I fatti di cronaca che hanno colpito Charlie Hebdo sollecitano un’interrogazione capitale. Perché al di là della condanna della violenza siamo chiamati ad esplicitare le regole del gioco entro cui il dialogo tra i diversi soggetti che compongono la nostra comunità si svolga senza eccedere e spostare i limiti entro cui l’incontro e la successiva “lotta” per il riconoscimento dei propri diritti avvenga.
La satira ha storia antica e multiforme, eppure in Italia, in tempi recenti, si è ritenuto indispensabile procedere ad una chiarificazione giuridica della sua natura, onde evitare che questa travalicasse i limiti stessi della sua funzione. La prima sezione penale della Corte di Cassazione, partendo dal presupposto che il diritto alla satira è di ordine costituzionale, come ricordano gli articoli 21 e 23 della Costituzione, ha così proceduto a definirla nella sentenza n. 9246 del 2006:
[La satira] È quella manifestazione di pensiero talora di altissimo livello che nei tempi si è addossata il compito di castigare ridendo mores, ovvero di indicare alla pubblica opinione aspetti criticabili o esecrabili di persone, al fine di ottenere, mediante il riso suscitato, un esito finale di carattere etico, correttivo cioè verso il bene
La definizione licenziata dalla Cassazione evidenzia dei caratteri ben precisi che possono esserci utili per capire quali siano gli elementi fondamentali di una buona satira. In primo luogo, viene sottolineato che la satira può avere un altissimo livello, ma questo non è connaturato alla sua manifestazione, anzi è quasi sempre un valore aggiunto. Ciò nonostante nelle sue varie forme le viene riconosciuto un compito di fondamentale importanza, cioè quello di “indicare alla pubblica opinione aspetti criticabili o esecrabili di persone” con una precisa finalità “correttiva, cioè verso il bene”. La satira quindi ha un fine positivo che la distingue dal semplice vilipendio.
Il discrimine è quello che separa la satira con messaggio da quella senza messaggio: soprattutto, quest’ultima – al di là della flessibilità dell’articolo 21 – non può e non deve intaccare il buon costume, individuato come limite esplicito dell’art.21 della Costituzione, e la dignità personale. I possibili confini della libertà di manifestazione del pensiero non dovrebbero intaccare questi due crinali. Ma, in pieno relativismo morale, il buon costume e la dignità esistenziale sono concetti sfuggenti e ondivaghi. Da qualsiasi parte, tanto da parti reazionarie che progressiste, tanto dai difensori della tradizione quanto dai paladini della liceità, sconfinare i limiti dell’esercizio sano della satira è abbastanza facile.
La satira di Charlie Hebdo era una satira a volte feroce in un paese come la Francia molto più disinvolto del nostro, eppure più di una volta aveva attirato su di sé le attenzioni di soggetti che vedevano derisi e messi alla berlina non tanto i propri ministri di culto, quanto i fondamenti stessi della loro fede, con vignette che talora eccedevano nel cattivo gusto e nella derisione e nello sberleffo fine a se stesso. Questo è un dato che va evidenziato e che non deve e non si vuole venga letto – come è stato fatto da più parti – come una velata giustificazione di quanto avvenuto, come se le libertà della rivista francese abbiano poi sortito degli effetti quasi leciti. Eppure, anche la satira reiterata e a volte pubblicata senza una piena adesione politica e ideologica – come nel caso delle vignette che deridevano il Profeta e quelle anti-semite che provocarono il mea culpa di Siné e la sua cacciata dalla rivista – seppur come puro documento della libertà delle manifestazioni di pensiero e dissenso, è una forma di violenza da non sottovalutare. La storia di Charlie Hebdo è una storia di conflitti e anche di lotte in nome di una libertà di parola e di opinione: un miscuglio in cui si confondono la tracotanza e un richiamo a nobili valori, che assumono purtroppo a volte riflessi torbidi e oscuri a causa di un uso un po’ troppo disinvolto di una satira priva di messaggio e che tracima nel vilipendio. Non è un caso, forse, che il Ministero degli Interni francese bloccò l’opera satirica del collettivo dietro la nascita di Charlie Hebdo.
Infatti, la rivista Hara-Kiri fu interdetta per un lungo periodo – tra il 1961 e il 1966 – e dovette chiudere dopo l’affaire De Gaulle. In quel periodo la rivistacambiò la sua periodicità, passando da quella mensile a quella settimanale, sperimentando diversi nomi prima di approdare a quello definitivo con cui è conosciuta. Fu proprio nel 1970, dopo la morte di Charles De Gaulle, che una delle loro irriverenti copertine attirò l’attenzione del Ministero degli Interni francese, che ne bloccò le pubblicazioni. Interdetto che la redazione aggirò facilmente, cambiando la ragione sociale della rivista.
Nacque così Charlie Hebdo, prendendo a prestito il nome dalla rivista antologica di fumetti Charlie Mensuel, su cui ad esempio Wolinski e Pichard serializzarono la loro Paulette, approfittandone ancora una volta per deridere il presidente De Gaulle. Con il suo nome definitivo, la rivista continuò la sua corsa sino al 1981, quando chiuse per scarse vendite. Rinata nel 1992, Charlie Hebdo enfatizzò la sua anima dissacrante. Sul celebre numero dell’8 febbraio del 2006, dove comparivano le arcinote immagini che deridevano il Profeta, il grande vecchio Cavanna si esprimeva così riguardo la censura:
Si può ridere di tutto salvo di una cosa sola, l’immagine di un certo profeta, fondatore di una certa religione. “Si può ridere di tutto salvo…”, […] Là dove c’è “salvo”, non c’è più niente. La libertà può essere solamente totale, altrimenti non è. […] Bisogna ricordare che astenersi dal pubblicare queste famosissime vignette danesi, vietarle di difenderle, doversi auto-censurarsi, è una cosa meschina! E’ abbandonare la laicità, è rinnegare le dure lotte dell’inizio del XX° secolo.
O tutto o nulla. La libertà inseguita e proclamata dalla rivista, nelle parole di uno dei suoi fondatori, era la totalità. Ma non è anche questa ideologia? Violenza? Una libertà estrema di ridere di tutto e di tutti, ma non della stessa possibilità di ridere? Un mettersi al di sopra per svolgere – certo – una funzione sociale, ma anche la dimostrazione quasi idealistica di essere al di sopra di tutto? Un tutto inebriante che sconfina in una hybris negativa: in una volontà forse cieca di negare tutto e tutti, in virtù di un Tutto da dimostrare con la propria penna e il proprio coraggio. Inoltre, in virtù di questo principio, si potrebbe far satira sulla morte dei vignettisti di Charles Hebdo – o invece la morte violenta, piuttosto, pone un limite che il buon costume e la dignità personale definiscono chiaramente?
L’hashtag #jesuischarlie si è diffuso in maniera capillare, come stigma d’affetto e sgomento verso la sorte dei giornalisti colpiti durante l’eccidio, ma anche come difesa di una maniera libertaria di fare politica e giornalismo. Da più parti, si sono mossi argomenti critici – che ripeto non devono esser visti come elementi che deducano quanto accaduto come una necessaria conseguenza dell’operato della rivista – verso la linea editoriale di Charlie Hebdo. La rivista fieramente di sinistra, oltranzista e antagonista verso i poteri, aveva ormai abbandonato la primitiva vocazione. La rinascita degli anni Novanta non si rivolgeva ai lettori che ne avevano visto e promosso la nascita dei tardi anni Sessanta. Gli studenti e gli operai che erano scomparsi nel corso di un decennio provocando la morte economica della rivista, ora non esistevano più, e la nuova incarnazione del settimanale aveva la necessità evidente di imporsi in un mercato dove disincanto, disillusione e cinismo dominavano il campo, e dove l’inesorabile avanzare di nuovi mezzi di comunicazione rendevano per certi versi desueta la carta stampata e il suo raggio d’azione. La linea editoriale è stata quindi calibrata anche sul sensazionalismo, sull’offesa gratuita e su un cinismo radicale molto spesso fine a se stesso che ha sfruttato a proprio vantaggio un serpeggiante malcontento che la Francia nutriva.
Infatti, se il Financial Times accusava in un editoriale a firma di Tony Barber di «stupidità editoriale» la redazione della rivista ritrattando il giorno dopo l’attentato, mentre il New York Times ha evidenziato criticità varie, il ‘quasi-blog/quasi-magazine’ specializzato in fumetti e cultura pop The Hooded Utilitarian, diretto da Noah Berlatsky, aveva denunciato con un articolo di Jacob Canfield l’evidente curvatura “razzista” della rivista soprattutto nei confronti del mondo musulmano. Limes, in una nota pubblicata in questi giorni, evidenziava come fosse errato parlare di razzismo riguardo la satira di Charlie Hebdo, poiché non la si faceva su una “caratteristica innata”, ma su una acquisita. Infatti, razzismo ha una valenza storica legata alle teorie pseudo-scientifiche della diversità delle razze umane, quindi solo latu sensu e in maniera inappropriata può denotare forme di pregiudizio e discriminazione. Ma se le razze non esistono e anch’esse sono figlie di costrutti sociali e di erronee ipotesi interpretative, non si può parlare di razzismo anche nei confronti di caratteristiche sociali acquisite? Il razzismo hitleriano non era forse un odio contro un gruppo sociale che si basava su una falsa teoria razzista? Scrive Berlatsky, in difesa all’articolo di Canfield:
La religione musulmana è legata ad un’identità etnica, e poi i musulmani sono caricaturizzati e discriminati come gruppo razziale, spesso confondendo l’Islam con “arabo”. Così, come Canfield ha sottolineato, i fumetti spesso rappresentano i musulmani in modo stereotipato e razzista – scuri di carnagione, inquietanti, con nasi adunchi, degenerati – un modo questo non così lontano da quello in cui i Nazisti rappresentavano gli Ebrei. […] Secondo una logica dell’islamofobia razzista, essere musulmano non è solo aderire ad un credo, ma anche qualcosa che ha a che fare con l’aspetto fisico. Si può essere “musulmani” indossando un turbante, avendo un certo colore della pelle o determinati tratti somatici…La religione islamica è utilizzata come parte di un’identità che può e deve essere controllata.
Il problema quindi evidente – al di là della strenua difesa della libertà di cronaca e satira – era che paradossalmente questa rischiava di ottenere risultati antitetici alla sua stessa ragion d’essere, utilizzando strumenti già in uso nella satira di propaganda dei regimi totalitari e riducendo a sberleffo e pantomima un problema incandescente per la società francese, che dal Dopoguerra in poi deve confrontarsi con la presenza di un’alterità che non è più l’estraneo, ma qualcosa di connaturato alla sua stessa identità di potenza coloniale. La stragrande maggioranza dei quotidiani americani ha deciso di non pubblicare le vignette di Charlie Hebdo, trovandole offensive e triviali. In un’intervista rilasciata al New York Observer, Crumb ha detto:
[…] Tutti i grandi quotidiani e le più importanti riviste americane erano concordi, di comune accordo, nel non stampare le vignette offensive che Charlie Hebdo pubblicava. Sono tutti d’accordo che non avrebbero dovuto stamparli, perché erano troppo irrispettosi nei confronti del Profeta. Charlie Hebdo non aveva una grande tiratura. Un sacco di francesi dicono, “Sì, era privo di gusto, ma difendo il loro diritto alla libertà di parola”. Sì, era disgustoso, questo è quello che dicono. E forse lo era. Cioè, non farei carriera adescando alcuni fanatici religiosi del cazzo insultando il loro profeta. […] oggi, non credo che ci sia qualcuno come loro in America. La roba di Charlie Hebdo ha avuto inizio nel 1969. La combriccola che lavorava per quella rivista ha mantenuto quel livello per decenni. Quei tizi erano abbastanza vecchi, sai com’è, e alcuni di loro molto vecchi. Non erano molto più di 20 o 30 forse in quel gruppo. I vignettisti erano quelli più anziani. C’è un sacco di critica anche a sinistra. Dicono che la sinistra è ipocrita, cacciaballe e opportunista, e tutto il resto. Ma, in generale, direi che Charlie Hebdo goda della simpatia sinistroide. Eppure pubblicavano ogni settimana…e la gente lo guardava appena e rideva, “Oh, guarda un po’ questi, che pazzi!!! Sono scandalosi.”
La voce di Crumb – nonostante la sua adesione con una vignetta per Libération – così come quella di Joe Sacco, fotografano una posizione alternativa e che non accetta la ‘facile’ e ‘scontata’ adesione alla campagna #jesuischarlie. Come poc’anzi accennato, David Brooks in un editoriale – dal titolo Why I am not Charlie – sul New York Times con estrema lucidità analizza la questione e dice:
I giornalisti di Charlie Hebdo sono celebrati come dei martiri della libertà di opinione, ma analizziamo meglio la questione: se avessero cercato di pubblicare il loro giornale satirico in una qualsiasi università americana nelle ultime due decadi sarebbero durati 30 secondi. Gli studenti e le facoltà li avrebbero accusati di incitamento all’odio. […] Una società in salute, in altre parole, non sospende il diritto di parola, ma concede diverse posizioni a diversi tipi di persona. Persone sagge e professori sono ascoltati con rispetto. Gli autori satirici sono ascoltati con disorientato semirispetto. I razzisti e gli antisemiti sono ascoltati attraverso un filtro di obbrobrio e mancanza di rispetto…il massacro di Charlie Hebdo dovrebbe essere una occasione per porre fine ai codici dei discorsi. E dovrebbe ricordarci di essere legalmente tolleranti con le voci offensive, anche se siamo socialmente discriminati da esse.
Allora, se con Matteo Stefanelli, che ha dedicato un articolo a Topor – uno dei più grandi autori satirici francesi – possiamo sostenere che:« [..] la strage a Charlie Hebdo deve ricordare a tutti noi come la libertà di espressione, in una civiltà libera e moderna, non possa non fare i conti con la libera rappresentazione della crudeltà o della ferocia. Contro il Re Luigi Filippo ai tempi di Honoré Daumier, contro Boss Tweed ai tempi di Thomas Nast, contro De Gaulle o contro Dio ai tempi di Hara-Kiri, contro Dio o Maometto ai tempi di Charlie Hebdo.», questa stessa libera crudeltà può generare odio, separazione, discriminazione e incomprensioni che attecchiscono in un campo di lotta che travalica l’esecrazione della religione perché alimenta forme di sospetto nei confronti di identità ormai proprie del tessuto francese.
Il problema è quell’odio nato da un trascorso forse mai totalmente ripensato e integrato in un corpo unico. Certo la questione, pur essendo squisitamente francese, non è eminentemente francese: è un discorso che deve coinvolgere tutti, sia coloro che si riconoscono nei valori – trascendentali – di Charlie Hebdo che in quanti, invece, decidono di essere critici e ripensare i limiti ai codici del discorso. E questo non perché si vogliono imbavagliare le voci più iconoclaste, ma perché bisogna evitare che alle parole e ai discorsi si sostituiscono immagini spesso violente e laceranti non solo nei confronti di pochi e isolati fanatici i cui pensieri sono disturbati dal frinire di pensieri corrotti, ma soprattutto nei confronti dei francesi musulmani stessi: nei confronti della stessa identità francese e europea.
Un’identità problematica su cui riflette Michel Houellebecq nel suo ultimo romanzo – Suomission – in uscita anche in Italia. La presenza di una sua caricatura nel penultimo numero di Charlie Hebdo hanno creato un malinteso. Infatti, Sottomissione parla di un futuro prossimo in cui le elezioni francese sono state vinte dalla Fratellanza Musulmana, un nuovo partito islamista moderato, diretto da Mohammed Ben Abbes, il cui aspetto rassicurante da «vecchio droghiere tunisino di quartiere» riesce a far attecchire la causa del partito anche nel cuore dei semplici simpatizzanti. Una sintesi così feroce della trama potrebbe facilmente far pensare ai più che l’intento di Houellebecq sia ironico o satirico, niente di più falso come ben evidenzia Emanuel Carrére in un appassionata recensione del romanzo apparsa sulle pagine del Corriere della Sera, dove dice: «[…] la resistenza non interessa a Houellebecq. Egli ritiene che l’Occidente sia spacciato…che la libertà, l’autonomia, l’individualismo democratico ci abbiano immersi in uno sconforto assoluto; sconforto che nessuno ha descritto meglio di lui. Se rimane una speranza al di fuori della pura estinzione…essa scaturirà da quelle che secondo noi rappresentano le peggiori minacce per la nostra civiltà e per l’idea che ci facciamo dell’umanità…». Allora, più che una distopia, Sottomissione sembra tracciare un’utopia islamofila, che in filigrana descrive la miseria della politica francese.
Ma, è la stessa voce dello scrittore francese – in una lunga intervista concessa al Corriere della Sera – ad aiutarci a dirimere la sua posizione da fallaci interpretazioni, esprimendo anche una lucida posizione su quanto successo alla rivista. Dice Houellebecq: «Cabu…non era del tutto cosciente del rischio, c’era in lui un’anima sessantottina mescolata con una vecchia tradizione di mangiapreti, e in Francia essere un mangiapreti espone a un processo in tribunale che in generale si vince sempre. Penso che Cabu non abbia colto che la questione è ormai di un’altra natura.». La stessa reazione dei parigini è vista con sospetto, perché la difesa della libertà, per Houellebecq, deve passare attraverso un concetto più ampio e profondo di responsabilità. Una nuova libertà che deve liberarsi del mito illuminista e fare i conti con la realtà di fatto. Al riguardo il ritorno delle religione come fenomeno identitario forte, Houellebecq dice:«I miei valori non sono quelli dell’illuminismo…Cattolicesimo e Islam hanno dimostrato di poter coabitare. L’ibridazione è possibile con qualcosa che è davvero radicato in Occidente, il Cristianesimo. Mentre con il razionalismo illuminista mi pare inverosimile.». Certo, con questo non si vuole abbandonare i principi del laicismo per ritornare ad un teocrazia, ma certo la libertà deve ridisegnare i propri confini per non giocare irresponsabilmente con i propri poteri. La posizione dello scrittore è abbastanza lontana da quella oltranzista condotta da Charb. Ormai, l’idea secondo cui l’Islam è la religione più stupida del mondo è stata totalmente ritrattata.
In questi giorni Voltaire è stato spesso richiamato come padre e fautore di un pensiero libero e liberatore: di principi illuministi forse troppo leggermente dati per scontati e che disegnano il nostro vivere quotidiano, ma di cui abbiamo ormai dimenticato i confini. Voltaire diceva anche:«Ai vivi si deve rispetto, ai morti solo verità.» Questo è un personale e forse fallace contributo alla verità, ma tocca a tutti contribuire, incominciando a capire cos’è l’Europa e che fine ha fatto la nostra libertà.