Sergio Gerasi è attivo come disegnatore di fumetti già da molti anni. Ha fatto il suo esordio nel 2000 su Lazarus Ledd, mettendo poi mano a numerose serie e miniserie Star Comics, come Jonathan Steele, Nemrod e Cornelio, per poi approdare su Dylan Dog nel 2011. Nel 2009, intanto, aveva disegnato G&G (ReNoir Comics), un omaggio a Giorgio Gaber scritto da Davide Barzi, che poi è diventato anche uno spettacolo teatrale.
In inverno le mie mani sapevano di mandarino, pubblicato da Bao, è il secondo libro da lui scritto e disegnato, dopo Le tragifavole (sempre per ReNoir). Una buona occasione, quindi, per fare il punto sul libro e il suo lavoro.
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Il tuo nuovo libro, In inverno le mie mani sapevano di mandarino, è apparso nella collana di Bao Publishing “Le città viste dall’alto”. La città che hai scelto è la tua, ovvero Milano: in che modo volevi che fosse presente all’interno dell’opera?
Milano è sicuramente molto presente, anche quando non è proprio Milano. Il protagonista, infatti, intraprende un viaggio per mare durante il quale si imbatterà in diverse città/isole che poi altro non sono che Milano rivista e corretta, smontata e rimontata in base alle necessità, per evidenziarne alcune prospettive (non architettoniche, ma concettuali). Non era mia intenzione, all’inizio, dare a Milano un ruolo così centrale, ma quando le storie che vivi hanno uno sfondo talmente delineato è inevitabile che questo ambiente si rifletta anche in quello che racconti. Quando ho iniziato a scrivere e pensare questo libro, peraltro, non sapevo nemmeno che sarebbe partita la collana di Bao.
In inverno è un lavoro incentrato sulla memoria e su quanto essa possa essere pericolosa. Quanto incide, nel tuo lavoro, la memoria, sia sul piano professionale che su quello intimo, personale?
Le due cose sono strettamente collegate: il livello intimo e personale, in un lavoro come questo, coincide spesso con quello lavorativo/espressivo. O comunque se i due livelli non coincidono sono adiacenti, consecutivi. La memoria conta, per quanto riguarda il lavoro del disegnatore, in generale moltissimo. Fissare immagini nella memoria è importantissimo per creare un bagaglio visivo personale da poter utilizzare alla bisogna durante la fase lavorativa, cioè nella fase di rielaborazione e di racconto per immagini. Non credo serva imparare la lezione “a memoria”, come si diceva un tempo: l’osservare e l’immagazzinare immagini ha la sola funzione di formare l’autore, sia che voglia raccontare per immagini sia che si voglia raccontare con le parole.
La memoria e la sua rappresentazione, nel tuo lavoro, sembrano aver trovato anche un vero e proprio linguaggio.
Immagino tu ti riferisca ai mostriciattoli colorati che si possono notare anche sulla copertina. Nello specifico rappresentano, in maniera ironica, i mostri che abbiamo dentro: i ricordi scomodi, i pensieri brutti che nascondiamo negli angoli bui. Qui per contrasto sono rappresentati colorati e vividi rispetto ad un ambiente grigio e cupo, ma il loro ruolo – mi spiace – rimane quello. Anche se sembrano simpatici.
All’interno del libro ci sono diversi riferimenti all’immaginario cinematografico (Memento in primis). Quanto incide il cinema sulle tue idee? E più in generale, quanto influenza il fumetto oggi, secondo te (penso anche al recente intervento di Manuele Fior sui riferimenti cinematografici nel suo L’intervista).
Sono due linguaggi strettamente connessi, inevitabilmente. Si influenzano a vicenda da sempre. Teniamo conto che gran parte degli storyboard di film sono realizzati da fumettisti.
Questo per dire che l’influenza non va in senso unico dal cinema al fumetto… certo, lo so, è evidente, ma è stato un colpo d’orgoglio, così d’istinto, ho sottolineato l’ovvio. Nel mio caso specifico si ritorna al discorso fatto su Milano e sulla memoria: fa tutto parte di un bagaglio di nozioni, suggestioni, visioni e racconti che l’esperienza, la vita, la letteratura e il cinema forniscono a chiunque voglia raccontare una storia. Starà alla bravura o meno dell’autore attingerne in maniera equilibrata e puntuale.
Parliamo dell’approccio. In inverno le mie mani sapevano di mandarino mescola un tono ironico con momenti profondamente toccanti. È un equilibrio ricercato?
Sì, è voluto. Esattamente come il contrasto tra stile di disegno e tematiche della storia. Mi piace procedere sempre per contrasti, credo stimolino l’interesse. Il mio, di sicuro. Non ho mai apprezzato le storie drammatiche che fanno solo piangere, ma nemmeno le storie leggere e le commedie che fanno solo ridere. Un mio grande punto di riferimento rimane Giorgio Gaber, come pensiero, come stile (di persona e di personaggio), come scrittura: in molti dei suoi monologhi o canzoni, inizialmente ridi, ridacchi, ti puoi anche sganasciare… ma prima della fine della canzone ti ritrovi inchiodato allo schienale della sedia, serio e pensi. Pensi a cose toste, drammatiche, serie… ma con ancora gli occhi umidi di risate.
Il sogno, insieme alla memoria, è una componente cruciale. Volutamente, credo, non permetti al lettore di comprendere quando una situazione è reale e quando no. Mescoli le carte. Dal mio punto di vista In inverno è un lungo dialogo con il sogno, con l’Io profondo del protagonista, che si aggira in un universo onirico popolato di personali fantasmi. Che ruolo ha il sogno, qui e altrove nel tuo lavoro?
Ha un ruolo fondamentale – tanto per dirne una, uno dei miei film preferiti è L’arte del sogno, per intenderci. Quando scrivo però non cerco di portare tutta la narrazione sull’onirico, mi piace procedere per immagini grottesche: per farti un esempio non mi interessa che nella realtà non si possa arrivare al mare dai navigli di Milano con una barca a vela vecchissima e mezza marcia… non cerco giustificazioni e scrivo immaginando che questo possa comunque avvenire. Questo mi permette di raccontare aspetti del reale in maniera metaforica e iperbolica. Il che fornisce un impatto più poetico ed emotivo alla storia. Almeno secondo i miei gusti.
Quanto c’è di te in Nani?
Tutto e niente. Tutto, perché penso sia chiaro come la storia nasca da un’esperienza personale e dolorosa. Niente, perché alla fin fine, dopo che la storia parte prende una strada tutta sua e non finisce come finisce la mia. Fortunatamente.
Sei anche batterista in una band punk rock. Quanto conta la musica, per il tuo lavoro?
Molto. Ascolto musica praticamente sempre. In questa stessa storia ci sono citazioni di canzoni: alcune più evidenti, esplicite, altre piuttosto nascoste dentro i dialoghi dei personaggi.
Il finale è un fuori campo potentissimo. Quanto conta l’immaginazione del lettore, ovvero: quanto conta il mostrato e il sottratto?
Tutto è strumentale a quello che devi raccontare: devi mostrare quando serve, puoi nascondere se serve. E se funziona. Il fumetto in ogni caso, di per se stesso, è sintesi e sottrazione. Per sua natura è un linguaggio che suggerisce: in un dialogo, in una scazzottata, in un inseguimento in macchina, in un’esplosione noi scegliamo sempre un momento, un frammento speciale delle azioni per cui poi il lettore può immaginare tante altre cose. L’importante secondo me, è cercare sempre le soluzioni che sono peculiari del linguaggio a fumetti: se ci pensi ci sono molte cose che in altra maniera non possono essere raccontate. Ecco, molto spesso nel fumetto si cerca di emulare la grande letteratura o le grandi produzioni cinematografiche d’oltreoceano: niente di più sbagliato secondo me, se raccontiamo sfruttando il linguaggio a pieno regime (e ne siamo ancora lontani) vinciamo. Altrimenti possiamo andare a fare altro: per esempio letteratura o grandi produzioni cinematografiche d’oltreoceano.