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Il minimalismo a fumetti e l’autoproduzione, secondo Max de Radiguès [intervista]

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Dopo aver conversato con Charles Forsman, nella stessa occasione – il festival BilBOlBul 2014 – a pochi minuti e a un sedia di distanza, è stato il momento di condividere riflessioni sul fumetto con un artista a lui assai affine, Max de Radiguès.

I due hanno molto in comune, non solo perché le loro strade si sono incrociate presto, ma anche per come condividano un approccio assai simile al mondo del fumetto, ai soggetti dei loro racconti e al modo in cui li affrontano.

Max de Radiguès è belga, ma sin da un primo sguardo ai suoi fumetti è chiaro come la sua attitudine e il suo approccio alla narrazione siano di respiro più internazionale. Egli, infatti, trova ispirazione soprattutto nel fumetto indipendente americano, in particolar modo nella corrente intimista e minimalista anni Novanta.

Anche de Radiguès, oltre che autore prolifico, è editore, col suo marchio L’employé du Moi. Il debutto in Italia lo ha fatto con Hobo Mom (qui una nostra ampia anteprima), realizzato a quattro mani con Charles Forsman. Nel breve racconto, i due hanno sfruttato al meglio le loro consolidate abilità nel costruire storie delicate, intimiste, attente al dettaglio emotivamente più sottile.

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Dalla tua produzione è evidente una maggior influenza del fumetto americano indipendente rispetto al fumetto franco-belga, è così?

Be’, ho studiato un anno negli Stati Uniti, al Center of Cartoon Studies, dove ho conosciuto Charles Forsman, e diversi altri colleghi. Ho sempre letto fumetti americani, ma stare effettivamente lì mi ha influenzato di più. Io sono di Bruxelles; sono cresciuto leggendo anche fumetti francesi, però le mie influenze principali hanno sicuramente a che fare col fumetto underground e, per quanto riguarda il fumetto europeo, con quello dell’Association.

Il tuo stile, effettivamente, è di respiro molto internazionale.

Questo forse anche perché con la mia casa editrice – l’Employé du moi – sono attivo nella pubblicazione di artisti non soltanto francesi. In quanto editore, cerco di ti tenermi concentrato e interessato nei confronti di stili e produzioni diverse.

Il nostro proposito con l’Employé du moi è quello di concentrarci più sulla narrazione che sul disegno. Non ci interessa il “bel disegno”, ma pubblicare buone storie. Anche questo credo che sia un aspetto che ci differenzia dalla tendenza prevalente nel fumetto franco-belga, avvicinandoci al fumetto indipendente americano, che spesso racconta ottime storie con un disegno semplice e diretto.

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Come si intende dal nome, il tuo marchio ha propositi molto indipendenti, distanziandosi dal mercato regolare.

Sì, poiché tutti noi abbiamo un background indipendente e ci piace mantenere la produzione di fumetti su un livello prettamente do it yourself. Questa casa editrice è un modo per arrivare nelle librerie, continuando però la nostra filosofia indipendente di completo controllo su ogni aspetto del prodotto. Nessuno di noi si occupa di l’Employé du moi a fini di lucro, ogni guadagno va nella produzione di nuovi libri.

Quindi, stiamo un po’ nel mezzo, tra l’autoproduzione e l’editoria regolare. Quasi tutti i nostri libri sono di autori giovani, perché cerchiamo di colmare un vuoto tra quando l’autore è debuttante e il suo effettivo arrivo a pubblicare per un vero editore. Noi gli diamo visibilità, proiettandoli verso un mercato più ampio.

Come autore, che tipo di storie ti piace raccontare?

Mi piace molto raccontare storie di adolescenti. Non so qui in Italia, ma in Francia le storie che riguardano quell’età sono molto stereotipate, costruite intorno alle figure di ragazzini stupidi, brufolosi, pigri, ecc. In realtà, quella è un’età importante e complessa, in cui succedono molte cose; sei un ragazzo ma stai per diventare adulto, devi iniziare ad inventarti. È interessante e stimolante scrivere storie su quel periodo della vita. Ho realizzato varie storie sull’adolescenza.

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Da dove viene prevalentemente la tua ispirazione?

Direi per lo più dalla narrativa. Leggo molti romanzi. Un autore che mi piace molto è Jim Dodge. Ha scritto un libro molto strano,  intitolato Stone Junction, che racconta di un ragazzino che impara le tecniche per diventare un grande criminale, come scassinare casseforti, ecc. La storia, poi, prende una piega fantastica, ma con una grandissima coerenza. Mi ha appassionato molto. Qualche mese fa ho iniziato una storia su una madre e suon figlio che commettono una rapina e diventano fuggitivi; all’inizio non me ne sono reso conto, ma poi ho capito che quella storia che stavo creando era frutto dell’influenza di Dodge.

Apprezzo molto anche il cinema francese, la Nouvelle vague, in particolare. C’è qualcosa in quei film che mi emoziona, per il modo in cui non raccontano qualcosa di specifico, ma è come se mostrassero momenti casuali della vita, che poi in realtà si rivelano connessi. È quello che voglio fare anche io con le mie storie, non occuparmi di grandi trame e intrighi, ma mostrare semplici momenti della vita e intrecciarli, come succede davvero nella realtà.

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In L’âge dur mostri davvero molta attenzione verso piccoli dettagli degli sguardi e del linguaggio del corpo.

Sì, specialmente in quel libro. L’ho pubblicato a episodi in albi autoprodotti. Dopo sette od otto episodi che erano storie di vari adolescenti, senza protagonisti fissi, pensai che avrei potuto raccoglierli in un unico libro. Capii di poter dare ai racconti una coerenza complessiva, farli apparire come un unico racconto, nonostante non si trattasse di una storia unica e di una vera e propria trama. Aggiunsi qualche pagina qua e là, e ora può essere visto come un unico racconto, con momenti diversi della giornata di questi diversi ragazzi protagonisti

Definirei il tuo stile “minimale”, come sei arrivato a questa sintesi?

Quando inizia a disegnare non ero affatto bravo. Dovetti trovare un modo per raccontare ciò che volevo a modo mio. Il compromesso di usare uno stile semplice mi ha permesso di essere diretto, far sì che la gente guardi la pagina e intuisca ciò che voglio trasmettere. Certo, io non potrei disegnare in altro modo, è stato un passaggio spontaneo. Ho studiato disegno, ho sempre disegnato, ma anche da piccolo non sono mai stato quel tipo di ragazzino che attirava l’attenzione per la sua abilità. Però mi è sempre piaciuto disegnare e raccontare storie. Per me, i fumetti sono un mezzo per raccontare storie, non per mostrare abilità nel disegno.

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