Povero Carlo, cane straccione. Spelacchiato, vessato, mal considerato dai suoi padroni, rappresenta bene certi stereotipi – in un clima ancora dickensiano – che nel tardo Ottocento descrivevano lo sguardo cittadino sul mondo delle campagne. Eppure, in questa breve storia di A.B. Frost, rimasto nella memoria degli appassionati come un grande illustratore dell’America rurale e di scenette di caccia e sport, c’è ben altro: il disegno. In particolare, quella nuova frontiera del disegno narrativo – ciò che in seguito sarà chiamato fumetto – che si venne a definire negli ultimi decenni del XIX secolo: un passaggio tecnologico e insieme estetico, verificatosi all’incrocio tra la crisi delle antiche tecniche di riproduzione delle immagini disegnate e il boom degli esperimenti fotografici precursori del cinema.
Nato a Philadelphia, da mero impiegato litografo Arthur Burdett Frost (1851-1928) raggiunge il successo nel 1874 con le illustrazioni (400 incisioni su legno) di Out of the Hurly-Burly. Viene quindi assunto nel 1876 dall’editore Harper & Brothers, diventando uno dei disegnatori di punta per riviste letterarie, da «Harper’s New Monthly Magazine» a «Scribner’s Magazine», accanto ai grandi dell’epoca come Howard Pyle o Frederic Remington. Illustrerà oltre novanta libri, fra cui i sette volumi dell’Uncle Remus di Joel Chandler Harris, testi di Charles Dickens e di Mark Twain. Lewis Carroll in persona lo chiamerà per la sua raccolta di poesie Rhyme? And Reason? (1883).
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Nel corso della carriera, Frost fu un modello di humour e versatilità stilistica, in grado di passare dal disegno umoristico di scuola newyorkese al realismo degli illustratori-reporter, a un grottesco vicino a Grandville o Gustave Doré. Ma fu grazie alla curiosità per le nuove tecnologie di riproduzione delle immagini che trovò la strada per cui lo ricordiamo (noi come già Winsor McCay, suo estimatore) non solo tra i protagonisti della cosiddetta Golden Age americana, ma anche tra i più grandi innovatori nella storia del fumetto.
Nonostante le «storie disegnate» siano in numero minore rispetto alla sua vasta produzione di illustrazioni – ne pubblicò infatti solo tre raccolte: Stuff and Nonsense (1884), The Bull Calf and Other Tales (1892) e Carlo (1913) – Frost investì grande impegno e passione nei fumetti. Soprattutto, ne fece il terreno di elezione per la propria ricerca artistica, incentrata intorno a due sfide ideali: la resa a stampa del disegno a mano libera, e la velocità dell’azione rappresentata in una serie di vignette.
Sul primo fronte, Frost fu un perfetto esempio della transizione dalla tecnica dell’incisione d’arte, ovvero su metallo (come l’acquaforte), all’incisione su legno, di tipo xilografico. Per secoli, da Rubens a Bruegel a Hogarth, l’incisione su metallo – costosa e le cui matrici erano poco riutilizzabili – aveva generato immagini dense di informazioni, affollate da segni e tratteggi. Una eleganza rigida, da cui già il pioniere del fumetto Rodolphe Töpffer si era allontanato negli anni Trenta dell’Ottocento, optando per un procedimento di litografia un po’ «rustico», ovvero la riproduzione per auto- grafia di un disegno originale al tratto. La xilografia, tecnica più economica e con matrici utilizzabili anche per alte tirature, si diffuse molto nell’editoria popolare soppiantando nella seconda metà del XIX secolo la vecchia estetica dell’illustrazione. Nella sua ricerca di un linguaggio grafico più vivace, Frost predilige inizialmente la xilografia e contribuisce ad affermarne e affinarne la nuova estetica: uno stile schizzato, nervoso, rapido. Con Frost – nel solco del grafomane Töpffer più che in quello del pupazzettistico Busch – il disegno a mano libera diventa centrale: l’occhio del lettore di fumetti non deve perdersi in dettagli inutili, per seguire un racconto che «descrive una autentica curva di attivazione, una traiettoria dinamica fatta di crescendo, cadute, shock e soprassalti», come ha notato il fumettologo Thierry Smolderen.
Tuttavia, la xilografia era pur sempre una tecnica di riproduzione allografica: il disegno originale doveva essere trasferito sulla matrice lignea, e quindi copiato da mani diverse, di più o meno dotati artigiani. Come fare, dunque, per rendere sulla carta (con procedimenti meccanici e in serie) la spontaneità del disegno a mano libera? La risposta era nella tecnologia fotografica, cui Frost si ispirò per tutta la fase matura della carriera. Ad essa era arrivato tramite gli interessi del suo maestro, il pittore Thomas Eakins, presso il quale studiò dal 1878 al 1883, e grazie alle stesse riviste per cui lavorava, molto attente agli esperimenti di Eadweard Muybridge con la cronofotografia.
In Stuff and Nonsense, Frost sperimentò la riproduzione per zincografia, un procedimento fotografico in cui un negativo originale del disegno al pennello viene stampato in positivo su un’emulsione sensibile posta su un foglio di zinco, poi inciso all’acquaforte. Il risultato è una specie di facsimile del disegno a mano libera. In seguito, si concentrò su un altro aspetto: le trasformazioni dinamiche da un’immagine all’altra, così come erano proposte dalle serie di tavole cronofotografiche di Muybridge (come la celebre scomposizione dei movimenti di The Horse in Motion, del 1881). Proprio queste esperienze alimentarono le sue nuove direzioni di ricerca. La prima è quella verso il dinamismo, con la scelta di istanti precisi, gesti, scatti utili a fissare il tempo in modo diverso dal passato, quasi interstiziale: non più pose plastiche, ma istanti rubati, inquadrature libere, angoli insoliti (in Carlo, basti guardare alle tante azioni-reazioni del cane). La seconda è verso la ripetizione: l’attenzione non è più su sin- gole scene ricche di dettagli e tessiture da esplorare con lo sguardo, Frost riduce gli sfondi al minimo, li ripete, e si concentra sulle trasformazioni nell’«intervallo» fra le vignette (in Carlo si riscontra nella storia con il cagnolino Fifì, nella lunga corsa del cane accanto alla staccionata e in molte altre sequenze).
Insistendo sulla spontaneità ed esplorando con ironia la scomposizione di Muybridge, Frost coglie nella disposizione regolare delle immagini schizzate – in alcune sequenze a fumetti che fanno esplicitamente il verso alle tavole cronofotografiche, come nell’esempio qui sopra, ovvero il suo secondo fumetto pubblicato su Harper’s, in cui la ripetizione grafica è decisiva per l’effetto narrativo – il dispositivo centrale per segnare il tempo (il ritmo) nel fumetto, che rende possibile l’emergere di una «curva d’attivazione» o rottura. Carlo, opera di un autore ormai maturo, serve più a convalidare che a innovarne il percorso. Eppure, la sua semplicità formale appare come una conferma finale: una vignetta alla volta, ma parte di un progetto di arte sequenziale, che si sfoglia con una fluidità tutta moderna, quasi fosse un flip book.
*Questo testo appare come Introduzione al volume Carlo il cane della nuova collana “Il Segno”, di Castelvecchi editore.