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Intervista a Roger Allers, il regista de Il Re Leone

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Il re leone usciva vent’anni fa nei cinema italiani. Pietra d’angolo dell’animazione statunitense, il film rappresenta l’apice qualitativo raggiunto dagli studi d’animazione Disney, all’epoca reduce da una serie di successi senza precedenti. L’anno successivo sarebbe uscito Toy Story – Il mondo dei giocattoli e la casa di Topolino avrebbe dovuto affrontare i suoi anni più turbolenti.

Sul film sono stati compilati saggi, scritti articoli e girati documentari e ogni particolare della lavorazione è stato ormai sviscerato.

Con Roger Allers, regista della pellicola, abbiamo invece parlato di quello è che successo dopo il film, l’impatto che ha avuto sulla sua vita, la sua carriera post-Il re leone e le sue idee sullo stato dell’animazione.

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Una caricatura dei registi Roger Allers e Rob Minkoff realizzata da Kirk Wise (co-regista de “La bella e la bestia”)

Il re leone compie 20 anni. Dopo tutto questo tempo, quale secondo te è stato – se c’è stato – l’impatto del film nell’ambito dell’animazione?

Be’, per quanto mi riguarda, mi ha messo in contatto con un enorme gruppo di persone sparse per il mondo. Ho ricevuto lettere in cui mi ringraziavano perché il film le aveva aiutate a venire a patti con una morte avvenuta nella loro famiglia. Inoltre, anche solo il fatto di essere associato al film mi ha aiutato molto. Mi ha portato al coinvolgimento con la versione teatrale del film (ho adattato la sceneggiatura insieme a Irene Mecchi), che si è rivelata una esperienza incredibile con il cast e gli spettatori di tutto il pianeta.

Torniamo all’inizio. Come è nata la tua passione per l’animazione? E cosa ti ha spinto a farla diventare un mestiere?

Mi sono innamorato dell’animazione da bambino. La magia! Quando avevo cinque anni mi innamorai di Peter Pan. Volevo volare, diventare un pirata; per me era tutto vero. È da quando avevo sei anni che ho pensato di diventare un animatore per la Walt Disney. Mi procurai persino un kit per l’animazione da Disneyland. Aveva la tavoletta luminosa, il libro delle istruzioni. Mi preparavo a diventare un auto-didatta.

Hai lavorato per molti studi, Lisberger Studios, Nelvada e altri. Ti piaceva lavorare lì o speravi fosse solo un trampolino per progetti più grandi? Hai anche preso parte alla lavorazione di Little Nemo, uno dei progetti più tormentati dell’animazione mondiale, stabilendoti a Tokyo per due anni. Com’è stato lavorare lì?

Ho iniziato ai Lisberger Studios a Boston e poi mi sono spostato con loro a Los Angeles. Ho amato ogni minuto passato a lavorarci! Erano tutte cose piccole, io ho sempre voluto realizzare film completi con storie e personaggi. Facemmo un film che non ebbe molto seguito e sviluppammo anche Tron che poi Steve Lisberger portò alla Disney (io ci arrivai molto più tardi). Alla Nelvada in Toronto lavorai a un film che poi non vide mai la luce (Rock & Rule). I miei due anni e mezzo di lavoro su Little Nemo neanche si vedono sullo schermo, per la maggior parte. Lo sviluppo della storia fu parecchio turbolento. Ma l’esperienza di vivere a Tokyo fu interessante. Mio figlio nacque lì.

Dopo Oliver & Co., quasi tutti i film Disney hanno avuto due registi. Come mai?

Penso sia stato per via della collaborazione tra John Musker e Ron Clements che aveva avuto un buon riscontro con i loro primi due film – Basil, l’investigatopo e La sirenetta – e i dirigenti pensarono “perché cambiare una cosa che funziona?”. In effetti aiuta poter dividere il carico di lavoro e spesso un sodalizio può trasformarsi in una collaborazione molto creativa.

Rob Minkoff, il tuo co-regista, ha dichiarato che dovesse rifare il film oggi lo stravolgerebbe. C’è qualcosa che cambieresti tu, del film?

Ho avuto l’opportunità di modificarlo per l’uscita in 3D, abbiamo cambiato il bilanciamento del colore di alcune scene che non mi convincevano in principio. Inoltre, insieme a Irene Mecchi ho adattato la storia per la versione teatrale. Per il resto, non ho davvero più interesse a rivisitare quel mondo. Sono pronto ad andare avanti e a pensare a cose nuove. Amo il film ma lo lascio esistere per conto proprio.

Una delle controversie più famosi riguardo al film è la somiglianza di storia e personaggi a quelli di Kimba, il leone bianco. Membri del cast e persino Roy Disney hanno – accidentalmente – menzionato l’opera di Tezuka. La teoria è che la Disney stesse tentando di acquistare i diritti per un remake ma le trattative saltarono. Durante la tua tenuta c’era mai stata una discussione in merito, a livello di influenze e rimandi?

È strano che tu faccia menzione di Roy Disney o del cast. Per tutto il tempo che lavorai al Re leone il nome di Kimba non venne mai menzionato. Io almeno non l’ho mai sentito. Non avevo mai visto quel cartone e lo conobbi solo dopo aver completato il film perché qualcuno me ne aveva mostrato delle immagini. Lavorai con George Scribner (il primo regista) e Linda Woolverton (la prima sceneggiatrice) per sviluppare la storia agli inizi ma poi me ne andai per aiutare il gruppo che stava lavorando su Aladdin. Se uno dei due aveva familiarità con Kimba non me lo dissero mai. Certo, è possibile comunque. Poi, quando ripresi le redini del progetto con Rob Minkoff, Irene Mecchi e Jonathan Roberts, molte idee vennero sviluppate o cambiate nel tempo, sempre nel tentativo di rendere la storia più solida. Posso certamente capire la rabbia dei creatori di Kimba per essersi sentiti derubati delle loro idee. Se fossi stato ispirato da Kimba l’avrei affermato pubblicato come fonte. Tutto quello che posso offrire è il mio rispetto agli artisti e dire che la loro creazione ha i suoi ammiratori e si è assicurata un posto nella storia dell’animazione.

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Ecco, proprio parlando della scrittura, in un film animato si parte da un’idea ma non si sviluppa mai un copione vero e proprio, piuttosto si costruisce la storia con gli story artist. Il re leone ha tre sceneggiatori accreditati (Linda Woolverton, Irene Mecchi e Jonathan Roberts) Quale fu il loro contributo?

Come ho detto prima, Linda Woolverton fu la prima a lavorarci con George nella prima fase. Loro misero sul piatto l’idea grezza della storia, anche se in seguito vennero apportati dei cambiamenti cruciali anche a quel nucleo di base. Quando io e Rob Minkoff diventammo i registi chiamammo Irene Mecchi e Jonathan Roberts come sceneggiatori. Devo dire che quest’ultimo gruppo costituì una vera e propria intesa creativa molto felice. Passammo molte sessioni di scrittura a risolvere problemi e a farci ridere l’uno con l’altro.

Anche tu, anni dopo, saresti stato rimpiazzato sul tuo film Kingdom of the Sun. Se si guarda The Sweatbox, il documentario che mostra il crollo del progetto e la sua rinascita come Le follie dell’imperatore, non ci sono grandi scontri. Che periodo è stato per te?

Kingdom of the Sun fu un’esperienza emotivamente devastante. Misi Quattro anni di energia e passione in quel film. Anche se posso essere sembrato calmo per la telecamera (come sempre cercavo di esserlo per gli artisti con cui lavoravo), dentro covavo una lotta caotica che è risultata nell’annichilimento. Stavo creando una pellicola dal tono epico che mischiasse elementi di avventura, commedia, amore e misticismo. Il capo della sezione dell’animazione della Disney [Peter Schneider] era spaventato dal fatto che stessimo facendo, secondo lui, troppi film in uno solo. Era anche a disagio con l’aspetto spirituale e culturale degli Inca. Per cui decise di farlo diventare una semplice commedia slapstick. Mantennero quel tanto di elementi che bastava (personaggi e cose del genere) da impedirmi di realizzare la mia versione del film da qualche altra parte. Avrebbe funzionato se avessi avuto più tempo? Forse sì, ma non si può mai sapere in queste cose.

The Sweatbox non è mai stato distribuito, eppure affronta argomenti scomodi tanto quanto Il risveglio della magia (Waking Sleeping Beauty).

The Sweatbox non faceva fare un gran figura ai dirigenti Disney, per questo l’hanno tenuto nel cassetto. Il risveglio della magia è stato fatto molti anni dopo, sotto una nuova amministrazione, è questo il motivo.

Oltre a Kingdom of the Sun sviluppasti qualcos’altro?

Sì, una fiaba irlandese basata sulla leggenda scozzese di Tam Lin. Lo feci per Roy Disney, che non aspettava altro che una storia irlandese (come me), ma Michael Eisner, l’amministratore capo della Disney all’epoca, era ai ferri corti con Roy su molte questioni e, quando presentai il progetto, lui lo rifiutò proprio per questa “irlandesità” (sapendo che era un film caro a Roy).

Dopodiché hai diretto il corto The Little Matchigirl e Boog & Elliot – A caccia di amici. Alcuni tuoi colleghi, dopo la fine del Rinascimento Disney, hanno traslocato alla Pixar o alla Dreamworks. A te non interessavano queste grandi compagnie?

Quando terminai i lavori su Boog & Elliot alla Sony mi ero stancato della politica dei grandi studi ed ero pronto a sviluppare qualcosa di mio fuori dal contesto hollywoodiano. Questo mi ha portato a scrivere un piccolo musical con i pupazzi per la Heifer Foundation, un ente benefico che si batte per la fame nel mondo, e l’adattamento de Il profeta di Kahlil Gibran (appena completato), e poi un musical teatrale su cui sto lavorando.

Cosa di quella “politica dei grandi studi” non ti piaceva?

Vedi, i tardi anni novanta sono stati un periodo difficile per me, perché non riuscivo a portare a termine niente, stando alla Disney. I capi del dipartimento animazione erano tutti presi dai successi dei musical a Broadway e non erano mai contenti di quello che invece veniva prodotto negli studi. Michael Eisner, il CEO, e Roy Disney, uno dei membri del consiglio d’amministrazione più influenti, nonché esperto d’animazione, iniziarono a combattere per affermare la propria visione della compagnia. Il risultato fu che alcuni film (tra cui il mio adattamento di Tam Lin) diventarono vittime di quella guerra. Alla Sony, i dirigenti che mi avevano invitato a dirigere il film basato sulla storia di Tam Lin non erano d’accordo sull’approccio del film dopo due anni di sviluppo. E dopo tutto questo lavoro abortito, fui contento di realizzare un corto come The Little Matchgirl, anche grazie al produttore Don Hahn (lo facemmo in segreto, l’unico modo possibile). Venne nominato per un Oscar, una bella dimostrazione di come si ottengano certi risultati senza l’influenza dei dirigenti.

Hai lavorato alla Disney in un periodo creativamente florido ma dove regnavano personalità ingombranti come Jeffrey Katzenberg ed Eisner. Credi che queste conflittualità abbiano in qualche modo favorito e incanalato le idee migliori nei film?

No, non credo che i conflitti tra le alte sfere conducano a idee migliori, mai. Portano semmai a fallimenti e sprechi da parte degli artisti e degli scrittori che soffrono i danni causati da questi titani battaglianti. I progetti vengono cancellati, vengono dati ordini contrastanti. È solo caos. Disfunzionale.

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Roger Allers e Sting, durante la lavorazione de “Kingdom in the Sun”

Frozen – Il regno di ghiaccio, che pure presenta delle atipicità per un prodotto Disney, è stato da molti paragonato al Re leone da un punto di vista strutturale. Dopo tutti questi anni si torna sempre a quel modello di riferimento. Pensi sia una necessità di giocare sul sicuro da parte degli studi d’animazione?

Per dare credito ai realizzatori di Frozen, senza per questo voler dire la mia sul film, tutti quelli coinvolti nella creazione di una storia fanno il possibile per farla funzionare. Una buona storia è la sfida più difficile. Si provano – e si scartano – molte idee diverse alla ricerca del sentiero giusto. Non penso che i creatori vogliano mai imitare qualcuno. Detto questo, spesso i dirigenti degli studi si innervosiscono e insistono per inserire gli “spiegoni” o per utilizzare strutture che sono troppo palesi per i loro creatori (e, a volte, come hai ben spiegato tu, al pubblico).

A te il film è piaciuto?

Ne ho apprezzato il design e l’animazione della neve, bellissima. Sono contento del successo che hanno ottenuto i loro realizzatori.

Hai diretto Boog & Elliot con la tecnica della computer grafica. Come regista, quali sono i pro e i contro da tecnica rispetto a quella tradizionale e quale, secondo te, è quello più vicino alla tua idea di animazione?

Nel caso in cui io debba lavorare con la CGI, la sfida è sempre creare delle buone forme (con delle silhouette precise e chiare) per aumentare la fluidità dell’azione. È molto più difficile creare un buon stretch and squash [gergo per definire quella tecnica per cui un personaggio viene deformato dall’animazione come fosse di gomma, venendo “allungato e schiacciato”], mentre con l’animazione a mano è tutto veloce e intuitivo. Con il computer combatti sempre delle lotte contro le limitazioni. L’animazione a mano è più libera. Detto questo, la CGI offre superfici tattili meravigliose e ti dà l’opportunità di muovere la cinepresa in uno spazio virtuale in tre dimensioni. Personalmente, per il mio retroterra di artista tradizionale e per i film con cui sono cresciuto, tendo a favorire l’animazione tradizione. Amo quella firma personale che accompagna la mano dell’artista.

Pensi che l’animazione di oggi manchi di qualcosa? Perché c’è questo senso di omogeneità, di un unico grande gusto, dovuto al fatto di non guardare all’animazione come a un mezzo ma come a un genere. Nel cinema dal vivo hai tutti i tipi di film, dal kolossal all’indipendente. Nell’animazione non c’è il concetto di “cinema indipendente”. O, meglio, c’è ma non ha la stessa visibilità della sua controparte dal vivo.

Penso che in realtà ci siano questi “gusti” diversi, come dici tu, nell’animazione di oggi. Il contrasto tra l’atmosfera grandiosa di Dragon Trainer 1 e 2 e la qualità intimista e bizzarra di Boxtrolls. Poi aggiungici Si alza il vento di Miyazaki o L’illusionista di Chomet e direi che ci sono film animati che esprimono umori e tecniche diverse. Però, sì, vorrei che il pubblico di tutto il mondo vedesse più animazione indipendente, sia lungometraggi sia corti.

Parlando di film indipendenti, il tuo nuovo film Il profeta è uno di questi. Come sei arrivato al progetto?

Ecco, proprio parlando di film indie! Abbiamo un sacco di artisti internazionali che hanno contribuito al film con il loro stile per illustrare i poemi presenti nel libro. I produttori sono venuti da me perché avevano deciso che il film aveva bisogno di una storia cornice su cui appendere i vari segmenti e dare una linea narrativa (il libro non ha una vera e propria narrazione) per aiutare il pubblico nel cammino verso la filosofia di Gibran. Il mio lavoro è stato quello, quindi. Ho accettato perché il libro ha significato così tanto per me durante la mia giovinezza. In maniera molto profonda. È stata una sfida interessante quella di inventarsi una storia che potesse essere apprezzata da tutto il pubblico, di tutte le età, e li conducesse gentilmente da un poema all’altro, e anche di trovare una maniera per rendere la transizione più liscia possibile. È stata un’esperienza fantastica, lavorare con tutti quegli artisti, e sono così contento del risultato finale che non vedo l’ora di condividerlo con il pubblico.

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Salma Hayek, la produttrice del film, ha parlato dei problemi del film e dell’impiego di una tecnica d’animazione diversa per animare I segmenti di raccordo. È stata una produzione difficile?

Molto. Intanto per ragioni di tempo e budget, avevamo poco di entrambi. E poi perché dovemmo rifare tutte le animazioni con una nuova tecnica a metà della produzione. Per far combaciare i concept originali (e lo stile ad acquerello degli sfondi) hanno trasferito I personaggi creandone una versione digitale, grazie a un processo chiamato ToonShading, che appiattisce i personaggi e assegna loro delle linee interne ed esterne per farli sembrare animazione tradizionale. Poi un team di animatori molto bravi ha lavorato su quei personaggi per rimettere qualsiasi dettaglio perso nel processo di transizione, oltre che a imbellire e arricchire l’animazione in sé, rendendola più piena ed espressiva. Tutto questo in metà del tempo che ci era stato assegnato.

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