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Marvels: 20 anni dopo. Intervista a Kurt Busiek e Alex Ross

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Vent’anni fa – ottobre in Italia, pochi mesi prima negli Stati Uniti – usciva Marvels. Un’opera cruciale nella storia del fumetto supereroistico, non solo perché ripercorreva in toni ‘storiografici’ i principali eventi della storia Marvel, attraverso lo sguardo del fotoreporter immaginario Phil Sheldon, ma anche perché in qualche modo saldava la lunga stagione del “revisionismo supereroistico” con una nuova fase “nostalgica” dell’immaginario dei comics. Tuffo nel passato e allo stesso tempo celebrazione di una mitologia, la miniserie fece conoscere al mondo i nomi di Kurt Busiek e Alex Ross e generò svariate imitazioni, che ne emularono il senso del meraviglioso, il punto di vista “dal basso” e lo stile iperrealistico delle immagini.

In occasione di questo compleanno abbiamo intervistato lo sceneggiatore Kurt Busiek e il disegnatore Alex Ross. Per ritornare sui temi e la genesi dell’opera, ostacolata da false partenze e ripensamenti, ma anche per andare oltre, discutendo quanto è cambiato da allora, in particolare nel mestiere dello sceneggiatore di fumetti seriali.

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Marvels è frutto di un tortuoso percorso creativo. È stato ripensato più volte, prima come serie antologica, poi come miniserie a più mani. Fu Tom DeFalco, infine, a proporre l’idea di inserire un nuovo personaggio che attraversasse i momenti chiave dell’immaginario Marvel. Ci racconti le origini del progetto? 

Kurt Busiek: Ci sono stati molti più passaggi – a un certo punto pensammo di fare una storia su di un’arma che viaggiava nel tempo e si evolveva, apparendo in diverse fasi durante le varie ere della storia Marvel. Era un’idea terribile, ma abbiamo fatto dozzine di tentativi del genere.

L’idea originale di Alex era per una serie chiamata Marvel che sarebbe stata una testata antologica di storie dipinte con protagonisti gli eroi Marvel. Secondo le sue intenzioni, una serie del genere gli avrebbe permesso di realizzare storie di personaggi che amava, mentre altri autori avrebbero fatto altri personaggi. Quando me lo propose gli dissi che il progetto non era focalizzato a sufficienza – e la Marvel non avrebbe creato una nuova serie antologica per un esordiente che nemmeno voleva disegnare tutti i numeri. Dissi che la sua proposta sarebbe dovuta consistere in una mini-serie con un qualche genere di trama unificatrice, che avrebbe incluso tutti i personaggi che voleva dipingere, in modo che potesse essere presentata come una storia autoconclusiva.

Fu allora che iniziammo a sbarazzarci delle altre idee, inclusa quella con l’arma che viaggiava nel tempo. Alla fine definimmo la storia di un fotoreporter in grado di vedere tutti questi incredibili personaggi nell’arco degli anni, di vivere in un mondo di meraviglie. E questo fu quello che proponemmo all’editor Marc McLaurin, che aveva visto i disegni di Alex e gli aveva chiesto se avesse un progetto in mente. La grande differenza tra la proposta e la versione finale fu che ci inventammo nuove storie di Phil Sheldon che incontra la Torcia Umana, Namor, il Dottor Destino e altri, invece di usare momenti della storia Marvel già esistenti. Immaginammo che avremmo dovuto creare nuovi eventi attorno a Phil e fu per l’appunto Tom DeFalco che suggerì di mantenere il personaggio di Phil ma, invece di inventarci le storie, di renderlo testimone dei momenti preesistenti della storia Marvel.

Era un’idea fantastica – significava che avrei dovuto fare una gigantesca mole di ricerche, ma restava un’idea fantastica. Ci tornammo sopra e rielaborammo la proposta un paio di volte finché non venne approvata.

Quindi, nonostante avessimo ipotizzato molti approcci diversi, fu l’idea della miniserie incentrata su Phil a essere proposta e Tom ci fece modificare il progetto con l’aggiunta del canone Marvel; non propose lui l’idea di usare un personaggio come quello di Phil.

E tu Alex, cosa ricordi di quel periodo?

Alex Ross: Per quanto mi riguarda, il progetto Marvels è iniziato nel 1990 e ci sono volute due anni perché riuscissimo a venderlo e potessi iniziare. Quando cominciai avevo un lavoro a tempo pieno in un’agenzia pubblicitaria dove disegnavo storyboard. Lavorai lì per tutto il periodo in cui proponemmo le varie versione della storia. La mia speranza era di poter diventare un fumettista a tempo pieno, ma più di tutto speravo che Marvels fosse un progetto che avrebbe resistito alla prova del tempo.

L’avete più riletto da allora? C’è qualcosa che cambiereste?

Kurt Busiek: Sono sicuro di averlo riletto molte volte, ma non mi sono mai seduto a leggermelo tutta, dall’inizio alla fine, come un normale lettore. Non sono un normale lettore, non in questo caso, e non riesco a estraniarmi dalla mia esperienza come scrittore approcciandomici come un lettore. Ogni pagina, ogni battuta, mi riporta alla prospettiva di quando la scrivevo, facevo ricerche, esaminavo i layout con Alex. La vedo dalla prospettiva dello scrittore, non del lettore. Ma l’ho sfogliata, ho guardato delle cose, ricercato elementi per il seguito e via dicendo, quindi ho letto quelle pagine molte volte, anche se mai tutte di seguito.

Son sicuro che se la scrivessi oggi lo farei diversamente, ma sono contento di com’è, non vorrei tornarci sopra e cambiarla. L’unico cambiamento che vorrei fare, in realtà, è quello di colorare le didascalie in giallo, come erano solite essere le didascalie dei fumetti di una volta. La ragione per cui sono in bianco è perché il letterista, John Roshell, le fece in bianco e nero dato che di solito, a quei tempi, avrebbe dovuto colorarle il colorista della serie. Ma Marvels non aveva nessun colorista, dato che le tavole erano dipinte. Quindi il lettering è stato sovrapposto ai dipinti e qualcuno si assicurò di colorare gli effetti sonori, ma non pensarono di fare altrettanto con le didascalie.

La prima volta che lo vidi, l’albo era già andato in stampa e dovemmo adeguarci. Tenemmo le didascalie in bianco per tutti gli altri numeri, per coerenza. Ma fu un errore, io le avrei preferite gialle. Una piccola cosa, lo so. Ma se dovessi cambiare qualcosa, cambierei quello.

Oh, e mi assicurerei anche che il prologo, pubblicato in origine come Marvels n° 0, fosse accreditato correttamente: era una prova che Alex aveva fatto con il suo amico Steve Darnall prima che io venissi coinvolto o addirittura che il progetto nascesse. Non fu fatto come il prologo alla serie vera e propria, lo aggiunsero nella prima ristampa in volume. Ma non l’ho scritto io, è tutto merito di Steve e Alex e dovrebbero essere loro quelli accreditati.

Alex Ross: Onestamente, non credo di averlo riletto per intero in questi anni, ma di certo l’ho guardato di quando di quando. So che graficamente potrei eseguire certi passaggi con una tecnica migliore di quella che avevo all’epoca, ma una cosa che non sarei in grado di rimpiazzare è l’ispirazione iniziale che mi ha guidato così intensamente in quel periodo. So di sicuro che parlerei con Kurt per togliere il cameo del ragazzino alla fine della storia, la versione anni novanta di Ghost Rider che ora è praticamente sparito dalla circolazione.

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Sono passati vent’anni da Marvels e ancora i lettori ne parlano. Com’è cambiata la professione di sceneggiatore da allora?

Kurt Busiek: L’industria è cambiata molto, in modi che i lettori forse nemmeno comprendono. All’epoca, la gran parte delle serie Marvel e DC erano sceneggiate con il plot-style (un soggetto generale privo di dialoghi e dei dettagli), mentre ora credo che siano pensate con sceneggiature complete (le sceneggiature di Marvels, per esempio, erano scritte nel dettaglio). Penso che oggigiorno gli editor siano una componente più grande del processo creative sia alla Marvel che alla DC – una vola, c’erano alcune collane, come il parco testate degli X-Men o quello di Superman, e gli editor dovevano coordinare molti autori e imporre una linea, ma per il resto le altre serie sembravano più in mano ai loro creatori, erano loro che decidevano il tono. Oggi, sembra che siano gli editor a decidere il tono, anche a causa del fatto che i crossover e le trame-evento sono diventate una parte sempre più grande del lavoro degli editori. Non è una novità – gli editor della DC hanno deciso il tono delle loro serie negli anni cinquanta, sessanta e settanta, per esempio. Ma l’industria mi sembra diversa da com’era nei primi anni novanta. Ovviamente, grazie alla Image, la Dark Horse e altre compagnie, c’è stato un picco di pubblicazioni creator-owned, i cui diritti restano in mano ai proprio creatori, e questo crea più opzioni, più opportunità per scrittori e disegnatori. Quindi, da un lato, abbiamo gli universi dei supereroi ben coordinati tra di loro, per i lettori a cui piace l’effetto di diffusione di quel tipo di ambientazione, e dall’altro, su altri titoli, c’è un’esplosione di visione creativa. E anche i creatori possono beneficiare di entrambi gli approcci – certo, Scott Snyder è parte della scena DC con i suoi lavori su Batman e Superman, ma ha anche i suoi successi con serie proprie alla Vertigo. E alla Marvel, scrittori come Jonathan Hickman, Matt Fraction e Kelly Sue DeConnick si destreggiano tra incarichi nell’universo dei supereroi e titoli creator-owned alla Image.

Quindi è uno scenario diverso, dove i parametri per scrivere i personaggi classici sono cambiati e ci sono più opportunità per fare cose nuove. Ma il cuore del lavoro – creare storie e raccontarle in un modo che attiri i lettori – è ancora la parte importante.

Marvels è il frutto della tua collaborazione con Alex Ross, con il quale avevi tentato di realizzare, all’inizio degli anni novanta, un lavoro su Iron Man. C’erano delle idee e dei concept di Ross; in cosa consisteva il progetto? 

Kurt Busiek: Era una proposta per la serie di Iron Man. Era una serie che avrei sempre voluto scrivere. Io e Alex stavamo cercando dei progetti su cui lavorare insieme. Così, quando John Byrne lasciò la serie, ci proponemmo per sostituirlo, io avrei scritto le storie e Alex avrebbe fatto le matite e, forse, le chine (non ricordo di preciso), nonché le copertine in stile pittorico. Se lo avessero approvato non sarebbe stato un progetto autoconclusivo o una miniserie, avremmo lavorato proprio sulla testata mensile di Iron Man.

La storia che iniziammo a elaborare prevedeva l’uso del viaggio nel tempo, il personaggio di Iron Man 2020 e alcune trame che avrei in seguito modificato e usato su Astro City, ma non voglio entrare nei dettagli del progetto perché non si sa mai quando delle idee inutilizzate potrebbero tornare utili in futuro.

In ogni caso non ricevemmo alcuna risposta dall’editor, quindi apparentemente non c’era alcuna possibilità che ci avrebbero affidato l’incarico.

L’idea di Marvels è partita da te Alex. Che tipo di collaborazione hai avuto con Busiek sulle storie? Fu lui che ti volle alla Marvel, giusto?

Alex Ross: Sì, Kurt mi contattò per il mio secondo incarico su un fumetto, una storia breve per l’antologia di fantascienza Open Space. All’epoca, Kurt non era un editor a tempo pieno e quando tornai dai lui con un abbozzo per una serie antologica targata Marvel era solo uno sceneggiatore freelance. All’inizio, Kurt credeva che quell’idea così rozza di un’antologia dipinta non sarebbe stata ben accetta dalla Marvel. Aveva ragione a metà, certo, perché il progetto poi venne cambiato in una singola linea narrativa che mischiava i personaggi su cui volevo concentrarmi e una storia più grande di cui Kurt si prese piena responsabilità. Principalmente, dalle mie note, rimasero l’inizio con le origini della Torcia Umana e il finale con la morte di Gwen Stacy. Molti altri soggetti per delle storie e dei personaggi su cui volevo concentrarci non trovarono spazio nella versione finale.

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Poi è arrivato Marvels. Quali erano le tue sensazioni a riguardo mentre lo scrivevi? Era solo un altro lavoro o sentivi di stare scrivendo un’opera importante?

Kurt Busiek: Non avevo alcun motivo per poter ritenere la serie “importante” o anche solo un successo. Ma non era neanche solo un semplice lavoro. Era una possibilità per fare qualcosa di diverso, qualcosa di divertente, che fosse come nessun’altra serie dell’epoca. Per questo non pensavo che sarebbe stata un successo – era così inusuale realizzare una storia immersa nel passato e incentrata su questo tizio senza un occhio che se ne va in giro per l’universo Marvel esclamando “Uao, guarda QUELLO!”.

Non sembrava una di quelle cose che erano state popolari fino ad allora, quindi chi avrebbe mai pensato che sarebbe diventata un successo? Principalmente, ci sembrava un’occasione per fare qualcosa di personale, qualcosa che rappresentasse esattamente il tipo di storia che volevo scrivere e che Alex voleva dipingere. Non era commerciale, non era convenzionale, ma era nostra e la stavamo facendo proprio come volevamo noi.

E poi uscì e i dipinti di Alex furono una grande attrattiva. Molte persone lo comprarono perché era bellissimo da guardare, così sorprendentemente diverso dal solito. E anche la storia che stavamo raccontando piaceva. Fu una spinta enorme per entrambi, ma mentre ci lavoravamo non ci sembrava un grosso progetto commerciale. Era una possibilità per essere unici e per fare una cosa nostra.

Quel periodo vide nascere Marvels e Kingdome Come, che nacque da un’idea di Alex Ross che voleva fare un’opera colossale, un “Marvels della DC”. Vedete dei parallelismi, al di là di quelli più ovvi (come l’aver umanizzato, con modalità differente, le icone supereroiche), tra le due opere? 

Kurt Busiek: Non sono il tipo giusto per fare paragoni perché ho esperienze diverse dei due lavori. Su Marvels ero dentro al processo, ma su Kingdom Come ero parte del pubblico. Quindi non posso fare paragoni. Alex potrebbe, perché è artefice di entrambi i lavori. O magari potrebbe farli qualcuno che è stato solo un lettore di entrambe le opere.

Si posso certamente trovare dei parallelismi e dei contrasti – Marvels guarda al passato, Kingdom Come guarda al futuro, entrambe hanno un personaggio umano che fa da testimone, entrambe parlano di come gli eroi e i cattivi influenzano il mondo per gli altri, cose del genere. Ma sto solo snocciolando una lista di considerazioni. Non ho la prospettiva giusta per fare dei paragoni.

Alex Ross: Ovviamente dall’esterno, quelle opere rappresentano l’inizio e la fine di uno sguardo al mondo della fantasia supereroistica. Dopo aver usato i miei amici come modelli per i personaggi in Marvels, volevo aumentare l’intimità che provavo con i soggetti di Kingdom Come per ottenere una soddisfazione personale ancora maggiore. La mia idea fondamentale questa volta era di usare mio padre come il protagonista umano che interagiva con il mondo dei supereroi. Avevo l’ambizione di entrare più in contatto con i supereroi e ci siamo avvicinati molto alla loro esperienza. Da qualsiasi angolazione lo si guardi, Kingdome Come è potuto accadere grazie a Marvels.

Marvels sembra imbastire un dialogo metatestuale con il proprio mezzo. Frasi come “Il più grande spettacolo sulla Terra e noi… Ciascuno di noi… Era in prima fila” o quella di Gwen, (“È come essere dentro a una palla di vetro. Così bello, strano, irreale, come se non stesse succedendo ora. È solo il sogno di qualche cosa successo tempo fa”) sembrano definire perfettamente il mezzo fumetto; allo stesso modo, Phil si ritira come si è ritirata un’era fumettistica in favore della “Dark Age”. È un livello di lettura che ti interessava affrontare?

Kurt Busiek: È una prospettiva interessante, ma non è quella a cui pensavo mentre scrivevo le sceneggiature. Non cercavo di commentare la storia della Marvel come fa un critico, cercavo solo di raccontare una storia umana su come sarebbe stato vivere davvero nel mezzo di simili eventi. Quindi le battute che citi erano il mio tentativo di rappresentare le emozioni di un personaggio. Volevo ricreare la sensazione di come sarebbe stato vivere quelle situazioni, non di commentare gli eventi come fossero solo storie. Volevo che sembrassero reali e volevo che i personaggi reagissero in modi che sembrassero emotivamente corretti.

Di tutto il progetto Marvels quale fu la cosa più difficile da realizzare?

Alex Ross: In pratica stava tutto nell’imparare a dipingere una serie a fumetti al punto tale da sentirmi a mio agio. Per i miei primi lavori nel mondo dei fumetti avevo usato molte più matite o tavole colorate e inchiostri. I miei studi alla scuola d’arte mi hanno formato come pittore a olio più che ad acquerello come faccio oggi. Ci furono quindi una fase di prove ed errori che dovetti attraversare durante il corso della serie. È abbastanza chiaro, quando si guarda all’opera intera, come il processo artistico sia migliorato nei quattro numeri e alla fine mi sentii in grado di disegnare di tutto.

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Seguendo questa linea, in quel numero sembri anche muovere una critica sulla decisione di uccidere Gwen Stacy. Fai dire a Phil che “[L’Uomo Ragno] l’aveva abbandonata, tutti l’avevano abbandonata”, che non importava cosa sembrasse in realtà perché “Lei era sempre morta, non l’avevano salvata”. Credi che la morte di Gwen, personaggio ormai non utile all’allora imminente Dark Age del fumetto, sia stata una scelta giusta da parte della Marvel?

Kurt Busiek: Assolutamente. Penso che sia una storia molto potente che costituì un punto di svolta per la serie dell’Uomo Ragno e che presagì quello che sarebbe successo in molti altri fumetti.

Non ho fatto arrabbiare Phil per poter criticare la storia originale della morte di Gwen. Phil è arrabbiato perché è una persona che vede morire Gwen e questo infrange la fede che si era lentamente costruito nelle Meraviglie, nell’idea che sarebbero sempre state lì a salvare la situazione. Le sue reazioni sono soltanto sue, non sono io che cerco di scrivere una recensione.

Allo stesso modo, nella serie, Phil non sopporta Peter Parker – pensa che sia un furbo, che scatti foto dell’Uomo Ragno che poi il Bugle userà per denigrarlo. Pensa che tutto ciò sia terribile. Noi lettori, che siamo a conoscenza del fatto che Peter è l’Uomo Ragno, sappiamo che Phil non conosce tutta la verità, ma il comportamento di Phil verso Peter non deve essere interpretato come un commento critico, deve sembrare umano, credibile, qualcosa che una persona al posto di Phil potrebbe pensare. La stessa cosa dicasi per Gwen.

Quindi, no, non credo che uccidere Gwen sia stata una cattiva idea. A Phil non piace, ma lui è nella storia. A me piace ed è per questo che l’abbiamo scelto come momento culmine della narrazione.

A tal proposito, secondo te cos’ha di speciale il personaggio di Gwen Stacy, così amato dai lettori? Perché le recenti incarnazioni cinematografiche non sono riuscite a cogliere quello spirito?

Kurt Busiek: Be’, non sarei così d’accordo con questo giudizio – penso che la versione di Gwen di Emma Stone nel primo The Amazing Spider-Man sia incredibile. Il sequel non è stato scritto altrettanto abilmente, ma credo che sia dovuto al fatto che alla sceneggiatura del primo film aveva contribuito uno dei miei sceneggiatori preferiti, Steve Kloves, mentre nel secondo non c’era quella particolare voce a spiccare.

La realtà è che la cosa che rende speciale Gwen è che sia morta. Non era amata dai lettori prima della sua morte – piaceva o non piaceva a seconda dei gusti, ma era soltanto il personaggio di un grande cast che faceva le solite cose che fa la fidanzata di un supereroe. Ma quando morì fu uno shock. Diventò il simbolo dell’amore perduto, l’innocente che non viene salvato. Sono sentimenti potenti che hanno risuonato nella serie per gli anni a venire – da allora [l’uccisione di personaggi] è diventata un topos abusato di cui la gente si lamenta, ma all’epoca l’idea che qualcuno amato dall’eroe potesse davvero morire mentre l’eroe stava tentando di salvarlo era uno scossone, uno sviluppo potente. E fu questo che rese Gwen il personaggio memorabile che è oggi.

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Marvels costituisce uno degli sforzi di quel decennio in cui si tentava di uscire dal decostruttivismo e dalla cupezza degli anni ottanta per approdare a un’atmosfera di ritorno alle origini (il punto di vista inedito, il senso del meraviglioso, la possibilità di vivere ciò che sogniamo) per proporla a un nuovo pubblico. Nei tuoi lavori il tema del recupero e della nostalgia è una sorte di costante.

Kurt Busiek: Penso di esserci inciampato spesso, in quel tema. Mi piace esplorare la storia, la legenda, i dettagli che sono alla base di un personaggio, chi sono, come lo sono diventati. Per fare ciò è necessario guardarsi indietro, vedere come si è svolto il viaggio e capire cosa potrebbe esserci di interessante da esplorare.

Non mi piace la nostalgia fine a sé stessa – anzi, in molti dei miei progetti ambientati nel passato non ero io a scegliere l’ambientazione. Marvels era ambientato nel passato perché la lista di personaggi che Alex voleva ritrarre comprendeva la Torcia Umana o Gwen e questo mi costringeva a scrivere storie ambientate nel passato. Untold Tales of Spider-Man e Amazing Fantasy mi furono proposte dopo che qualcuno aveva già deciso di guardare al passato, Legend of Wonder Woman era ambientato durante un periodo che la disegnatrice Trina Robbins amava. Mi sono ritrovato di continuo a raccontare storie del passato perché le cose sono andate così. Di certo non mi è dispiaciuto – mi piace esplorare il passato – ma non c’è stato nulla di intenzionale.

Penso che, più che la nostalgia, mi piaccia la storia. Mi piace la consistenza di un’ambientazione diversa, di un periodo diverso. Ma non c’è il desiderio del ritorno al passato – mi piace la medicina moderna, l’aria condizionata, i diritti civili e così via e non ho alcun desiderio di tornare ai vecchi tempi. Ma questo non significa che i vecchi tempi non siano degni di essere esplorati, che non ci siano storie da raccontare.

Penso che Arrowsmith, insieme a Marvels, sia l’esempio perfetto di questa idea. E queste due opere hanno in sé anche il concetto dell’uomo comune in un modo che è loro estraneo. In Superman: Identità segreta perfino Kal-El è diventato un uomo comune [Nella miniserie, il protagonista è un ragazzino battezzato per scherzo Clark Kent che scopre di avere gli stessi poteri del personaggio fumettistico]. È un lavoro supereroistico, ma ha davvero poco di “super”. È questa la lezione, quindi? Per scrivere buone storie di Superman – e dei supereroi in generale – bisogna sempre tornare all’aspetto “umano”? 

Kurt Busiek: Be’, Identità segreta non era un tentativo di scrivere una bella storia di Superman, dato che Superman – quello vero, il Superman canonico – non compare. Volevo usare Superman come un simbolo, una metafora per quella “identità segreta” che tutti noi abbiamo, il nostro io interiore che condividiamo con pochissime persone nella vita. Quindi quella era una storia che usava deliberatamente l’idea di Superman come mezzo per raggiungere quell’universalità dell’esperienza umana.

Però, sì, Superman è un personaggio che, se non viene affrontato dal lato umano, non ti permette di scrivere una buona storia. Superman è molto potente, costituisce una fantasia che poggia su desideri umani. “Se solo potessi oppormi a quel bullo”, “Se solo potessi minimizzare le minacce e i pericoli e sistemare tutto quanto”, quella sorte di cose. Quindi se i sogni umani non trovano spazio – se tratti Superman come un puro set di abilità fantascientifiche – allora i risultati saranno probabilmente deprimenti, perché senza il “man” lì a creare una connessione con noi, il “super” è solo un riflesso superficiale, senza contesto o contenuto.

Una delle tematiche a cui ti sei interessato è la riabilitazione del supercriminale o comunque al loro carattere ambivalente, da The Liberty Project ai Thunderbolts. Cosa ti affascina di questo tema?

Kurt Busiek: Mi piacciono le persone incasinate. Mi piacciono i personaggi che commettono errori e devono redimersi. L’Uomo Ragno è così, ovviamente, ma dopo decenni passati a fare l’eroe ci si aspetta che faccia la cosa giusta. Ma i criminali, i perdenti, quelli incasinati – non saprai mai cosa faranno. Cambieranno la loro vita? La renderanno peggiore? Falliranno completamente?

Scrivere Thunderbolts è stata una gioia perché I personaggi avevano motivazioni molto diverse. Su una serie come Avengers i personaggi possono avere conflitti e problemi ma quando appare il cattivo ci si aspetta che non siano egoisti, che mettano da parte i loro problemi e siano all’altezza della situazione. Ma in Thunderbolts ognuno aveva un proprio interesse personale. MACH-1 vuole rispetto, Zemo vuole conquistare il mondo. Techno vuole una sfida e non gli interessa quale sia. Moonstone vuole manipolare gli altri per avere una vita comoda. Atlas non sa cosa fare. Ognuno si muove nella propria direzione e questo rende le cose più vivaci, meno prevedibili. In più, la storia del personaggio imperfetto che emerge dal fango è una grande storia da raccontare e ci sono così tanti modi di essere imperfetti. Ci sono sempre cose interessanti da far fare a personaggi del genere.

Alex, dopo Kingdom Come eri all’apice del successo, tutte le porte erano aperte, eppure volesti invertire radicalmente la traiettoria della tua carriera con Uncle Sam, una satira sulle idiosincrasie dell’America. Com’era nato il progetto e cosa ti affascinava di esso? 

Alex Ross: Io e il mio collaboratore su Uncle Sam, Steve Darnall, avevamo discusso per diversi anni sul nostro comune interesse per l’icona-personaggio dello Zio Sam. Mentre producevo questi altri lavori, Uncle Sam era sempre un progetto che volevo realizzare come prossimo passo tematico nella mia carrier. Per me, è un graphic novel che si evolve dalle altre due serie, che sono vincolate in una pura finzione da fumetto, e commenta la storia del mondo e la cultura popolare in un modo che va oltre i fumetti.

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Kurt, qualche anno fa sei tornato a quei personaggi con Eye of the Camera, seguito di Marvels, coadiuvato da Roger Stern e Jay Anacleto. La miniserie ha subito numerosi ritardi ed ha avuto una gestazione travagliata. Da chi era partita l’idea di fare un seguito di Marvels? Sei soddisfatto del risultato finale? 

Kurt Busiek: Parlammo di un seguito già all’epoca della prima serie e iniziammo perfino a lavorarci. Ma finimmo per non combinare nulla e quella storia divenne la saga The Dark Age in Astro City.

Ma Alex e io avemmo un’altra idea per una sorta di sequel, una cosa di 30 pagine che io immaginai come un epilogo sugli ultimi giorni di Phil Sheldon mentre ripensa alla sua vita. Ne parlammo ma non ci facemmo niente e la storia venne messa da parte. Lo spunto che dette il via a L’occhio della fotocamera arrivò da Tom Brevoort, che voleva fare qualcosa per il decimo anniversario di Marvels – e considerando che la serie è uscita per il quindicesimo anniversario fu davvero una lavorazione lenta.

Ma è riuscito a convincermi e a alla fine sono ritornato a quel concetto di “epilogo”, aggiungendoci una storia diversa. Tra la salute e gli altri lavori è stato difficile completare tutto il lavoro di ricerca che il fumetto richiedeva (e in più c’erano da leggere molti più fumetti rispetto alla prima volta). Ed è per questo che abbiamo chiamato Roger Stern ad aiutarci. Avevamo delle regole editoriali molto strane a cui far fronte – Bill Jemas odiava i flashback, quindi abbiamo dovuto ristrutturare l’intera storia per metterla in ordine cronologico. E Jay Anacleto era lento a produrre tavole tanto quanto Roger e io eravamo lenti a produrre pagine di sceneggiatura. Non fu facile come la prima volta. Ma i disegni di Jay sono bellissimi e credo che la storia sia venuta bene, in particolare il finale. Ne sono contento.

Nel secondo numero di Marvels Phil inizia a rimuginare sull’incipit del suo libro. In effetti gli inizi sono sempre la parte più difficile perché le potenziali realtà mentali svaniscono e una singola verità si cristallizza sulla pagina. Tu come affronti questa prima difficile fase di focalizzazione di un mondo? 

Kurt Busiek: Pressappoco allo stesso modo in cui lo fa lui. Provare inizi diversi finché non si trova la strada giusta per entrare nella storia, una che imposti il tono, introduca quello che deve essere introdotto e lo faccia in maniera affascinante.

Hai affrontato, di sfuggita, il fumetto autobiografico. Thoughts On A Winter Morning è una rappresentazione riuscita di un tuo momento nella vita. Hai mai considerato l’idea di ripetere l’esperienza del racconto diretto?

Kurt Busiek: Sì, ho un’altra storia autobiografica che vorrei raccontare un giorno, ma è totalmente diversa. È una commedia alimentata dall’alcool su uno show di distributori a cui ho partecipato a Montreal all’epoca del mio incarico come responsabile delle vendite alla Marvel. La scriverò, un giorno o l’altro. Nel complesso però, non credo di essere granché attratto dall’autobiografia – non penso che la mia vita sia stato così interessante e preferirei scrivere altre storie, su altri personaggi.

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Hai contribuito a modellare la Marvel degli anni novanta, ma come vedi la Marvel di oggi? 

Kurt Busiek: In realtà non conosco molto la Marvel di oggi. Stanno di certo facendo le cose giuste, ma le loro serie non sono dirette a me e non dovrebbero esserlo. Dopo aver scritto JLA/Avengers, avevo ormai avuto l’opportunità di scrivere un sacco di cose interessanti con i personaggi Marvel e quel progetto mi sembrava il coronamento della mia carriera. Dopodiché, non ho più sentito lo stimolo di continuare e ho puntato sempre di più a cose diverse, ad altre idee.

Oggigiorno leggo poche serie Marvel e per lo più fumetti che non sono parte di un universo più grande – Fables, Saga, Fatale, Sex Criminals, cose del genere. Fumetti che mirano a un pubblico che includa cinquantenni con una famiglia e un mutuo, che sono alla ricerca di qualcosa di diverso. Cosa che seguano una strada propria. Quindi non vedo molto di quello che la Marvel sta pubblicando – il che non vuol dire che non siano cose fatte bene, solo che non sono fatte per me. Mia figlia di quindici anni legge più fumetti Marvel di me e sono certo che i tipi della Marvel siano contenti di saperlo. Sono stato un loro lettore per decenni ma ora puntano ad attirare lettori più giovani, come lei.

E va benissimo. Per ricollegarsi a Marvels, non c’è molta differenza da Phil che consegna la sua macchina fotografica alla sua assistente, e dal dire che bisogna essere in grado di vedere con occhi nuovi. Per le mie figlie è tutto nuovo e sorprendente e io ho da leggere in abbondanza da altre fonti.

Non so se questo sia un finale positivo, o dolceamaro, o altro, ma penso che sia un bel modo per far funzionare le cose.

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