qualcosa di diverso dai Puffi? E che meritava di far parte integrante della cultura? E che forse era il linguaggio più interessante e vitale del secolo? Ma, non appena questi traguardi sono stati raggiunti, il fumetto ha ceduto il campo agli affaristi: è quello che si merita il movimento degli editori indipendenti, cioè di essere lo zimbello della compagnia, come spesso avviene nella Storia, in quei momenti in cui la novità mostra un via che l’industria può capitalizzare.».

L’arrivo dei grandi editori, molto spesso parte di un unico gruppo editoriale che monopolizza il mercato francese (come abbiamo spiegato in questo articolo), ha condotto l’anomalia del “roman graphique” a cristallizzarsi in un secondo standard, che ha replicato e sostituito in parte il vecchio standard bédé.

«Da un lato i precursori sono stati messi da parte, addirittura rischiano di sparire, dall’altro la produzione che ne ha preso il posto è definitivamente inquinata, perché…il mercato centra sempre il proprio bersaglio…ciò che è stato ritenuto – non a lungo – come una novità, che incrinava lo standard classico, cioè il cartonato da 48 pagine a colori, osando porre il fumetto in qualcosa che aveva la parvenza di un libro, è oramai diventato un secondo standard: il pretenzioso Graphic Novel».

Si intuisce, quindi, che il termine graphic novel sia usato in maniera quasi dispregiativa da Menu, perché il suo successo ha coinciso in toto con la sconfitta del movimento degli editori indipendenti: tutti gli sforzi spesi per rendere il fumetto un luogo di sperimentazione, un osservatorio privilegiato del mondo (si pensi anche all’esperienza di éditions Ego Comme X  e di un’autobiografia potente come quella di Fabrice Neaud), ha generato infine una sterile categoria merceologica.

Nel saggio Plates-Bandes (edito da L’Association nel 2005), Jean-Christophe Menu analizzava i primi esempi di restaurazione e volgarizzazione del graphic novel, muovendo strali critici anche contro l’operato di Igort. Infatti, l’antologia Black, curata dal fumettista italiano sia per il mercato italiano che francese, viene definita come un esempio di “soft-avanguardia”. Igort, nota Menu, è anche editor di Casterman, la cui collana Ecritures è uno dei primi esempi di nuovo falso generalizzato: un lavoro di banalizzazione delle nuove tendenze espresse dal collettivo editoriale de L’Association.

'Black' Vol. 9 (Coconino Press)
‘Black’ Vol. 9 (Coconino Press)

Il problema per Menu non è soltanto la mimesi, ma anche e soprattutto la confusione generata dai grandi editori in questo processo di restaurazione e normalizzazione, poiché:

«Actes Sud ha acquistato Cambourakis, dopo aver comprato L’An 2 qualche anno fa, inoltre c’è stato un libro coeditato dallo stesso editore e da Fremok (Plus si entente di Goblet e Pfeiffer), inoltre abbiamo visto la nascita del marchio Olivius, grazie al sodalizio di Cornelius e éditions de L’Olivier… gli indipendenti storici e i nuovi soggetti editoriali del settore si associano, come se non vi fosse già abbastanza confusione: è come se la vecchia dicotomia tra piccoli e grandi editori non avesse più senso».

Pertanto, l’assunzione del graphic novel come nuovo standard – la cui lettura è fortemente incentivata dai media – ha posto dei limiti alle nuove possibilità espressive, portando nell’ultimo decennio a un appiattimento della proposta e mettendo tra parentesi il rischio implicito nelle prime forme di grafismo indipendente degli anni novanta. Anche gli autori coinvolti nella prima rivoluzione ora prendono parte volentieri alla restaurazione, accontentando un gusto consolidato e difficilmente incline a concedere spazio a fenomeni sperimentali.

Recentemente, il giornalista del The Guardian Jonathan Jones ha parlato della banalizzazione del linguaggio fumettistico (qui trovate un’attenta analisi di Andrea Queirolo sull’articolo). Jones sbaglia, però, a scagliarsi criticamente contro autori ormai storicamente riconosciuti come precursori o innovatori (nello specifico Ware e Burns), ma comunque tocca un nervo scoperto, che Jean-Christophe Menu mette a nudo, mostrando come l’uniformazione del nuovo linguaggio grafico passi attraverso la sedimentazione in determinati formati “adulti” di temi altrettanto “adulti” che coprono esigenze e gusti ormai indotti.

Le critiche mosse da Menu al mercato francese potrebbero sembrare i vaneggiamenti di un vecchio trombone ormai fuori dai giochi, ma in realtà, da un certo punto di vista, il graphic novel è ormai più una categoria merceologica che uno spazio creativo. Certo – e lo evidenzia lo stesso autore – lo standard qualitativo resta comunque alto, ma nel contempo è atrofizzato su dei canoni tematici e grafici ben precisi.

Il discorso di Menu risponde anche a certe tendenze evidenziate dal filosofo tedesco Georg Simmel nel breve saggio Die Mode del 1911, apparso nel poderoso volume Philosophische Kultur:

 «[…] la moda con il suo gioco fra la tendenza ad una diffusione generale e la distruzione del proprio senso, che seguirebbe tale diffusione, ha il fascino caratteristico di un confine, di un inizio e di una fine contemporanei, il fascino della novità e contemporaneamente quello della caducità… la moda è contemporaneamente essere e non essere, si trova sempre sullo spartiacque tra passato e futuro e ci dà, finché e fiorente, un senso del presente così forte da superare in questo senso ogni altro fenomeno».

In sintesi, il graphic novel come “moda”, cioè come forma diffusa e standardizzata di fare fumetto o come via privilegiata e superiore di declinare il medium, è ora come ora «imitazione di un modello dato e appaga il bisogno di un appoggio sociale, conduce il singolo sulla via che tutti percorrono… Nondimeno appaga il bisogno di diversità, la tendenza alla differenziazione, al cambiamento, al distinguersi», ma la ragione della sua diffusione è che «le mode sono sempre di classe» e come tali nel momento in cui abbandonano la classe più “elevata” si sfaldano in un’eguaglianza e indifferenza che le standardizza decretandone la decadenza.

Siamo pertanto in prossimità della banalizzazione del romanzo grafico e della sua prematura morte? Visto la foga con cui si parla della maggior parte dei fumetti editi nel formato libro cartonato o meno che sia, forse Menu non ha tutti i torti.

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