Altro che “spaghetti manga”. C’era una volta la Manga Invasion, come dicono gli americani. Presenti sul territorio italiano già negli anni Settanta, l’inizio dell’invasione dei manga è canonicamente riconosciuta con l’arrivo di Akira, edito nel 1990 grazie ai tipi della Glénat. Ma a partire dagli anni Duemila, una generazione dopo, diversi fumettisti italiani hanno iniziato a creare lavori fortemente ispirati dalla narrazione e dal disegno dei fumetti giapponesi. L’etichetta spaghetti manga è stata loro affibbiata spesso in toni dispregiativi – e a dire il vero in molti casi giustamente, vista l’approssimazione con cui si cercava di copiare lo “stile manga”.
Oggi, però, i figli del manga sono cresciuti. E finita l’infatuazione culturale, forse anche cambiati. Per questo la qualità degli odierni manga italiani sembra essere sempre più alta, ed il filone attrae ormai autori di indubbio talento, sia tra quelli già affermati che tra i professionisti a inizio carriera: basti pensare Lrnz, di cui Bao Publishing sta per pubblicare l’atteso Golem, o ad Angela Vianello, autrice di Aeon (Shockdom).
Durante la scorsa edizione di Lucca Comics and Games, un dibattito del ciclo Comics Talks, intitolato Il manga visto da lontano e condotto da Matteo Stefanelli, ha affrontato questo fenomeno chiamando a raccolta alcuni autori tra i più interessanti impegnati nel “manga italiano”: Luca Vanzella (autore, con Luca Genovese, di Beta, manga di genere mecha), Mauro Cao (The Promise, spokon manga pubblicato dal marchio specializzato Manga Senpai, e Zedd, nell’antologia Yang di Shockdom) e Vincenzo Filosa (autore pubblicato da Ernest e Canicola).
Il panel ha evidenziato come l’industria si sia evoluta a uno stadio in cui alcuni autori hanno assorbito talmente il linguaggio asiatico da apparire quasi “giapponesi”, più che europei che mescolano gli stili come faceva il fusion manga di Barbucci e Canepa. La loro è una generazione che ha scoperto il Giappone grazie all’animazione, e si è poi spostata sulle opere cartacee. Tra le loro prime letture: Ranma ½, Ken il guerriero e Le bizzarre avventure di JoJo. «Per me il punto d’inizio è la produzione comica alla Ranma,» ha raccontato Vanzella «perché era come fosse animazione che puoi fare tu, senza aver bisogno di squadre di animatori».
L’immaginario di Filosa si è invece formato grazie a Gō Nagai. Dopo un periodo di disinteresse verso quel tipo di manga, il fumettista ha scoperto le opere incentrate su storie di vita vissuta, il gekiga alla Tatsumi, anche grazie ai suoi studi: «Ho creduto, per un breve periodo, che il manga fosse roba per ragazzini. Intorno ai 19 anni mi sono poi avvicinato al fumetto alternativo italiano. All’università ho studiato lingue orientali, perché… mi piacevano i gruppi rock giapponesi. Sono quindi arrivato alla letteratura giapponese, e da lì è partito il mio amore. Ci sono quindi arrivato solo attraverso la cultura, e ho capito quanto fossero profondi, quanta vita giapponese ci fosse in quei prodotti.»
Anche Cao deve la sua passione a un aspetto avulso dai fumetti: «Facevo judo, e avevo un amore forte per questo mondo così diverso, anche se per me era vicino. Per caso comprai il numero 15 di Le bizzarre avventure di JoJo. Fu qualcosa di speciale: quel tipo di disegno era profondamente comunicativo, aveva un impatto diverso, anche grazie alle anatomie forzate di Araki. Grazie al judo mi sono avvicinato a quel tipo di cultura. Ho cominciato a studiare tutto quanto e grazie a Internet ho avuto la fortuna di rompere le scatole a mezza nazionale giapponese di judo. A che ora si alzavano, come ci si allenava, cosa mangiavano. Cose sciocche, ma che per me erano bellissime». «Ecco,» lo ha interrotto Filosa «Questo per me è vero manga. Il modo in cui sta raccontando la sua vita: è già un manga». La forza del manga, secondo i tre autori, sta proprio nell’enorme quantità di vita che riescono a infondere nelle loro pagine. E, in particolare, alla grande varietà delle esperienze vissute. Per ogni tipo di persona esiste un fumetto: «Se sono un cuoco di 25 anni thailandese, c’è un fumetto che racconta la mia vita. Il manga è vita, una cosa completamente integrata alla loro cultura. Il manga racconta sempre la vita, la cultura giapponese, la società. Penso ai Bonelli e alla Marvel: sono letterature di intrattenimento, e spesso non entrano a fondo delle cose. Mentre il manga in ogni sua declinazione racconta la vita del Giappone. Vale anche per i robottoni: c’è il trauma del post-bomba atomica. C’è la vita dello sportivo. C’è la vita vissuta. C’è questa cosa che àncora il manga alla realtà.»
Se, da lettori, si arriva a comprendere i contenuti profondi dell’industria fumettistica giapponese, arrivare a metabolizzare le tecniche e farle proprie non è altrettanto facile. Per Vanzella, «Studiare gli shōnen, proprio quelli più pop, è un lavoro fondamentale, perché sono dei grandi prodotti di ingegneria editoriale. Sono oggetti di design fatti di sentimenti. Sono implacabili, sanno quando serve un cambio di punto di vista per la tensione, sanno quando mettere l’urlo drammatico. Il tempismo, il ritmo, è una roba che mi interessa e smontando quei manga capisci molto delle tecniche utilizzate.»
La linea tra creazione originale ed emulazione, tuttavia, può essere sottile, e i tre autori sono consapevoli del problema. I lettori giudicano i manga italiani come prodotti derivativi, snaturati da un contesto che non appartiene loro e privi di autonomia creativa. Per evitare l’effetto sbiadito di una copia accademica bisogna, nelle parole dei tre, capirne il meccanismo. Attraverso lo studio, innanzitutto, sia strutturato, come Cao, che ha frequentato la Scuola Internazionale di Comics a Roma, sia in solitaria, come Filosa. Una volta imparate le tecniche, «Usi quello che ti serve. A me fare i balloon di pensiero con le righine non interessava e l’ho abbandonata. Il retino ci serviva, invece, e l’abbiamo inserito.» Al contrario di Vanzella, Filosa guarda più a uno studio delle influenze, «a uno studio della tavola, che per me è fondamentale. Gli autori alternativi giapponesi si sono allontanati dallo stile classico, avevano altri approcci, guardavano al cinema, alla letteratura. I manga raccontano tutto quello che succede nella giornata, non ci sono ellissi. Questo aspetto mi ha insegnato che ogni storia, qualsiasi tipo di storia, è un’avventura. Non cerco lo stile, l’effetto, non cerco gli occhi grandi. L’interessante è trovare i punti di contatto con le culture.» «Ragazzi,» chiosa Cao per spiegare il suo modo di adattare i manga alla propria terra, «Il mio protagonista si chiama Mario Bianchi! È la mia città, è la mia cultura. Parlo di judo, ma parlo di Roma. Io non ci sono mai stato a Tokyo: cosa lo ambiento a fare a Tokyo?».
Filosa – il cui graphic novel ispirato al gekiga è in lavorazione (uscirà per Canicola) – ha poi raccontato più in profondità la sua personale ricerca attorno ai fumetti giapponesi. Prima di una trasferta in Giappone 2007, Filosa conosceva i lavori di Tatsumi ma aveva poco familiarità con Yoshiharu, il padre della new wave del manga – il gekiga – ovvero la “seconda cima delle due grandi montagne del fumetto giapponese”, per usare una definizione di un critico del Comics Journal. Una volta lì scoprì l’esistenza del fratello di Yoshiharu, Tadao, che, dopo una carriera culminata con la pubblicazione dell’autobiografia Fune ni sumu (le sue opere sono tutt’oggi inedite in Italia), si era ritirato dalle scene e aveva aperto un negozio di jeans a Nagayamashi. «Ero in questa gigantesca fumetteria, Mandrake, e preso dalla foga comprai quelli che pensavo fossero manga di Yoshiharu. Arrivato a casa scoprii di avere tra le mani Burai Heya di Tadao. Fu amore a prima vista. Forse proprio perché l’ho scoperto per errore.»
La criticità maggiore sembra riguardare il differente approccio che Asia e Occidente hanno nei confronti della Nona Arte: «Tsuge Yoshiharu e Tsuge Tadao erano, innanzitutto, due fratelli che con i loro manga sfamavano un’intera famiglia. Mi pare una storia bellissima.» Ciò che manca nei fumetti occidentali è la sensazione del lavoro, la percezione di una fatica, di uno sforzo che è al tempo stesso mezzo e fine dell’opera. «Con il graphic novel fai un libro all’anno. Il manga lo aveva già dimostrato negli anni Settanta: si può arrivare al “quotidiano seriale”. E anche dalle nostre parti, credo proprio che si possa fare di più in questo senso.» Per i figli dell’invasione manga, potrebbe essere un traguardo interessante. O magari, l’orizzonte della prossima generazione.