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Gianni De Luca, nato con la matita [Intervista]

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spada

4 – 20 settembre 1988

L: Non tutti sanno che tu ti chiami, all’anagrafe, Fortunato.

G: Porto il nome del padre di mio padre. Tu l’hai conosciuto…

L: Sì, mi ricordo un vecchietto che somigliava vagamente a Giuseppe Verdi, vestito di tela azzurra e con una specie di tuba in testa. Ma può darsi che io sovrapponga ricordi a fotografie.

G: Faceva il casellante…

L: Tu ti ci senti, fortunato?

G: Sì, perché faccio quello che mi piace.

L: I fumetti?

G: Uhm, uhm… mio nonno…

L: Cosa?

G: … Stava al casello nel punto in cui si incontravano due strade di campagna. Una attraversava il cosiddetto “campo” e l’altra… una piena di uliveti. Giù in fondo passava la ferrovia e si sentiva il trenino fischiare. Erano due orizzonti vasti, a perdita d’occhio. Forse, da lui non ho ereditato solo il primo nome, ma anche un po’ della sua memoria visiva… quegli orizzonti vasti, appunto. Quella che io chiamo veduta “a trecentosessanta gradi”.

L: Interessante. Ma di questo avevo in programma di parlare più avanti, se non ti dispiace.

G: Anticipo sempre i tempi, allora?

L: Sì, e mi crei un po’ di disordine.

G: Va bene, mi rimetto nel mio angolino.

L: Dicevo. Fortunato, o anche “Nato”… un diminutivo molto in uso, al Sud…

G: Nel senso di “Nato con la camicia”, sì.

L: A questo volevo arrivare. Al Sud danno per scontato che perfino il fatto di nascere sia una fortuna?

G: Può darsi. Anche se, in un certo Sud, la fortuna consiste piuttosto nel sopravvivere alla propria nascita…

L: Hai di nuovo quei “brividi retroattivi”?

G: Sì. Sorvoliamo.

L: E va bene, ora però sei tu che mi censuri. Un’ultima cosa. Tu ti ci senti: “nato con la camicia”?

G: Con la matita, piuttosto.

L: Per il fatto che reputi un dono questa grande bravura?

G: Un dono che però mi sono sudato.

L: In che senso?

G: Ancora nel senso di Leonardo: “Iddio ci vende tutti li suoi beni a prezzo di fatica”…

L: Hai faticato per perfezionare qualcosa che padroneggiavi?

G: Ho finito per padroneggiare qualcosa nella quale mi sono continuamente perfezionato.

L: Le volte precedenti abbiamo parlato dei tuoi inizi con cineromanzi per lo più storici…

G: Aspetta. Agli inizi io ho fatto anche il genere brillante, ricordatelo. Non hai citato “Non fumar la dinamite”, per esempio.

L: Anche di questo intendevo parlare oltre.

G: Uffa.

L: … Segue una fase con preponderante attività di illustratore.

G: Uhm.

L: E… ne abbiamo parlato… poi, nel 1970, si apre l’era de “Il commissario Spada”. E qui, ti devo dare atto, c’è un vero salto di qualità. Hai incominciato a fare sul serio.

G: Perché? Prima giocavo?

L: No, non volevo dire questo. Diciamo che hai cominciato, forse tuo malgrado, forse anche grazie ai soggetti di Gianluigi Gonano, a fare anche un fumetto di costume.

G: Piano. Prima cosa credi che facessi, con i cineromanzi ambientati nell’antico Egitto o nel mondo etrusco? Facevo un fumetto di costume però situato in altre epoche.

L: Mettiamola così allora. Solo con le storie de “Il Commissario Spada” hai fatto un fumetto di costume sul nostro tempo. E meno male. Così hai dovuto per forza confrontarti con la realtà vera, quella che ci prude addosso, per intenderci, e sei stato un po’ indotto a lasciare da parte i tuoi famosi santini… e anche questo benedetto discorso dell’arte per l’arte… Insomma hai fatto qualcosa che poteva anche essere preso per denuncia sociale.

G: Senti, non ricominciamo a dire scemenze, per favore.

L: Scusa: i testi de “Il commissario Spada” affrontavano temi come il nucleare, l’irredentismo corso, i dirottamenti aerei, per arrivare, nel 1979, addirittura al terrorismo… se non era denuncia sociale questa, se non era “impegno”…

G: E allora? Ci voleva la denuncia sociale per raggiungere questo “salto di qualità”, come lo definisci tu?

L: Cosa, se no?

G: Se tu reputi più efficaci le storie di Spada rispetto ad altre, significa solo una cosa: che in quel periodo era la mia mano a essere diventata più efficace. Non avevo vent’anni, andavo per i cinquanta. Dunque, se permetti, mi ero costruito la mia esperienza. Magari sui santini, come dici tu. Magari sui cineromanzi di ambientazione, come li etichetti tu. Ma in qualche modo il mio segno si era evoluto…

L: E va bene. Con “Il commissario Spada” è nato un poliziesco all’italiana, è stato detto. Riconosci questo merito a Gonano?

G: Questo ed altri, inclusa la sua irrequietezza perenne che alla fine gli ha impedito di portarlo avanti, questo poliziesco all’italiana. E così Spada è morto. Non mi sogno di ironizzare su Gonano. La sua inquietudine gli appartiene, e conosco le sofferenze che hanno preceduto certe scelte.

L: Sì, mi ricordo alcune telefonatine Roma-Milano e Milano-Roma della durata media di tre ore e mezza… avreste fatto prima ad incontrarvi a metà strada.

G: Si parlò anche di questa possibilità. Poi, le rispettive pigrizie, i rispettivi impegni…

L: Però procediamo con ordine, per favore. Nel suo primo episodio, “Il ladro di uranio”, il commissario Spada si presenta ai lettori con una certa faccia…

G: Quella di Gino Tomaselli, redattore del Giornalino. Mi era sembrata molto idonea per le esigenze del personaggio…

L: Fosti tu a proporgli la cosa?

G: Certo. Eravamo in buoni rapporti e da Milano mi mandarono infinite pose di Tomaselli.

L: Mi ricordo anche quelle. In bianco-nero, formato tredici-diciotto su carta lucida: tutte sparse sul tavolo… ma… perché decidesti di ispirarti a un modello in carne e ossa?

G: Te l’ho detto, per esigenze di veridicità. Sei tu che hai parlato di un fumetto di denuncia sociale. E adesso fingi di non capire?

L: Non capisco cosa potrebbe accomunare un tranquillo redattore di giornalino per ragazzi cattolici a un dinamico commissario di polizia…

G: La volontà degli autori di fare, del secondo, non un superman ma un uomo di strada. Un eroe borghese, se vuoi. Insomma, uno dei nostri. Era finita l’era degli invincibili. Ci era passato sopra il Sessantotto.

L: Tuttavia, questo primo Spada non durò molto.

G: Tomaselli iniziò a soffrire… di crisi di identità. Impalpabili equilibri redazionali suggerirono di farla finita, con la sua faccia in giro sulle pagine de Il Giornalino.

L: … E Gonano si inventò l’incidente.

G: Durante un inseguimento a bordo di una volante, Spada si ferisce gravemente sul volto. Sarà oggetto della quarta avventura (anzi della quinta, se includi un brevissimo intermezzo) dal titolo, appunto, “L’incidente”. Per alcuni episodi successivi a questo, Spada vivrà e opererà semibendato, a seguito di un’operazione di plastica facciale. Emergerà alla fine dal suo sudario completamente ricostruito. Una vicenda emblematica. Una metafora pirandelliana sul rapporto tra l’artista e la sua creatura…

L: Cioè?

G: Cioè su questo legame di dipendenza, anzi di figliolanza assoluta… ti cito Alfred Hitchcock, per esempio: “Il regista dei cartoni animati dispone sempre del cast migliore. Per forza: se non gli piace un attore, lo strappa… ” Non so in che senso parlasse Hitchcock, e non sono sicuro che non volesse sottolineare i vantaggi di cui disporrebbe il regista di animazione. In tal caso, avrebbe dimenticato la grave responsabilità del creare un tipo, un carattere dal nulla. È quello che succede all’autore di fumetti. Il personaggio è tutto nelle sue mani.

L: Sei un demiurgo, allora? Un… puparo?

G: Sì, non solo nei confronti del personaggio, ma anche nei confronti del suo ambiente, dei suoi comprimari, nel dosaggio della luce, nel montaggio ideale delle storie… altro che regia cinematografica.

L: Alludi ai montaggi inediti che hai inventato nelle storie di “Spada”?

G: C’è la carrellata, c’è la zoomata, c’è la tavola a sfondo unico con le suddivisioni in vignette… come vedi, è l’apparire stesso dei personaggi che appartiene al cartoonist, in un rapporto di dominio assoluto…

L: Ti senti quasi Dio?

G: Non dire scemenze. È, di nuovo, lo stesso arcanissimo dominio sulla Forma che torna a farsi sentire. A tal punto posso dominarla, da permettermi di inventare qualcosa che prima non esisteva. Con il personaggio Spada, in particolare, ho potuto fare di più: preferire a una forma realmente esistente, un’altra inesistente e consentirle di esistere. Mi chiedi se mi sento Dio? Forse qualcosa di più, perché non so se Dio, dopo aver creato Adamo, pensava di essersi divertito.

L: … “Vide che era cosa buona”… .

G: Anche il secondo “Spada” “fu cosa buona”.

L: Benché nato da un bel colpo di spugna…

G: Per costruire bisogna comunque distruggere. Fu una scelta inevitabile.

L: C’è qualcosa di tirannico nel mestiere del fumettaro così come lo descrivi tu.

G: Perché è un’altra possibile risposta alla solita tirannia della materia. Diciamo che il fumettaro è il contro- tiranno per eccellenza. Libera la propria forza espressiva dopo aver dominato i materiali, le forme…

L: Al momento di doverlo inventare da capo, su quali nuove basi progettasti il tuo “eroe borghese”?

G: Presi l’occasione per farne una maschera nel senso greco, un personaggio universale…

L: Che vuol dire “una maschera”?

G: Guarda la faccia di Spada. Guardala, per favore.

L: Senza che io la guardi. La conosco alla perfezione. Sei tu. Non nel senso che ti assomiglia, evidentemente… Però sei tu, in qualche modo.

G: Ogni autore è nelle cose che fa e in quanto le fa e non solo perché le fa.

L: Non bizantineggiare.

G: Dunque mi assomiglia?

L: Ora ti lusinghi?

G: No, sto cercando di capire.

L: Io penso che la faccia di Spada, così dura, tagliata con l’accetta, sia l’espressione di quel dominio di cui parlavi poco fa.

G: … Ma anche di un’apparente neutralità.

L: Certo. La neutralità della materia, che può diventare, in mano a chi la organizza, qualsiasi cosa.

G: Vedo che mi segui.

L: Spada come passe-partout?

G: In un certo senso…

L: Però è rimasto sempre e soltanto “il commissario”…

G: Un’altra delle mie opere incompiute. O delle mie cose nel cassetto, se preferisci.

L: C’è uno schizzo risalente al momento in cui cercavi di modificare il personaggio secondo una precisa plausibilità… fisiognomica, direi… hai capito a cosa alludo? All’evoluzione dei suoi profili…

G: Sì. Il problema era come inventarsi una faccia assolutamente nuova restando nei limiti di credibilità e di provenienza da quella vecchia. Insomma Spada doveva cambiare, ma non tanto da non restare imparentato col sé stesso di prima…

L: Hai fatto un vero studio di progressione anatomica. Sembra una di quelle schede sull’evoluzione dei primati…

G: Ti dò atto. Qualcosa del genere…

L: Sei profili. Il primo mostra quasi a raggi x il teschio sottostante.

G: Quello doveva restare il minimo comun denominatore…

L: Il secondo profilo mette in evidenza il naso schiacciato.

G: Nella storia, Gonano aveva immaginato un urto formidabile…

L: Nel terzo profilo, la cavità si riempie di una minima sporgenza.

G: Miracoli della chirurgia plastica…

L: Però intanto si affievolisce il lieve prognatismo di Tomaselli.

G: Miracoli di cui sopra.

L: Nel quinto profilo il naso è quasi come sarà nella sua forma definitiva, ben scolpito, tipo Burt Lancaster giovane… la bocca però sembra ancora gonfia…

G: Dai tempo al tempo. Niente si improvvisa…

L: Nel sesto profilo c’è il risultato finale.

G: Che te ne pare ?

L: Non so… non trovi che anche Spada soffra un po’ del rapporto col tempo in cui è nato? Mi spiego. Io trovo che… “il design della sua faccia”… (passami la parola) sia molto “anni Sessanta”… tempo fa mi citavi Zanuso, l’Italian Style… a volte i lineamenti di Spada mi ricordano le linee di un mobile MIM, per intenderci: così squadrato, modernista, essenziale… e perfino il balloon… in quel discorso generale di riorganizzazione stilistica e di innovazione del segno, ti inventasti perfino una nuvoletta nuova dai contorni squadrati. Una nuvola spigolosa, insomma. (Contraddittorio! La nuvola, per definizione, è o dovrebbe essere un che di soffice. Tanto più la nuvola parlante: dovrebbe suggerire l’impalpabilità delle voci, la loro forza di persuasione. Invece, evidentemente, o tu non hai colto questa forza simbolica della nuvoletta, oppure hai voluto dimenticartene per far prevalere il segno, la sua eleganza…)

G: Sei proprio fuori strada. Gli anni del primo Spada erano semmai gli anni dei ghirigori neoliberty, del fiorame hippy… dunque, nuvolette “spigolose” e faccia squadrata erano semmai un fatto controcorrente, per quell’epoca.

L: E allora vorresti far passare quella di Spada per una faccia “eterna”?

G: Non voglio farla passare. È stata la faccia di un commissario, in un certo periodo. Ma potrei farne un extraterrestre, un Gesù Cristo, un guerriero vichingo oppure l’uomo senza qualità…

L: Di tutti i tuoi personaggi, è il preferito, vero?

G: Se lo dicessi, mi inibirei la possibilità di risponderti che il mio preferito è quello che debbo ancora inventare, e che scalpita per uscire dal famoso cassetto delle idee…

L: E allora come la mettiamo?

G: La mettiamo così: Spada è un terreno in parte ancora da arare, in parte ancora da seminare. La sua faccia potrebbe prestarsi a successive, infinite manipolazioni.

L: Io proprio non riesco a capire, guarda. Perché Spada e non Gian Burrasca o Amleto o qualcun altro dei tuoi personaggi… ?

G: Perché Spada è una linea casualmente diventata faccia. E non c’è niente di più intellettuale della linea, ricordatelo…

L: Gli riconosci più essenzialità o più universalità ?

G: Entrambe le cose. Non capisci che sono in relazione?

L: Uhm.

G: Pensa a Topolino di Walt Disney.

L: Essenziale e anche universale?

G: Se vuoi. Ma anche in un senso molto tecnico.

L: E cioè?

G: Topolino si basa su una trovata assolutamente elementare (Il genio è sempre banale, ricordatelo: non fa che riscoprire la semplicità…).

L: E questa trovata sarebbe?

G: Sarebbero le orecchie.

L: Ma…

G: Pensaci. Che cosa sono, geometricamente parlando?

L: Due cerchi….

G: Due cerchi neri, esatto. In qualunque prospettiva venga visto il personaggio, qualsiasi movimento compia, i due cerchi neri sono sempre assolutamente uguali a se stessi. Questo semplifica enormemente il lavoro del disegnatore e inoltre identifica con assoluta certezza e riconoscibilità il personaggio. Senza che tu, lettore, te ne accorga. Topolino è sempre universalmente riconoscibile grazie a quei due cerchi neri… Capisci ora che cos’è il Disegno?

L: Non lo so… non proprio… ”la linea” essenziale di Spada allora ti ha facilitato?

G: Mi aspettavo questa domanda. Sì e no. Spada è una linea chiusa che può aprirsi a infinite sfumature.

L: A me fa pensare a una faccia “di sasso”. Non lo so, forse è la durezza di quel naso camuso…

G: Giusto. Un sasso o una conchiglia. Hai mai provato la scalfibilità della madreperla e, nello stesso tempo, l’impenetrabilità di certe valve a chiusura ermetica?

L: Ecco, sì. Spada è … ermetico.

G: Ma schiudibile a vantaggio di mille sfumature espressive… e penso di averne dato sufficiente prova.

L: Sì che l’hai data, accidenti. Soprattutto quando il semplice poliziesco all’italiana diventa, grazie alle storie, qualcos’altro…

G: Cioè?

L: Cioè si apre al problema dello scontro generazionale, per esempio… quel ragazzetto tredicenne, Mario, il figlio di Spada, strada facendo, cresce…

G: Poteva non crescere? Forse era Gonano che era alle prese con la sua personale evoluzione, coi suoi scontri generazionali, non so…

L: Di solito però non succede mai che i personaggi di un fumetto ad episodi evolvano insieme ai loro lettori… c’è invece il rischio, poi, di doverli far invecchiare… e invece il bello degli eroi di carta è che rimangono sempre eternamente giovani… e che un padre, se si rimette a leggere i giornaletti con suo figlio, può ritrovarci i personaggi della sua infanzia, assolutamente identici a come li ha lasciati… come vi siete messi, con questo stato di cose? Senza contare che, mentre avete fatto crescere Mario, vi siete ben guardati dal fare invecchiare suo padre… Non è stata un’incongruenza?

G: Se vuoi… ma che definirei piuttosto… ”licenza poetica”, passami l’espressione…

L: Un’ulteriore indizio del fatto che Spada, in quanto ermetico, è eterno?

G: Forse, chissà, anche io lo sono.

L: Ermetico o eterno?

G: Decidi tu. I miei disegni ti paiono ermetici?

L: No.

G: Non rimane che un’alternativa…

L: Sei eterno?

G: Fino a quando non muoio, nessuno potrà provare il contrario…

L: Non ti pare di esagerare?

G: Sai…

L: Il povero Mario invece è cresciuto… è entrato nel divenire, come tutti noi poveri mortali…

G: Dai, a parte gli scherzi. Evidentemente Mario è dovuto crescere perché rappresentava un tipo di generazione (per inciso la tua) che non poteva non crescere.

L: Insisto. Mentre la generazione del commissario (per inciso la tua) non invecchia mai, non cede di un millimetro, insomma è inamovibile?

G: Facile spirito. Hai capito che cosa voglio dire?

L: No.

G: Eravate i ragazzi del dopo Sessantotto… un magma in continua evoluzione. O sbaglio?

L: Non sbagli. Noi però non leggevamo “Il Commissario Spada”. Leggevamo “Corto Maltese”, “B.C.”, “Sturm-truppen”, i “Peanuts”, “Mafalda”… e non solo.

G: Leggevate quello che vi facevano leggere…

L: Che vuoi dire?

G: Quello che c’era sul mercato…

L: Se era sul mercato, ci sarà stata una ragione… che per esempio quelle arzigogolatissime domande di Mafalda riproponevano interrogativi veri di ragazzi veri di quell’epoca vera. O che i vagabondaggi di Corto erano espressione di quella stessa ansia di fuga già descritta, anni prima, da Kerouac…

G: Ah, sì?

L: Vedi… io credo che essere giovani non sia mai, come alcuni erroneamente presumono, una questione di intelligenza (tutti lo diventano, prima o poi, dopo essere stati bambini), tuttavia, nel caso della nostra generazione “diventare giovane” e restarlo per quei pochi anni che la giovinezza dura, forse fu particolarmente difficile.

G: Davvero? E perché, scusa?

L: Le domande però le faccio io.

G: Piantala di travestirti da Mafalda. Se no, non si procede di un millimetro. Non potresti spiegarmi i motivi del perché diventare giovane non è stato facile per voi?

L: E va bene, ma tanto li sai, i motivi. Noi… non abbiamo mai sentito cadere schegge di bombe a cinquanta metri.

G: Avete sentito altre bombe e altri spari.

L: Eccome se li abbiamo sentiti. Però, forse, lo sapevamo che quelle bombe e quegli spari lì erano per gioco.

G: Calabresi, Mattarella, Bachelet, Moro sono stati uccisi per gioco?

L: È che non siamo mai stati svegliati nel cuore della note dagli allarmi aerei. Non ci siamo mai dovuti vestire da avanguardisti o da giovani italiane… non lo dici sempre, tu stesso, e anche mamma? Non abbiamo mai sofferto la fame.

G: E allora?

L: Non so… abbiamo avuto un’infanzia fatta di Caroselli. Tutto sembrava facile, possibile, accessibile. Angelino, Gregorio guardiano del pretorio e Toto e Tata (altri cartoon, hai fatto caso?)… poi, qualcuno ci ha detto che tutto questo facile era una balla e che dovevamo buttarlo giù. Ma perché?

G: Alludi alla contestazione?

L: Alludo. Quella “moda” io non l’ho mai digerita. Gli hippies, la beat generation… per poi arrivare alle P 38.

G: Cosa ne sai?

L: So quello che basta. Conosco Oz e il Living Theatre, per esempio.

G: Ah sì. “Abbattere la barriera dell’arte”.

L: “Se l’arte non può essere usata per servire i bisogni del popolo, bisogna sbarazzarsene…” Era la stessa idea di Vittorini… però, in qualche cosa, è anche la tua idea… c’entra ancora il povero don Nicolino. O sbaglio?

G: Se mi occupo del cosiddetto popolo, è perché voglio occuparmene, perché so e sento di dovermene occupare, non perché me lo ordina un partito o un gruppo di appartenenza.

L: C’è un poeta della beat generation che ti assomiglia… incredibile, ma vero.

G: A me? E sarebbe?

L: Charles Olson…

G: Che mi dici di lui?

L: Aspetta, ti ritrovo una sua poesia… Gli piacevano le forme primitive…

“Nel ritmo è l’immagine

nell’immagine è la conoscenza

nella conoscenza c’è

un costrutto

oppure scoprire in una notte chi è che abita quella selva dove nascondono le forme

che sia questa donna o quest’uomo al cui volto diamo un nome,

quali spalle

mordiamo, su quale paesaggio

sagome cavalchino piccoli cavalli…”

G: Questi versi ti farebbero pensare a me?

L: Me li aveva passati Roberto Bastiani. Te lo ricordi?

G: Quello che si sparò?

L: Aveva diciannove anni.

G: Perché?

L: Perché cosa?

G: Perché si sparò?

L: Non ho fatto in tempo a chiederglielo. Forse non ha fatto in tempo a saperlo neppure lui. Forse si è sparato perché aveva diciannove anni.

G: Certi abissi non li sapremo mai.

L: Perché me lo dici?

G: Perché bisogna darsi pace.

L: Me la sono già data.

G: Che dicevi di quello lì, quell’Olson?

L: Che sotto un certo aspetto… per questa ricerca delle forme, per questo abbandono al buio… ti assomiglia.

G: Bah.

L: Comunque io non farò mai la difesa d’ufficio degli hippies, dei contestatori. Te l’ho detto, prima ero troppo piccola per capire. E dopo, sono diventata troppo vecchia per poter continuare a crederci.

G: Dopo, quando?

L: Dopo dieci anni, più o meno. Alludo al Parco Lambro, agli indiani metropolitani, ai freak, al convegno di Bologna… e anche a Roberto Bastiani. Tutto è andato in crisi prima ancora di potersi imporre… anzi… prima ancora di porsi… in questo casino era facile, secondo te, diventare giovane continuando a credere, a sperare in qualcosa?

G: E allora lo vedi? Mario, in fondo, ti assomiglia. Non poteva non crescere.

L: Fingi di scoprirlo soltanto adesso?

G: Cosa?

L: Lo sapevi benissimo che il vostro Mario mi assomigliava. Perché hai voluto tu che mi assomigliasse… non avresti desiderato un figlio maschio?

G: Che stai dicendo?

L: Sorvoliamo.

G: Se sorvoliamo continuamente, io non posso capire. E se non posso capire, non posso neppure difendermi…

L: E allora fermiamoci. Per disegnare la sua stanza (la stanza di Mario) non hai forse guardato la mia stanza?

G: E allora?

L: Togliti di dosso quel sorrisino, per piacere… e i personaggi degli ultimi episodi… i terroristi e i loro amici… non sono forse i miei amici?

G: Lascia perdere questo discorso. Qualcuno potrebbe risentirsi nel vedere la sua faccia addosso ad un personaggio come…

L: Ma falla finita, con questo perbenismo, con questa ipocrisia… credi davvero che la nostra generazione sia così bigotta? Così benpensante? Così irritabile?

G: Cerco solo di prevenire i problemi.

L: Potevi prevenirli non ispirandoti affatto ai miei amici, se temevi delle conseguenze. Oppure confidavi nel fatto che le storie de “Il commissario Spada”, loro,  non le avrebbero mai lette?

G: Parli sempre tanto per parlare…

L: Non credo. E poi ancora a proposito della mia stanza. Mi vuoi dire, di grazia, quando ti sei messo a riprenderla con tanta precisione di dettagli? L’immagine più esauriente del mio mondo privato risale all’episodio “Fantasmi”, del 1982… dov’ero, io, quando rifacevi alla perfezione la mia scrivania, i miei oggetti, i miei libri, i miei manifesti? Non mi ricordo di averti mai sorpreso a ritrarre tutto questo… ci venivi di notte?

G: Io di notte, per tua norma e regola, dormo. Dov’eri, dovrai dirmelo tu. Presumibilmente già non frequentavi più tanto quella stanza, questa casa… almeno non abbastanza da poterti accorgere…

L: Stai rimproverandomi?

G: Dovrei?

L: In quell’episodio, “Fantasmi”, Mario cerca invano di scrivere al padre per spiegargli le ragioni per le quali… se ne va di casa…

G: Tu di casa, evidentemente, te n’eri già andata. Senza neppure cercare di scrivere lettere.

L: Non me ne sono mai andata quanto avrei voluto. Non interamente.

G: E perché non l’hai fatto? Perché non hai fatto anche tu come Corto Maltese? Perché non ti sei trovata la tua bella storia a fumetti dove entrare da protagonista? Avanti, sentiamo.

L: Perché uno, di casa, non se ne va mai. E anche se se ne va, ci resta. Anche questa è la mia generazione. La generazione dei mancati calci in culo, degli sradicamenti impossibili. Ci avete dato troppo senza darci l’essenziale.

G: A fare i genitori si sbaglia comunque. Lo constaterai, tra qualche tempo.

L: Ci sono anche le eccezioni. Tu, per esempio, mi hai anche preso a stoccate. Anche troppo. E lo so io. Ma Spada, forse, e con lui tutti i padri della tua generazione… sono stati… colpevoli di un certo lassismo… e uno è sempre figlio della generazione che lo ha preceduto. Perciò certi hanno preso in braccio il mitra, perciò certi altri… si sono dati una revolverata.

G: Che dici?

L: Non lo so… mi ricordo una volta… il mea culpa di Paolo Villaggio, notoriamente di sinistra, circa l’educazione che aveva riservato al figlio. Era un mea culpa successivo alla scoperta che quel figlio si drogava da anni… Disse, più o meno testualmente: noi, esponenti di una certa cultura di sinistra, avremmo dovuto fare un po’ meno regali e distribuire un po’ più di schiaffoni…

G: Mi fa piacere, questo mea culpa, perché per anni, invece, la musica è stata tutta un’altra… sono stati anche certi padri di una certa sinistra a generare certi figli.

L: Terroristi? Tossici? Sbandati? Out?

G: Giudica tu.

L: Mario però non diventa mai un terrorista. È in rotta di collisione col padre, è un adolescente inquieto, alla fine entra anche in contatto con sbandati ed eversori, questo sì, ma il suo atteggiamento verso di loro è più che altro di curiosità, di comprensione, mi pare, infine quasi pietà… o no?

G: Quale doveva essere? Mario è l’eroe in seconda di un giornalino cattolico, ricordatelo…

L: A proposito. “Il commissario Spada” è stato l’unico fumetto che ha affrontato il tema del terrorismo italiano proprio degli anni di piombo… e proprio su un giornalino cattolico. Come te lo spieghi?

G: Non me lo spiego. È accaduto. Il fenomeno era troppo serio per essere trattato, altrove, a fumetti. Calcolo ideologico? Disinteresse? Non me lo spiego.

L: Io invece me lo spiego così: la cultura cattolica è la cultura del perdono anteposto a tutto. E il perdono è una risposta pronta e preconfezionata per qualsiasi interlocutore: il mafioso, il drogato, la prostituta, il politico corrotto e il ladro di polli. Ti ricordi Giovannino Bachelet ai funerali del padre?

G: Il tuo compagno?

L: Ci era venuto dall’America, a dare lezione di perdonismo. Con tutto ciò mi fece accapponare la pelle. Bene, mentre la cultura italiana si faceva le pippe mentali su come risolvere il problema etico del terrorismo (il black out informativo prima, i cosiddetti pentiti poi), la Chiesa e i cattolici avevano già bella e pronta la loro risposta universale: perdonare e comprendere, sempre. Ecco perché i tuoi preti non si sono posti il problema di come affrontare un argomento così scottante.

G: Tuttavia il tema fu Gonano ad affrontarlo.

vCome che sia. Come mai, nonostante questa bruciante attualità, di Spada non si era accorto nessuno?

G: Uno Yellow Kid lo chiami nessuno?

L: Non ci provare. So benissimo che lo Yellow Kid l’hai ricevuto nel 1971, quando “Spada” era nato da appena un anno e il terrorismo era un fenomeno ancora lontano dall’essersi consolidato…

G: Di “Spada” non si è accorto nessuno (e questo è ancora da dimostrare) in quanto di una certa editoria continua a non accorgersi nessuno. O quasi.

L: Qui si aprono le dolenti note. Non ti dà fastidio che la tua bravura resti così sommersa solo perché affidata alle imperscrutabili politiche editoriali del mondo cattolico? Anzi, in particolare, dei padri Paolini [N.d.R.: editori de Il Giornalino]?

G: No, non mi dà fastidio più di tanto. Io, lo sai, non cerco gli applausi. Io cerco di fare bene il mio lavoro. E questo è tutto.

L: Però, quella volta, lo Yellow Kid e gli applausi ad esso connessi, te li sei portati a casa. E anche altre volte, altri premi e altri applausi ti portasti a casa, e sempre col luccichino negli occhi. Vuoi negarlo?

G: Vuol dire che non è esattamente vero che di certe cose non si accorge nessuno…

L: E va bene… Il terrorismo, comunque, non è stato il solo tema “duro” affrontato da Gonano nelle sue storie. Ci fu anche la parapsicologia, oltre a quelli che citavo prima…

G: Gonano è un ipersensibile. E anche un giornalista, prendi nota. Che per anni non ha disdegnato di dedicarsi a quello che alcuni hanno definito un “genere minore”. D’altra parte vive e opera in una società, la nostra, che ha certi problemi. Le sue storie riflettevano naturalmente i problemi di questa società.

L: E il tuo segno si è adeguato?

G: Il mio segno ha raccontato, a sua volta, questa società in cui io pure, fino a prova contraria, vivo ed opero.

L: Allora tu ti lasci intaccare?

G: Non ho mai detto il contrario.

L: Torniamo al terrorismo di quegli anni. Cosa ha significato per te realizzare quelle storie in particolare?

G: Ha significato continuare a guardare la realtà. Io, certe scene, sono andato a riprendermele per strada. I tre episodi che tu hai citato sono usciti nel 1979; ciò significa che avevo iniziato a realizzarli almeno un anno prima, e cioè proprio nei giorni del sequestro Moro. E non ho bisogno di ricordarti cosa stavamo facendo in questa casa, quella mattina di via Fani.

L: Ma io ho piacere di ricordarmelo. Tu eri qui nello studio e lavoravi, come sempre. Io ero niente affatto fuori (guarda che combinazione!) ma in quella famosa stanza, accanto alla tua, a lavorare alla tesi di laurea. Le scariche di mitra le confusi col fracasso della mia macchina per scrivere… tu invece ti accorgesti… ci affacciammo, sentimmo le urla dei testimoni, la sgommata della macchina che correva via… poi accendesti la radio e… il resto è storia.

G: Ti ricordi cosa diventò, in quei mesi, questa zona?

L: Un quartier generale militare…

G: Per me, un’occasione unica di studio dal vero. Non facevo altro che guardarmi intorno. E poi i servizi in tivù, i giornali… era la realtà e io la raccontavo…

L: Guardando anche i miei amici, dicevamo…

G: I tuoi amici, tu stessa… il vostro modo di vestire, di atteggiarvi, di posare, di essere…

L: Raccontasti questo universo di eversori con la P 38 ispirandoti a noi che in fondo eravamo bravi ragazzi, che frequentavamo l’università…

G: Chissà. Forse i veri eversori siete stati voi.

L: Nel senso in cui qualche tempo fa, mi dicevi che “i veri rivoluzionari sono quelli che restano”?

G: In quel senso.

L: Allora non me ne sono poi andata troppo, da questa casa…

G: Tu hai detto poco fa che un figlio non se ne va mai abbastanza. Per un genitore invece un figlio non rimane mai abbastanza.

L: Sai cosa ho pensato, per un secondo?

G: Cosa?

L: Che noi siamo stati eversori in un altro, terribile senso. Più atroce di quello dei Savasta e dei Concutelli, dei Morucci e delle Faranda.

G: E sarebbe?

L: Noi non credevamo in niente, nemmeno a vent’anni. Noi siamo stati lucidi fin da subito, non ci siamo lasciati confondere. Né dal Sessantotto, né dal Settantotto. Né dalla guerra, né dalla pace. Né dagli ideali, né dalle proteste. Insomma siamo stati dei calcolatori, uomini e donne cibernetici. Per questo, per noi, diventare giovani non è stato facile.

G: Ora sei troppo impietosa verso te stessa.

L: No. Oggi ne sono certa. I veri terroristi siamo stati noi.

G: Che dici?

L: In quei giorni di bombe… ne esplodevano talmente tante… ti ricordi? Una scardinò la porta di un ufficio della Pretura… le auto rovesciate, tutti i vetri delle finestre a pezzi… un’altra esplose nello studio del Rettore, in piena notte, incendiando la biblioteca con tutti quei documenti… una alla stazione, un’altra sotto la casa di quel magistrato… come si chiamava? Senza contare i gambizzati, i feriti, gli uccisi eccellenti… […] Forse noialtri ci avevamo fatto il callo, come voi, quando vi cadevano le schegge di vetro sul terrazzo… Noi, i ragazzi cosiddetti per bene. Ma per bene di che?

G: Non esagerare.

L: Dimmi un po’… quelli delle P 38… mentre li disegnavi… che cosa pensavi di loro?

G: Che erano degli idealisti, gente che comunque credeva in quello che poteva e che sapeva…

L: Lo vedi? Contro-eroi. Tutti figli adottivi dell’Asso di Picche. Anch’io penso a loro con una specie di… compatimento. Gente debole, illusa… per decidere di imbracciare un mitra e sparare addosso a un magistrato, in fondo bisogna essere tenerelli…

G: E poi sono io che amo i paradossi?

L: Ti cito Ferdinando Camon: “Bisogna assolutamente avere un Cristo per commettere simili azioni. Occorre un Dio per recarsi in piazza e accendere il rogo…”.

G: “Non delitti, ma atti di giustizia…”

L: Allora conosci quel romanzo?

G: Ti stupisci? Mi chiedevi come mai non ho portato a termine i miei ritratti. Ma questa generazione, in qualche modo, io l’ho ritratta… Ed è stato come se non potessi fare a meno… Anzi, è questa generazione che è entrata nelle mie vignette…

L: Ti ricordi Gianni un amico?

G: Cosa?

L: Quella poesia…

G: Quella tua poesia…

L: Sì.

G: Raccontava… che cosa raccontava? Avevi sentito qualcosa alla radio, mi pare…

L: Avevo fatto una nottata su Kant con la radio accesa. C’era un tizio che al microfono leggeva poesie. Era “Studio 103”, mi pare… sai di queste radio coatte di periferia? Però era bravo… invocava telefonate… qualcuno che lo chiamasse per solidarietà…

G: Lo chiamasti tu?

L: … E subito dopo lo chiamò anche Marco, da casa sua. Disse: ho riconosciuto la voce di una mia amica… anche lui era insonne, sintonizzato sulla stessa radio. Così parlammo in tre, per telefono, per radio… che ne so?…

G: Ecco cosa facevi, quando ti pensavamo a letto…

L: Capirai. Visto che mi impedivate di uscire.

G: Non è vero.

L: Sì che è vero.

G: Sentiamo. Dove saresti andata?

L: Dove mi pareva. Dentro la notte. La notte è un posto così comodo, quando si è giovani.

G: Per fare che?

L: Per nascondersi. Inguattarsi, fingere di essere da un’altra parte, di appartenere a un altro mondo. Quella volta ci nascondemmo in tre in mezzo alle onde della radio, ci dicemmo delle cose. Fu bellissimo, perciò poi ci scrissi quella poesia…

G: Ma di cosa parlaste esattamente?

L: Lo sai di cosa, non fare lo gnorri. Quella poesia tu l’hai disegnata. Parlammo di tutto e di niente, di come eravamo, di come avremmo voluto diventare… di come sapevamo che non saremmo mai diventati. Quando ci hai disegnati… ci hai messo anche la radio… questa radio sì che mi piaceva… non come quello schizzo che mi facesti qualche anno dopo… hai fatto la radio immateriale, la radio delle onde che non si vedono, dei messaggi che vengono lanciati come in bottiglia, la radio delle disperazioni… mi piace quando disegni così. Perché non lo fai mai?

G: Perché non mi passi qualcuna delle tue poesie?

L: Non sono inesauribile. E poi, se ci tieni tanto…

G: Cosa?

L: Illustrale senza leggerle.

G: Sì, potrei provarci.

L: In quel disegno ce l’hai messo, un po’ di presente, un po’ di questa generazione di disperati… c’è anche Lucilla (che nel nostro incontro non c’era, c’era nelle cose che dicevamo). E poi c’è quel dialogo di niente… come hai fatto a disegnare certe cose che non sapevo nemmeno io?

G: E tu come hai fatto a scriverle senza saperle?

L: Se ti basta così poco per raccontare la verità, perché non lo fai più spesso?

G: Sei sicura che sia “poco”?

L: È questo che volevi dire quando dicevi che certi personaggi ci sono entrati da soli, nelle tue vignette?

G: E mi hanno fatto anche male, se è per questo. Mi stavano e mi stanno intorno, addosso. Tu, i tuoi amici… e lo sai quanto invece a me piacerebbe star solo…

L: Sì, capisco. Spaziare nei tuoi iperurani. Alla fine sei un’egoista.

G: Può darsi. Sono un “ego”…

L: No. Mi correggo. Sei un “altruistico egoista”.

G: Grazie!

L: Quand’è che loro ti hanno “fatto male”?

G: Dico per dire.

L: Mi viene in mente l’ultima tavola de “La grande confusione”, quando Franco canta la ballata di Valeria. C’è una specie di dissolvenza incrociata…

G: Valeria mi faceva pena. Volevo trattenerla, impedirle di andare a sparare.

L: Dove volevi trattenerla?

G: Nel passato. Non lo so. Un ceffone retroattivo. Volevo essere io Franco…

L: L’hai schiaffeggiata con la pietà di Franco che le si sovrappone… ma fino a quando ci si può sovrapporre a un altro…?

G: Fino a dove non lo so. Fino a dove l’altro te lo consente… qualcuno ha potuto sovrapporsi a Roberto Bastiani?

L: Franco era un bravo ragazzo. Era uno dei nostri. Gli hai dato la faccia di Bruno prima che Bruno si seppellisse in quella banca, prima che lo perdessimo di vista…

G: È diventato un funzionario?

L: Uno dei tanti.

G: Nessuno è dei tanti.

L: Lo sapevo già.

G: E allora perché dici certe cose?

L: E tu, perché hai fatto di Lucilla una terrorista? Lo sai che è andata a insegnare in un liceo?

G: Insegnare è fare del terrorismo d’altra specie.

L: La verità è che l’hai imbruttita, fatta crescere anzitempo. Bruno l’hai invecchiato e gli hai anche dato qualcosa… io… non so… un’ombra di sofferenza che non aveva nella realtà, almeno apparentemente…

G: erché parli di loro al passato?

L: Lo sai che ci siamo tutti persi. La giovinezza è una specie di mareggiata e adesso non farmi dire certe cose retoriche.

G: Non le dire.

L: Anche Pietro Tomasi… gli hai aggiunto una specie di saggezza…

G: Era lui che si tolse le scarpe alla cinese, quella volta della festa di laurea?

L: Sì, lui.

G: Bel rivoluzionario. Aveva un calzino bucato.

L: La rivoluzione non si misura dai buchi dei calzini.

G: Forse sì.

L: Io… io, se lo vuoi sapere, dopo aver visto le tue vignette, guardando i miei amici, li ho come… guardati per la prima volta, compresi i loro calzini bucati. E li ho riconosciuti. Anzi, ho come avuto la strana sensazione di averli visti (grazie a te che li conosci appena) davvero dentro.

G: Allora non ho fatto più santini?

L: Non lo so… nonostante le crudezze, tutti quei personaggi rimangono aggraziati, fluidi, leggeri. Non vorrei dirlo, ma in qualche cosa rimangono… angelici. All’epoca avevi già letto Camon?

G: Sai, quella che ti ho accennato essere la mia vista “a trecentosessanta gradi”, si vanta non solo dei famosi undici decimi, ma anche della capacità di vedere in profondità. E, in profondità, il peggior delinquente resta comunque un uomo.

L: Allora la pensi come me?

G: Cioè?

L: Che i terroristi, dentro, erano degni di rispetto?

G: Tirale tu le conclusioni.

L: Anche a questo serve il Disegno?

G: A cosa?

L: A vedere oltre le apparenze?

G: A cosa se no? Non ne avevamo già parlato? Non solo ciò che appare, è reale.

L: Forse le bombe ci hanno reso un po’ sordi.

G: Ah, davvero… te lo dico da quando hai l’età per capire. Guardati intorno…

L: Una cosa che non so fare.

G: Chi ti autorizza a dire certe cose?

L: Tu ti ostini soltanto a non voler vedere…

G: Infatti sono miope.

L: La miopia è un fatto mentale.

G: Uhm… chi ha detto che tu sei un reazionario?

L: Non lo so. Tu, forse, l’hai sempre dato per scontato. Einstein diceva che è più facile ‘spezzare l’atomo che spezzare un pregiudizio’.

G: Vedi? Tu hai questa vista di undici decimi e a trecentosessanta gradi. E chi vede lontano, te lo riconosco, tanto reazionario non può essere. Io invece sono miope. Quasi tutta la nostra generazione è miope. Che vorrà dire?

L: Forse che la razza umana sta degenerando. Forse, più semplicemente, che si allungano le distanze, e che pretendiamo di più dai nostri occhi…

G: O forse che non c’è più niente da vedere.

L: Ora bestemmi.

G: Lo so. Ho praticato il cinismo precoce.

L: Di precoce hai solo la parola. A volte è così rapida che ti precede e tu finisci per dire scemenze.

 

[Interruzione per la cena]

 

L: Adesso torno alle mie domande. Torno nel seminato. Così non rischio di dire scemenze. Dunque, le storie di “Spada” ti hanno offerto anche la possibilità del solito maniacale studio dal vero, e non solo nei giorni a via Fani. Alludo al vero… ”filologico”, di costume, analogo alle tue ricostruzioni sugli egiziani o sui vichinghi… mi ricordo le foto che prendevi delle gazzelle della polizia… e poi le divise dei carabinieri, la centrale operativa… e poi le signore al mercato e quelle coi bigodini in testa… e gli aerei di linea, e le aule di scuola…

G: Un mondo italiano. Era giusto, anche in questo caso, documentarsi. Un regista cinematografico si sarebbe affidato a uno scenografo, a un costumista… il fumettaro, invece lo sai, no? Ha solo le sue mani…

L: Ne convengo. Hai inventato anche una nuova tecnica grafica per raccontare la nebbia di Milano…

G: Il “pointillisme”?

L: Sì.

G: Mi sembra di avertelo già detto… la ricerca è continua…

L: Ho una curiosità… mentre Il Giornalino pubblicava “Spada”, in Italia impazzavano personaggi come quelli che ti ho citato prima e, per esempio, i “Peanuts”, (Charlie Brown, il cane Snoopy con la sua improbabile filosofia). Che cosa ne pensi?

G: Certi fenomeni editoriali, certe mode, io non le discuto, proprio in quanto mode.

L: Pensi davvero che fossero solo mode? Qualcuno ha detto che fu con quella moda dei “Peanuts” che il Fumetto cominciò a diventare un prodotto anche per adulti.

G: Per il fatto che quei personaggi parlavano di nevrosi? Come no? Ma tu non volevi da me un giudizio artistico?

L: Anche.

G: Questo dipende dal singolo caso. E in generale preferisco astenermi.

L: Vuol dire che giudichi i “Peanuts” artisticamente inqualificabili?

G: Di nuovo: che cos’è l’Arte?

L: Non puoi farmi di questi giochetti. Prima usi tu il termine “arte”, “artistico”, poi se lo uso io, mi cassi chiedendomi in che senso lo uso. Ma nel tuo senso!

G: Allora ti rispondo: i “Peanuts”, per esempio, sono un fumetto americano, nati da un autore americano, su un giornale americano. (Luogo d’origine, peraltro del fumetto contemporaneo, stando agli storici). Questo ti basti.

L: Non mi basta per niente, invece.

G: Dovrei riaprire il discorso del rapporto tra immagine e parola. Nei “Peanuts” sembra preponderante la parola, la riflessione astratta. Sembra, cioè del tutto irrilevante il disegno… è ancora Fumetto, questo? Non lo so, non so risponderti. Cosa e quanto c’entra, in questo l’Arte? Lo so ancora meno…

L: Il Fumetto autentico, secondo te, è sempre in quel delicato equilibrio fra immagine e parola?

G: Anche l’uomo è tutto in questo delicato equilibrio, pensaci un attimo.

L: Le mode e i successi, però seguono leggi tutte loro…

G: Perché lo racconti a me?

L: Perché mi dà molto fastidio che tu non abbia il successo che meriti. Con quelle capacità.

G: “Non ti curar di lor…”

L: Sei irritante.

G: Anche tu.

L: Non solo non fai nulla per avere quel successo, ma vuoi anche farmi credere che non te ne importi nulla.

G: È così. Io faccio il mio lavoro.

L: Perché non provi a vendere come Schultz o Manara?

G: Perché non mi piace vendere me stesso. Io non mi vendo. Io, semmai, vengo acquistato.

L: Però sei fiero di lavorare per un genere cosiddetto “minore”, anche in quanto questo genere si vende nelle edicole. Ti piace enormemente questa diffusione dell’arte di massa, sempre che di arte si tratti. O no?

G: Sì, certo. È il punto di forza dei nostri tempi, ne abbiamo straparlato. Benjamin lo conosci bene.

L: E allora perché questo orrore per l’autopubblicità? Perché questo masochismo al limite del suicidio professionale?

G: Perché pubblicizzarmi è una cosa che non mi piace fare, tutto qui. Io faccio quello che gli altri mi consentono, quello che il mio lavoro mi consente, ma soprattutto quello che mi consento io.

L: Spopoleresti…

G: Non mi interessa.

L: E io non ti credo.

G: Bontà tua.

L: Allora facciamo un’altra ipotesi. Pensi che anche le riflessioni del cane Snoopy potrebbero imporsi diversamente al pubblico se il loro autore le sapesse disegnare meglio di quanto non sappia?

G: In genere non discuto sui “se”. Certo, quel prodotto sarebbe diverso. Sicuramente avrebbe una commercializzazione diversa, un pubblico diverso, chissà. Magari inferiore, magari superiore all’attuale. Certo potrebbe risultare qualitativamente migliore, visto che passa (o presume di passare) attraverso il supporto dell’immagine. Anzi: attraverso un genere altamente popolare come il Fumetto, fatto, guarda caso, di parola e di immagine.

L: Ma quelle di Snoopy sono riflessioni filosofiche, immateriali, astratte…

G: Mi fai specie, tu e la tua Laurea in Filosofia Teoretica. Ti ho detto più di una volta che personalmente sarei in grado di illustrarti anche l’elenco del telefono. Figurati un sistema o un’idea filosofica. Non capisco perché l’elevatezza del tema dovrebbe impedirne una trattazione gradevole, artistica, insomma bella…

L: Dunque non c’è niente che potrebbe teoricamente resistere alla forza della tua matita?

G: Ti risponderò ricordandoti qualcosa che dovresti conoscere molto bene…

L: E sarebbe?

G: Il “tuo” Tommaso D’Aquino. Nisi est in intellectu, nisi prius fuerit in sensu…

L: Non c’è nulla, nella mente, che non sia passato, prima, attraverso i sensi…

G: Non c’è nulla, nella mente, che non sia stato prima nei sensi. È un primato vero e proprio. Perché fai prevalere la componente del tramite? Non è un “passare attraverso”, non è che i sensi siano un mezzo. Sono la sostanza prima e fondamentale del pensiero. Noi pensiamo perché sentiamo, perché annusiamo, perché ascoltiamo, perché gustiamo, e, prima ancora di tutto il resto, perché vediamo…

L: Ne sei convinto?

G: Assolutamente.

L: Allora i ciechi nati dovrebbero essere incapaci di pensare?

G: Non provocarmi. Sai benissimo che quelle sono situazioni-limite, nelle quali le persone formano le loro particolarissime immagini mentali, o nelle quali suppliscono con altri sensi a loro disposizione.

L: Tu sei convinto della primarietà assoluta del vedere. Io, invece, di quella di ascoltare. Non c’è scritto, da qualche parte, che “in principio era il Logos”, la parola?

G: È l’immagine che ha immediatezza e insieme forza persuasiva trascinante. Guardati intorno. I colori… le fotografie… i cartelloni pubblicitari… il primato dell’apparire… l’industria della moda… la televisione…

L: Perché tutto questo, secondo te?

G: Perché l’immagine è facile, diretta, non ha bisogno di traduzioni, colpisce direttamente il cervello, lo impressiona per contatto immediato… è affascinate… la vera fata Morgana dei nostri tempi. È solo attraverso l’immagine che si forma il pensiero.

L: È questo potere dell’immagine che ti fa un disegnatore convinto? O è il fatto di essere un disegnatore convinto (cioè bravissimo) a farti fautore della forza dell’immagine?

G: L’uovo o la gallina. Che ne so io? Per me è questa la sola cultura contemporanea. Quella del vedere. Ecco, di nuovo, perché il Fumetto.

L: Ecco perché l’ambiguità, anche.

G: Certo. Ma ecco allora perché bisogna saperci fare ed essere onesti. Ecco anche perché solo i giornaletti e non le gallerie d’arte. E perché per esempio, solo i giornaletti cattolici apparentemente trascurati dalla cultura dominante. Perché è dal principio che si comincia. O se preferisci, dagli ultimi. La cultura non sta da un’altra parte rispetto alla gente. L’arte è democratica non perché a farla sono quei quattro cosiddetti artisti (presuntuosi) che si definiscono per moda (bada bene) “democratrici”. Ma è democratrica per il fatto stesso che è arte, ovvero che è universale. Che senso ha un’arte per pochi?

L: Allora avevano ragione i figli dei fiori, nonché, da noi, il P.C.I.?

G: È l’artista che deve saperlo. Se non lo sa, non è un’artista. D’altra parte, se lo sa e dimostra di saperlo un po’ troppo, poi c’è sempre qualche imbecille pronto a giurare che L’ultima Cena di Leonardo è universalmente comprensibile perché Leonardo era un veterocomunista o un veterofascista.

L: Potresti escludere l’una cosa o l’altra?

G: No. Ma che cosa c’entra con L’ultima Cena?

L: Capito. Una pausa, per carità… non c’è un momento, un momento solo della tua giornata, in cui gioisci nel chiudere gli occhi?

G: Eccome. Quando sono stanco e me ne vado a dormire. Ah. Una bella dormita. Ora, se permetti, mi vado, per l’appunto, a buttare a letto…

L: Aspetta, ancora una cosa… Quando chiudi gli occhi, continui a vedere i tuoi personaggi? A progettare la tavola del giorno dopo?

G: No. Mi viene in mente quel pensiero della tradizione Vedanta: Gioite, gioite, sono cieco, non posso vedere il buio.

L: E allora?

G: Allora, anche se ho gli occhi chiusi, mi può capitare di sognare la luce definitiva. Sogno di essere morto e di recitarmi l’eterno riposo: “Risplenda a lui la luce perpetua”… Quella che illumina tutte le cose e tutte le forme e tutte le idee… A proposito: ti ricordi che cosa vuol dire, in greco, “idea”?

L: Dimmelo tu.

G: Te lo dico io perché tu non possa fingere di essertene dimenticata. Vuol dire “immagine”. Mi vuoi dire una volta per tutte perché hai smesso di disegnare?

L: Ho scoperto che mi divertivo di più a disegnare con le parole.

G: Te lo riconosco. Hai una prosa molto visiva.

L: Lo vedi? Sono una disegnatrice mancata.

G: Sei quello che sei.

L: Quella volta illustrasti Gianni un amico.

G: Fu un bell’esperimento. Le parole… non lo dici tu stessa?… sono desideri.

L: E i disegni?

G: I disegni, forse, sono ricordi. Di quello che sapevamo e che abbiamo dimenticato.

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