8 – 13 marzo 1991
L: Rispetto alla prima chiacchierata di questa serie, il mondo è cambiato parecchio…
G: Pure tu.
L: E tu no?
G: Io non cambio. Semmai invecchio.
L: Invece il tuo segno ringiovanisce. Mi pare.
G: Te ne ringrazio. Questo sì che è un complimento (Spero).
L: Lo dico in quel senso di Picasso che citavi tu, tempo fa. Il tuo segno diventa sempre più sottile, ovvero sempre più essenziale. Però non mi spiego come faccia una linea così progressivamente immateriale a raccontare la realtà in maniera invece sempre più corposa, più vera insomma, più interna alle cose…
G: È il potere della linea. Eterna fanciulla.
L: Cosa?
G: Perciò hai l’impressione che io ringiovanisca. Anche se invecchio (Perché invecchio).
L: Cosa vuol dire?
G: Che la linea è intellettuale. Mi sembrava di averne già parlato… non c’è niente di più intellettuale della linea. E ciò che è intellettuale è inalterabile, non deperisce… starei per dire è eterno… hai mai sentito parlare di Adam Toepffer?
L: No.
G: Uno dei precursori del Fumetto contemporaneo. Professore a Ginevra, guarda caso… aveva incuriosito perfino Goethe, che lo riteneva un talento assolutamente originale…
L: Perché “precursore”?
G: Faceva storie illustrate sui quotidiani. Solo che l’azione veniva rappresentata non nelle totalità, ma nello svolgersi dei suoi momenti successivi… in spazi che suddividono la pagina…
L: In vignette?
G: Appunto. E sai cosa scriveva, Toepffer, della linea?
L: Cosa?
G: “La linea è un mezzo artificiale di imitazione, ma corrisponde così bene alla maniera intuitiva d’osservare che parla alla nostra intelligenza nel modo più rapido e chiaro.”
L: La linea, già…
G: Parla alla nostra intelligenza. Ti pare poco, averlo detto così esplicitamente a metà dell’Ottocento?
L: Non mi pare poco. Solo, mi stupisce notare come niente, ma proprio niente della storia contemporanea, abbia recepito il suo insegnamento.
G: Sulla linea?
L: Ti risulta ci sia qualcosa di lineare in quest’epoca?
G: La vedo piuttosto come un’epoca di intersecazioni, di incroci…
L: Mi fa piacere che tu me ne dia atto.
G: Vedi? Su qualcosa cominciamo a essere d’accordo.
L: Si vede che anch’io invecchio.
G: Probabile.
L: Cos’è questa storia che stai facendo adesso?
G: Sono tornato agli inizi. Di nuovo un cineromanzo storico. Antica Roma.
L: Io vorrei tanto vedere la storia contemporanea, raccontata da te. Quella di queste intersecazioni, di questi incroci… anche cruenti, violenti, beceri… mi ricordo, per esempio, del covo dei terroristi in “La grande confusione”… poteva essere uno scorcio dentro via Gradoli… oppure la comune dei reduci degli anni Settanta che lavorano alla vendemmia in “Fantasmi”. O i miei amici tramutati in terroristi. Eri forte… ci hai messo tutta un’epoca.
G: Lascia stare. Hai visto il mio penultimo lavoro?
L: “Alla ricerca del pianeta terra”? Sì.
G: E che te ne pare?
L: Un ulteriore capitolo verso la semplificazione.
G: Lì c’è anche la storia di questo secolo. C’è Hitler per esempio…
L: Io alludo alla storia di questi mesi. Di questi giorni. Di noi, del presente.
G: Quella storia ancora non è storia.
L: Perciò non puoi rappresentarla?
G: Non lo so… è qualcosa di incompiuto che fila via… che inquieta…
L: Preferisci vedere le dirette della CNN con i Patriot su Bagdad?
G: Sono uno spettatore qualsiasi.
L: Pensa alla caduta del Muro. Alla fine della guerra fredda… Gorbaciov non ti sembra un personaggio dei fumetti?
G: … È una curiosità che resterà insoddisfatta, la tua. Non penso di avere tempo per queste cose. Né voglia. Non mostrerò il mio modo di vedere questi fatti per lo stesso motivo per cui non appendo i quadri in questo studio. E poi… mi propongono sempre di disegnare il passato… cosa vuoi? Si vede che sono del passato anch’io…
L: Non sei spiritoso…
G: Secondo me non è necessario descrivere il presente per denunciare i vizi del presente. Pensa a Fra Salmastro di Enzo Lunari, o al Mago Wiz di Hart e Parker. Un Medioevo strumentale in entrambi i casi… il presente lo si può raccontare attraverso il passato, non sarebbe la prima volta. O forse non è necessario raccontare quel tipo di presente da prima pagina di quotidiano. Ma un Eterno Presente sì.
L: Non fare lo gnorri. Un po’ di quello che hai sotto gli occhi è sempre entrato e continua a entrare nei tuoi disegni. C’è qualcosa che mi riguarda da vicino…
G: Giulietta?
L: Non voglio vanagloriarmi di essere (o di essere stata) graziosa quanto il tuo personaggio… però, un po’ mi ci ritrovo… non mi facesti posare per lei?
G: Certo.
L: Giulietta rientra nel capitolo “Ritratti incompiuti”, così somigliante a quella me che hai ritratto a tempera nel 1980…
G: C’è qualcosa di tragico in quel ritratto e in quella Giulietta.
L: Cosa?
G: Qualcosa di incompiuto appunto. Non so… L’incompiuto della gioventù destinata a stroncamento. L’attesa di quella morte, forse… O l’età acerba che progressivamente si inspessisce…
L: Come? Perché?
G: … Perché diventa una passione adulta.
[…]
G: Che triste vedere crescere una figlia…
L: Davvero?
G: Anche Riccardo… è impossibile fargli un ritratto vero. Quello che gli ho fatto non è somigliante, in effetti.
L: Ti risponderò un’altra volta citando Picasso. “Col tempo, gli somiglierà”. È come per i tuoi amici… Fìdati. Li riconoscevi mentre li disegnavo sulle tavole del “Commissario Spada”?
G: No, è vero. Non troppo.
L: Lo vedi? Ci vuole il tempo in mezzo. E io, se permetti, osservo dal mio punto privilegiato.
G: La mia vista a trecentosessanta gradi. O forse, più semplicemente, l’età che ho… il tempo che mi è passato davanti agli occhi.
L: E di te stesso hai mai fatto un autoritratto, oltre a quello scherzoso per Franco Fossati? Ti sei mai registrato nel tuo progressivo invecchiare?
G: Bah… forse non ci si vede mai invecchiare. Mai a sufficienza.
L: Io mi ricordo un tuo autoritratto del ’74, schizzato a pennarello… il tuo volto manca di una delimitazione geometrica… è allusivo, pur se completo e somigliante… ti sei abbozzato, approssimativo come un’isola… i capelli sembrano cespugli… che idea hai di te? Davvero così incompleta?
G: Io sono nulla. Appercettivamente nulla. Un’isola? Forse? Un disegno per sempre fuori dalla sua vignetta. Io sono quel che sono non per mia volontà. La mia volontà non è mia. Io sono io nonostante me stesso. Essere quello che sono significa non poter essere quello che vorrei essere…
L: Tu ti ami?
G: Se non mi amassi, mi sarei già dovuto sparare.
L: Perché fra tanti soggetti, per riempire quella parte del salone, hai scelto proprio Narciso?
G: Vuoi insinuare che io sia un Narciso, innamorato a mia volta della mia stessa immagine?
L: Forse…
G: Semmai lo sono delle mie immagini, ma di quelle che creo. Sì, questo te lo concedo… e poi… hai visto davvero il mio Narciso? Hai visto bene la sua immagine riflessa?
L: … È un teschio. Volevi fare il verso ai caravaggeschi, ma loro non si sarebbero mai permessi tanto.
G: Il punto è che so benissimo cosa significa guardare solo se stessi. Spero, col mio lavoro, di avere dimostrato abbastanza l’urgenza di guardarsi più che altro intorno.
L: Sì, direi di sì.
G: Comunque… davvero, adesso non avrei tempo per altro… debbo finire questa faccenda dell’antica Roma e mi debbo anche documentare…
L: … È per questo che sei andato fino al Museo delle Navi di Fiumicino?
G: Sì. A vedere ricostruzioni di galee romane.
L: … È per questo che hai chiesto tutti i libri sulla Sindone?
G: Lo sai che il Disegno è una cosa seria. Io, documentandomi, imparo… la scuola non finisce mai.
L: Questo lavoro invece quando lo finirai?
G: È una storia molto lunga. Davvero spero di farcela.
L: Mi pare che sei troppo tornato al classico, ammesso che tu te ne sia mai discostato. Ai tuoi ragazzi angelicati. Ma senza risparmiarti la solita ironia sul deforme e sul mostruoso…
G: Non ci trovi niente altro di nuovo?
L: Te l’ho detto. La mia impressione generale è che il tuo segno, più vai avanti, più si rarefà.
G: Io perseguo la semplificazione.
L: La semplificazione allora è una conquista?
G: Io penso sempre ai Prigioni di Michelangelo. I giganti che lottano per liberarsi dalla pietra, cioè dalla materia.
L: Di nuovo lei.
G: Capolavori incompiuti, dicono gli storici dell’arte. E così li mettono sullo stesso piano di quei bozzoli di figure appena accennate di Morlotti, per esempio. Invece secondo me i Prigioni erano compiutissimi e Michelangelo non si è accorto di avere fatto dell’arte moderna. Oppure se ne è accorto e ci ha preso in giro tutti. Era lui, il vero solo espressionista veramente degno di questo nome. A proposito… non dovevi ottenermi il permesso per vedere un’altra volta i restauri della Sistina?
L: Hanno ristretto gli accessi. Ma parlerò di nuovo col maestro Colalucci… io però non ho capito in che senso Michelangelo ci avrebbe preso in giro.
G: Chiedilo a Colalucci.
L: Dai, rispondimi.
G: Nel senso che forse quei cosiddetti incompiuti non erano per niente incompiuti ma furono volutamente progettati in quello stile di apparente incompiutezza.
L: E a che scopo?
G: Allo scopo di testimoniare che lo sforzo per liberare la Forma dalla materia che la opprime, è sovrumano. Se stenta a sostenerlo perfino un gigante…
L: Allora l’incompiuto ha una sua nobiltà, avevo ragione io nella mia tesi?
G: Non ti ho mai dato torto. Anzi, semmai, ho sempre avuto voglia di saperne di più. A proposito: quando me la fai leggere la tua tesi?
L: È la centomilionesima volta che mi poni questa domanda. Evidentemente la mia risposta “prego, fai pure, c’è una copia di là nella mia libreria”, non ti basta, e stai cercando da me qualcosa in più. Che cosa?
G: Forse, che sia tu a leggermela e a parlarmene…
L: Io sono nelle cose che scrivo.
G: Forse ti sto facendo notare che, come umile fumettaro, so di non disporre degli strumenti di cui dispone invece una filosofa.
L: Ne hai altri, non buttarti giù. Prendi quella benedetta copia, apri e leggi. Tanto, so che rimarrai un po’ deluso.
G: Sarebbe?
L: Non ci troverai quello che io penso del non compiuto, ma la sintesi di una parte della filosofia contemporanea di fronte al problema del non compiuto.
G: Mi sta benissimo. Te l’ho detto e te lo ripeto: per me la scuola non finisce mai.
L: Io mi sono voluta consolare, affrontando questo tema. Anzi, forse me lo sono inventato…
G: In che senso?
L: Nel senso che oggi tutto è compiuto, razionalizzato, esaurito. “Tutto scoppia”, diceva Enrico Baj. O no?
G: E aggiungeva. “Le teste degli uomini sono cariche esplosive”…
L: Apparentemente.
G: Invece, non è così?
L: No. A me restano miliardi di buchi neri…
G: Dimmene uno.
L: Parlavamo della storia. Tu sembri refrattario al presente. Io… non so… il presente mi attrae… e insieme mi debilita… ho il complesso del presente… tutto questo parlare che si faceva dell’impegno sociale, quando ero ragazzina e mi sarebbe piaciuto tanto invece abbandonarmi ai miei sogni di ragazzina… non lo so, mi ha condizionato…
G: Forse è il presente, il vero incompiuto. Questo divenire imprevedibile… non ti accorgi?
L: Di cosa?
G: La crisi del comunismo era in un certo senso scritta… ogni persona mediamente intelligente avrebbe potuto comprendere che non sarebbe durato… Ogni dittatura che schiaccia l’uomo, alla fine va in crisi. Questo è ovvio. Ma è il modo particolare in cui questa disgregazione inevitabile si attua, che ci spiazza sempre. Sono le mille possibili alchimie che…
L: Scusa, ora che mi ricordo, tu hai realizzato una storia per la Dardo sul figlio di Stalin…
G: “Nessuna risposta”.
L: Me la ricordo. Vagamente. Che ci avevi messo dentro?
G: Tutto quello che schiacciava l’uomo, che gli passava sopra ferendolo, annientandolo, impedendogli di liberarsi dai condizionamenti…
L: Tu, di quali condizionamenti vorresti liberarti?
G: Che domande… ho una lista infinita…
L: Parlavamo della semplificazione come di uno dei tuoi obiettivi. Forse la semplificazione coincide con la difficoltà della Forma a liberarsi dal condizionamento della materia? È anche uno dei tuoi condizionamenti?
G: La materia è grevità, ridondanza, quantità in eccesso… ma è anche strada aperta, libertà, fonte di creazione… o si è vergini, di fronte alla materia, e allora si fanno i bisonti di Altamira, o si è smaliziati, e allora vuol dire che quella essenzialità si è riusciti a riconquistarla. Vedi Picasso, per esempio. In mezzo, ci stanno secoli di storia dell’arte, di umanesimo, di barocco, di rococò, di neoclassicismo…
L: Capito. Su questa strada della semplificazione è da collocare “Alla ricerca del pianeta Terra”, secondo me. Solo otto tavole uscite poche settimane fa su Il Giornalino . Ne avrei contemplate con gioia centootto. È vero che l’autore di questa storia è un ragazzino?
G: Sì, il vincitore di un concorso indetto dal giornale.
L: Due piccoli extraterrestri partono nello spazio alla ricerca del pianeta Terra e si imbattono nei personaggi e negli episodi salienti della sua storia, incluso Hitler, appunto, e lo sterminio degli ebrei… anche qui, di nuovo l’espediente della doppia tecnica, del doppio linguaggio. Le efferatezze della storia umana sono raccontate col tuo stile classico, rigoroso, realistico. I due extraterrestri sono in pratica usciti dalla penna di un bambino. Due pupazzetti di fattura primitiva ma anche aggraziati, lievissimi…
G: Dovevo rendere ragione al mio sceneggiatore… e farlo in qualche modo partecipe. Ho immaginato quello che avrebbe immaginato lui…
L: L’ingenuità del tratto con cui hai reso i due extraterrestri a contrasto col realismo del resto sortisce un effetto drammatico o ironico a seconda dei punti di vista. Tu a cosa puntavi?
G: Non lo so. Non sempre e necessariamente so quali sono le mie intenzioni quando seguo la mia mano. La quale, a sua volta, obbedisce evidentemente a qualcosa di superiore. Prima ti avrei detto il cervello. Oggi, francamente, non lo so più.
L: Porrò la domanda in altri termini: quando osservi la storia umana (dal tuo personalissimo punto di vista), la osservi con quella verginità di tratto lì? Con quella ingenuità dei rapporti?
G: Non so neanche questo, te l’ho detto. Come la osservo? Cos’è la storia, se uno ci sta dentro? E qual è il mio particolarissimo punto di vista?
L: Non cambi mai. Il tuo particolarissimo punto di vista è questa finestra che ti affianca mentre lavori, per esempio. Perché l’hai fotografata, l’altro giorno?
G: Ho fotografato questa finestra?
L: Ti avevo lasciato la mia macchina fotografica. Poi, portando il rullino a sviluppare, ho trovato uno scatto su questa finestra…
G: Sì, è vero… cercavo di fissare una certa prospettiva… forse.
L: Su che? La finestra inquadra abeti e cielo.
G: Ti pare poco? Forse è davvero soltanto questo il mio punto di osservazione sulla storia. Tra abeti e cielo. Ricordati che io vengo da quei famosi orizzonti fra uliveti e lo Ionio…
L: Sì, mi ricordo. Però, sinceramente, non mi era mai capitato di vedere qualcuno che fotografa la sua finestra.
G: Non ti era mai capitato di vedere qualcuno che fotografa il suo panorama preferito?
L: In genere sono laghi, marine, montagne…
G: Ognuno si accontenta di quel che ha. Non mi hai, in un certo senso rimproverato, di non espormi sul presente? Eccolo il mio presente. Questo panorama, se dimentichi di essere su via della Camilluccia con le maledette macchine che passano qua sotto, potrebbe benissimo essere uno scorcio di baia montana. E questi abeti… se faccio finta di niente, posso anche imitare Leopardi… e convincermi che oltre questi abeti c’è l’infinito.
L: Potresti disegnarlo?
G: E chi lo sa.
L: E Dio?
G: Cosa?
L: Potresti disegnarlo?
G: Forse l’ho già disegnato. E tu non te ne sei accorta. E nessuno se n’è mai accorto.
L: A che alludi?
G: A niente.
L: Invece a me viene in mente una cosa. Un’illustrazione degli anni Sessanta. Del 1968, credo.
G: Ah sì?
L: Saulo sulla via di Damasco.
G: Ne vado fiero, se permetti.
L: Te lo permetto perché mi ricordo quanto ti costò. Solo, non capisco cosa davvero ti costò.
G: La luce.
L: La luce?
G: La luce e il cavallo.
L: Cioè?
G: Non voleva venire.
L: Chi?
G: Quel cavallo.
L: Perché ti preoccupava tanto il cavallo, ancora una volta?
G: Perché era la parte animale di Saulo, quella che non voleva piegarsi alla luce. Non voleva venire, appunto. Non voleva piegarsi all’incontro col Padreterno. Cioè con quella luce.
L: Saulo si copre gli occhi. E anche noi è come se avessimo gli occhi bendati, di fronte a quella luce, perché non la vediamo direttamente, ma solo di riflesso sul corpo di Saulo steso a terra e sulle forme del cavallo che si contorce dal terrore.
G: È una caratteristica del Padreterno mostrarsi sempre di riflesso. Atterrire e atterrare. Mostrarsi altrove da dove è. Perché non solo ciò che appare è reale. Questa è la benedizione e anche la maledizione del disegno, per me. Per questo, all’epoca, mi sentivi sbattere la tavola per terra, perché non mi veniva.
L: Torno a chiedere: cosa non ti veniva?
G: Il cavallo. Ma poi anche la luce. Dio.
L: Poi Dio ti è venuto?
G: Che vuoi che ti dica?
L: Qualunque cosa.
G: Forse Dio non viene. Si scopre man mano. Come le carte a poker.
L: O come il contrasto caravaggesco di questo quadro (perché per me è un quadro)…
G: Un po’ buio pesto un po’ luce accecante? Può darsi.
L: Anche tu hai avuto la tua via di Damasco?
G: La mia vita di Damasco è stata ed è il disegno.
L: Questo quadro è anche un tuo ritratto.
G: Non lo escludo.
L: Una parte di te è atterrata come Saulo, che si copre gli occhi in un gesto quasi infantile. Una parte di te è ostinata come il cavallo, che non si piega, che resiste nella sua ragione irragionevole, bellicosa ed ostinata, che non vuole farsi rassegnata dell’infinito…
G: Credi?
L: E tu? Credi?
G: Che domande…
L: Torno alla tua parte umana, infantile… “Alla ricerca del pianeta Terra” mi ha ricordato, in qualche cosa Io mio. C’è un’infanzia protagonista che poi è una costante delle tue storie, ma non sono sicura che ciò dipenda dal fatto che le tue cose sono destinate a un pubblico giovanile…
G: E da cosa?
L: Non lo so, speravo che mi aiutassi tu.
G: Vorresti dire che in qualche cosa io sono rimasto un ragazzino?
L: Si, ma non voleva essere un’offesa.
G: Vedi questo tavolo?
L: Uhm. Glorioso.
G: Risale al 1948. È stata la prima cosa che ho potuto comprarmi coi miei guadagni. I disegni mi pagavano la possibilità di continuare a disegnare in condizioni migliori. Prima di questo tavolo non c’era niente, c’era un deschetto da ciabattino con, posata sopra, una tavola che ampliava il piano-lavoro. Disegnavo in faccia a una finestra che dava su un cortile. Tremendo. C’erano centomila finestre, centomila occhi, centomila drammi. Tutti disegnabili, tutti presenti, e tutti mescolati a quegli odori… altro che Saulo, altro che vie di Damasco… lì non c’erano conversioni possibili. Io questo tavolo, non l’ho mai voluto cambiare Mi ricorda certe cose. Certo che sono rimasto un ragazzino. Voglio rimanerlo. Anzi, pretendo di ridiventarlo.
L: La scena che mi hai descritto mi fa venire in mente come doveva essere la vita media oltre cortina. L’altro giorno ho conosciuto un profugo albanese che…
G: Anche noi, in quegli anni, uscivamo da una dittatura. Le dittature si somigliano tutte, te l’ho detto. Ce ne sono di più benevole, di più atroci…
L: A proposito di dittature… sbaglio o tempo fa dovevi partecipare con un bozzetto all’iniziativa di Amnesty International e Comic Art contro la tortura?
G: Non sbagli.
L: Quel profugo albanese mi ha parlato anche delle torture cui erano sottoposti quelli che si opponevano al regime… io… non sapevo che nel mondo…
G: Di che ti meravigli? Accade. Perché questo è l’uomo. La tirannia peggiore è sempre quella dell’uomo su se stesso. Dell’uomo che non si copre mai gli occhi di fronte alla luce. Dell’uomo che non si fa mai accecare.
L: Dov’è adesso quel bozzetto?
G: Ma che ne so. Mica pretenderai…
L: Sì, invece.
[…]
L: Non ricordo di aver mai visto delle manette così. Fatte di filo spinato…
G: Volevo qualcosa che mi ricordasse il martirio di Cristo. E la caduta da cavallo di Saulo.
L: È un torturato?
G: Potrebbe anche essere un condannato a morte… non so… un padre Kolbe, o un anticomunista nell’Unione Sovietica di Stalin… o il protagonista di Arancia Meccanica, perché no? O un cileno dissidente, ai tempi di Pinochet… sì, quando tu e i tuoi compagni strimpellavate i canti degli Inti Illimani, ti ricordi? È il torturato per eccellenza… ma è anche la vittima della Storia … di tutte le storie…
L: Solo questo?
G: Non ti basta?
L: Ci vedo dell’altro, ma non so cos’è.
G: Te lo dico io. Ci vedi l’uomo costretto nel finito, che si copre gli occhi di fronte alla luce, che spera nell’eterno.
L: L’hai messo in ginocchio. Perché l’hai messo in ginocchio, se la speranza dell’eterno non è vana?
G: Perché è atterrato, questo sì. Come Saulo. Ciò non significa che non possa…
L: Ma allora è anche questo un disegno incompiuto, incompiuto come mille altri. Perché? Perché non porti a termine mai niente, accidenti?
G: La mia, forse, è un’illusione di…
Il telefono squilla. L’intervista viene interrotta. Seguono altri casi e l’intervista non viene più ripresa.
Mio padre ha così lasciato incompiuta anche questa conversazione, oltre che l’opera cui stava lavorando mentre l’intervista stessa si svolgeva.
Ho cercato più volte di immaginare che parola gli mancasse per terminare il suo ultimo pensiero qui trascritto, e mi è sempre venuta in mente la parola “infinito”.
Sul suo adorato tavolo del 1948 ha lasciato, prima di morire, la tavola n. 127 de “I giorni dell’Impero” appena abbozzata. Si intravedono figure, appena delle sagome, come ombre rubate in anticipo sull’Aldilà.
E poi un tratto lungo, sinuoso, che occupa il foglio quasi per intero…
Io ci ho visto una specie di fazzoletto sventolato in segno di addio.
Chissà che cosa intravide mio padre, in quel segno.
Chissà dove porta e dove lo ha portato.
*Testo riprodotto con il consenso di Laura De Luca