Stefano me lo ricordo bene, mi tornano alla mente delle conversazioni, avvenute tra Lucca, Roma, Bologna, oltre trent’anni fa. A quel Lucca Comics del 1980, c’eravamo tutti. Noi di Valvoline, che allora era solo un gruppo di amici e loro di Cannibale, che cominciavamo a frequentare. Erano trascorsi tre anni dalla bomba culturale del punk, e lui, che tutti chiamavamo Tamburo, abbandonati i fasti di quella stagione iconoclasta aveva chiuso l’esperienza di Cannibale.
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Era nata Frigidaire. Una rivista di grande formato, in technicolor, che serviva uno sguardo ironico, ostile, cinico. L’oceano della new wave che aveva contaminato il punk con istanze musicalmente più colte e “oblique” elettrizzava lui e tutti noi, che ascoltavamo i dischi come se andassimo all’università. Era quella la nostra scuola. Buttati nel cesso gli idoli ora ci si nutriva di idee, progetti, visioni.
Il guru Brian Eno, aveva segnato la strada, e, abbandonati i Roxy Music, aveva dimostrato che ci si può reinventare, le sue teorie sperimentali sul “non musicista” avevano fatto strada. In veste di produttore aveva cominciato una ricerca di nuovi talenti. Erano nati gli Ultravox, i Devo, i Contortions, i DNA, i Talking Heads, Michael Nyman, Harold Budd, la Penguin Cafe Orchestra, e decine di altre realtà. Questo ci dava la febbre, influenzava noi fumettisti, con l’idea che un lavoro è importante, ma che la scena, lo scenario artistico in cui questo sorge, è tutto.
Stefano poi, sulle orme delle avanguardie storiche, aveva riportato la grafica a modello di moderna narrazione. Lui non si limitava a mettere in bella copia foto e articoli, semplicemente disegnava la rivista esteticamente e concettualmente. E lo faceva in un modo del tutto poetico (la parola lo avrebbe fatto incazzare, lo so) con forbici da sarta e smalti da modellismo che lasciava colare su fogli di nylon, poi righe e righelli di diversi spessori. Con quei tre attrezzi aveva reinventato un approccio, rigorosamente “non tecnico”. Noi tutti, che cercavamo un segno, possibilmente glaciale, possibilmente geometrico, comunque distante, lo amavamo.
E lui era nostro fratello. Il nostro fratello coatto. Era l’epoca del “tutto è stato detto”, occorreva smontare il giocattolo del grande racconto, e fioccavano i riferimenti e le reinvenzioni di tutto ciò che ci aveva nutrito da ragazzi. I fumetti criminal-popolari, la letteratura hard boiled, i supereroi, il cinema che aveva cantato certa violenza metropolitana, Godzilla, la fantascienza post tutto, Ballard, Vonnegut, Dick, passando per Burroughs e la disillusione Beat. La pop, il mito Decò, Mondrian, l’espressionismo astratto, il rock’n’roll, il free.
Non che parlassimo molto dell’Uomo Ragno, io e Stefano, era uno sguardo distante quello che ci interessava, rivolto al ritmo pulsante del nuovo cinismo grafico. Lui, a Lucca, stesso anno di Frigo, aveva apprezzato le campiture polari dei miei neri piatti, osservando il numero unico di Pingino Studios, fuori serie, autoprodotto, da me, Mattotti e Carpinteri. E aveva poi stravisto per Carpinteri, arruolandolo seduta stante per Frigidaire. La musica era il nostro background comune, parlavamo la stessa lingua. E lui, Tamburo, era il più moderno del suo gruppo, quello che aveva capito.
Tamburini era questo, uno capace di mettersi in gioco, di far fruttare trilioni di dollari il suo talento zoppo di disegnatore, inventandosi personaggi memorabili, definizioni sceme che noi tutti ripetevamo divertiti (gli “studelinquenti”, lo avrei baciato in fronte). Parlavamo di Magnus, con lui, che ci piaceva molto, e che lui avrebbe chiamato subito dopo per Frigidaire. Di storie da fare, di come farle. Lui faceva la grafica per una ditta di medicinali, e questo ci sembrava il massimo della trasgressione. Lui, mimetizzato da “grafico innocuo”. Ha ha ha. Ridevamo come scemi.
Una sera mi telefonò, faceva una mostra al Navile di Bologna. Una sua mostra personale, era emozionato. Andai a trovarlo, a chiacchierare. Io avevo voglia di farlo giocare con le mie immagini, parlammo di fare un remix de Il letargo dei sentimenti, la mia storia allora più importante. Tamburo alle forbici, gli avrei lasciato fare qualsiasi cosa. Era nel pieno del suo fulgore, Snake Agent, in cui strapazzava i fumetti di Mel Graff per riscrivere il fumetto anni ’40, versione capovolta. Versione sua. E per la mostra avevano appena stampato, in serigrafia, un suo disegno celebre che raffigurava due personaggi davanti a un grande dipinto di Roy Lichtenstein, l’artista pop che ingrandiva i fumetti. I due personaggi dicevano “Vendiamoci il Lichtenstein” e l’altro rispondeva: “E’ falso”. E il primo: “Perché, noi siamo veri?” Io sorridevo, ma per quella manifestazione di genio ironico mi commuovevo come un vitello. Anche se lo so, questo lo faceva incazzare.
*Questo articolo è scritto da Igort e farà parte di un libro di prossima pubblicazione intitolato My Generation.