di Pietro Scarnera*
Guardando i disegni di Silvia Rocchi si ha subito l’impressione di una enorme libertà. Matite colorate, acrilici e incisioni si mescolano senza paura. Con questo stile personalissimo Silvia è riuscita a imporsi in breve tempo nel panorama del fumetto, e oggi è una delle “giovani autrici” italiane più interessanti. Nata nel 1986 a Pisa, ha raccontato per Becco Giallo le figure di Alda Merini (Ci sono che notti che non accadono mai, 2012) e di Tiziano Terzani (L’esistenza delle formiche, 2013), e contemporaneamente porta avanti l’etichetta di autoproduzioni ‘La trama’. L’ho incontrata qualche tempo fa a Bologna, dove era di passaggio per presentare la collana di poesia e illustrazioni ‘Isola’. Abbiamo conversato – pasteggiando – da Zoo, che in passato ha ospitato due mostre di Silvia: le tavole originali del lavoro sulla Merini, e le illustrazioni realizzate per il progetto Bosco di betulle.
Come sei arrivata al fumetto? Ne leggevi da bambina o da ragazzina? E che cosa?
Ho sempre letto fumetti. Quand’ero bambina leggevo Topolino, poi da più grande qualche shojo manga, quelle storie d’amore giapponesi tipo E’ quasi magia Johnny. Non ho mai letto cose marveliane e neanche molti fumetti italiani, a partire da quelli della Bonelli, ed è una parte che mi manca tantissimo. Mi sento ignorante in materia, proprio. Poi ho avuto il mio periodo Andrea Pazienza, in cui leggevo solo quello, verso i 18-19 anni.
Quand’è stata la prima volta che ti è venuto in mente di fare fumetti?
La volontà c’è sempre stata, da bambina facevo la rivista del vicinato, creavo i cruciverba, poi nel periodo manga mi ero comprata i retini… anche se ho scelto un percorso diverso rispetto a quello classico del fumetto, per cui ho iniziato a studiare pittura all’Accademia di Belle arti di Firenze. Volevo portare assolutamente avanti la passione per il disegno, poi piano piano ho capito che volevo fosse anche narrazione, per motivazioni “politiche”, nel senso che il fumetto arriva a tutti, è un mezzo molto più diretto e democratico rispetto alla pittura. E mi piace che si trasformi in un oggetto fisico, in un libro. Così dopo i primi tre anni in pittura sono venuta a Bologna, per concretizzare il discorso sul fumetto. Mi sono iscritta al biennio in illustrazione, ma i fumetti già li facevo. Quelli di quel periodo sono ben nascosti a casa mia.
Venire a vivere a Bologna ti è servito?
Certo, mi ha dato una grossa spinta. In un certo senso sono una dei “figli” del Bilbolbul: mi sono affacciata più seriamente al mondo del fumetto con i primi concorsi che facevano loro con Flashfumetto.
Nel frattempo iniziavi ad autoprodurti…
La trama, l’etichetta che ho contribuito a fondare con Alice Milani (a cui poi si sono aggiunti Viola Niccolai, Francesca Lanzarini e Alessandro Palmacci), è nata nel 2009 con un intento assolutamente disorganizzato. Nel senso che non abbiamo mai curato tantissimo la parte progettuale, siamo sempre state focalizzate sul tipo di storie che vogliamo fare e sul perché le vogliamo fare. L’idea era di fare delle cose che servissero come valvola di sfogo personale, sperando che qualcuno poi ci trovi qualcosa di interessante, ma spesso (e qui parlo un po’ più per me che per gli altri), ce ne freghiamo abbastanza del pubblico.
All’inizio abbiamo fatto dei librini monografici, poi siamo passate anche noi alle antologie, che contraddistinguono un po’ l’autoproduzione di questi tempi. Però non c’è stato mai un obiettivo preciso, l’unica cosa che sapevamo era che volevamo fare dei fumetti insieme: dal primo nucleo iniziale che eravamo siamo diventati 12-15 fumettisti per le antologiche. Col tempo abbiamo capito che eravamo capaci di organizzarci di più e meglio e, per questo nel 2012 è nata la collana ‘Coppie miste’: pubblicheremo la seconda parte entro la fine dell’anno.
Chi ha letto i tuoi libri per Becco Giallo che differenze trova nelle tue cose autoprodotte?
In generale è la differenza tra il lavoro che faccio per me stessa e come affronto un lavoro esterno. Nel primo caso tendo a scavare moltissimo nel mio personale, cioè a guardarmi l’ombelico, assolutamente, e ho un approccio più viscerale (che nella Merini ho tentato di mantenere). Tento di buttarci dentro quello che mi prende alla testa e alla pancia. Così le storie spesso parlano di persone più o meno svalvolate o angosciate. Mentre i lavori “esterni” sono sempre meno personali e mantengono un po’ più di “decoro”.
Fra le prime autoproduzioni e il tuo primo libro passano due anni, che hai fatto nel frattempo?
Con La trama abbiamo sempre fatto storie brevi. Il mio primo lavoro lungo è stata un’autobiografia che ho disegnato nel 2011 in cui ero studentessa Erasmus in Belgio, sotto l’egregia guida di Thierry Van Hasselt, mio insegnante ma anche parte della casa editrice FRMK (Frémok). Era un progetto per un esame, non è stata pubblicata, però sentivo di doverlo fare assolutamente: è un lavoro di 80 pagine, che mi ha aiutato a rendermi conto di come si lavora sulle lunghezze.
Era uno studio, quindi? Aveva un titolo?
Si chiama Febbraio 2011. Mi piace dare titoli che ricordino vagamente le didascalie delle foto. Nella storia non succede niente, ci sono solo io che cammino e penso.
Stilisticamente quanto era vicina al lavoro sulla Merini?
Molto, molto. Sono cinque anni che porto avanti un certo discorso con le matite e gli acrilici.
E di questo lavoro nessuno ha mai visto nulla?
Be’, gli editori sì. Nel 2011 sono andata con i miei fumetti autoprodotti e con questo lavoro in “pellegrinaggio” a Lucca. Sono andata da Igort, che mi ha detto «Hai una collega in Germania», riferendosi a Anke Feuchtenberger. In effetti l’influenza era abbastanza evidente. Poi sono andata da Gianluca Costantini; lui mi ha suggerito «Vai da Becco Giallo, che loro promuovono i giovani autori». A Becco Giallo i miei lavori non interessavano, ma mi dissero «Se abbiamo qualche personaggio per cui si adatta bene il tuo stile ti chiamiamo». Io l’avevo data per chiusa lì.
Ma ti eri depressa?
No, queste cose cerco di prenderle un pochino a cuor leggero, sennò uno ci diventa matto. Invece quando ho fatto un giro alla Fiera del libro per ragazzi di Bologna… quello sì che è stato deprimente. Ho sbagliato io, perché ho portato la tesi realizzata per il biennio di illustrazione in Accademia: illustra i dialoghi tra Simone de Beauvoir e Jean-Paul Sartre, e non è né per bambini né per adolescenti. E quindi si sono subito chiuse le porte. Questo mi ha dato l’idea di non essere molto adatta per quel mondo.
In tutto questo percorso di avvicinamento al fumetto, quali sono stati i tuoi autori di riferimento?
Quando con Alice abbiamo fondato La trama il mio pensiero era “Io voglio fare storie alla Gipi, voglio raccontare storie di ragazzini, voglio che ci sia qualcosa in più oltre ai soliti quattro discorsi tra sbarbatelli, e lo voglio fare come lui”. Avevo letto S., i racconti di Baci dalla provincia, La mia vita disegnata male che è meraviglioso, e adesso che è tornato a fare fumetti sono felice che si sia riconfermato… per me è un po’ un mentore.
Oltre a Gipi, quali altri autori sono stati importanti per te?
La già citata Anke Feuchenberger, poi Stefano Ricci, Michelangelo Setola, Olivier Deprez e tutta la squadra di FRMK, al cui interno c’è anche Dominique Goblet. Lei in particolare ha pubblicato questa autobiografia, Faire semblant c’est mentir, ci ha messo 12 anni per farla, perché parla delle violenze che ha subito da bambina. Ma il tema è affrontato con estrema delicatezza rispetto alla narrazione, con sintesi e anche con coraggio, cioè, non ha paura di fare il disegno “brutto” (anche se poi non è comunque capace di disegnare male). Per me è stata una bella svolta, tanto della mia autobiografia prendeva spunto da lì. Poi, anche se non c’entrano niente con me, mi piacciono tantissimo Ruppert & Mulot. O ancora Manuele Fior o Gonzalez con il suo Retour au Kosovo.
E scrittori?
Ti dico subito le mie letture recenti: Jean-Claude Izzo, Izzo per me in questo momento é Dio. E anche Gioconda Belli. Mi sono molto appassionata tra i vari grandi a Steinbeck.
Va bene, questo è tutto il retroterra, poi finalmente Becco Giallo ti chiama...
Sì, come ti dicevo dopo Lucca 2011 l’avevo data per chiusa lì, invece in gennaio mi arriva questa mail dove mi dicono «Potrebbe essere il caso di farti fare una biografia su Alda Merini, se hai voglia». E io non ci ho neanche pensato due volte. Conoscevo le sue opere più famose. Tra l’altro per Komikazen avevo fatto una storia tratta da Le libere donne di Magliano di Mario Tobino (in cui l’autore racconta la sua esperienza di medico psichiatra nel reparto femminile dell’ospedale di Magliano, sottoforma di diario, ndr). Lui ha riportato le storie delle donne che aveva in cura, e io avevo fatto queste quattro tavole pensando di rielaborarle per affrontare il tema della follia. Insomma grazie a Tobino avevo letto il diario della Merini sul manicomio, L’altra verità.
Mi sembra che i tuoi libri abbiano colpito molto perché sono abbastanza insoliti, soprattutto per quella che può essere la media di Becco Giallo, che mi sembra più tradizionale. È stata un po’ una sorpresa, hai trovato un campo e uno stile che non era molto esplorato, almeno in Italia. Vorrei chiederti: cosa succede dopo che ti propongono di lavorare un personaggio?
Il mio modo di lavorare è molto lento, assolutamente scostante e casuale, a volte. Ci sono dei momenti in cui non faccio assolutamente niente e degli altri in cui invece vado a manetta. Quindi non saprei mai rispondere alla domanda “qual è la tua giornata tipo”. Per i due libri le lavorazioni sono state diverse: le poesie della Merini ti colpiscono in fronte, sono più importanti del lavoro di ricerca che puoi fare. In quel caso c’è stato meno studio sul personaggio e più sull’impatto che le sue poesie avevano su di me. Poi c’è questa idea delle due linee narrative diverse, una cosa che funziona rispetto alle sue poesie, una trovata, uno scattino in più che incredibilmente mi ha fatto il cervello.
Ma prima di arrivare a questo c’è stato comunque un lavoro di ricerca, immagino.
Certo, è quella la fase più lunga. Per il libro su Terzani, ad esempio, sono stata sette/otto mesi a studiarmi la sua vita, perché lo conoscevo poco e soprattutto mi era più nota l’ultima parte della sua vita; volevo essere onesta nel raccontarla.
In un’altra intervista, riferendoti a Ci sono notti che non accadono mai, hai spiegato una tua scelta piuttosto insolita per una biografia, cioè quella di non disegnare quasi mai i volti, preferendo puntare sull’atmosfera…
Sì. Già una biografia di personaggi così importanti è un po’ un intrusione da parte mia nella loro vita. Quindi indugiare sui volti mi sembra abbastanza inutile e controproducente per l’atmosfera del libro.
Non a caso tu li definisci omaggi più che biografie. Com’è stato accolto questo approccio da Becco Giallo?
Erano molto contenti, mi hanno sempre dato carta bianca totale. Sono intervenuti piuttosto sulle copertine e sui titoli, sulla confezione. Ad esempio nella quarta di copertina di L’esistenza delle formiche (dove c’è un monaco buddista di spalle, ndr), io volevo metterci Totò, il merlo di Terzani, che urlava frasi in thailandese imparate dalla donna delle pulizie. Nonostante questo, a Becco Giallo cercano sempre una mediazione tra quello che comunque fa funzionare un titolo al primo impatto e la volontà dell’autore.
Per quanto riguarda i testi, in entrambi i libri c’è un grosso lavoro sulle citazioni da utilizzare. Come funziona?
In entrambi i casi mi sono costruita una sorta di cronologia della vita dei personaggi, e in base a questo sono andata a pescare qua e là. È il lavoro più difficile di tutto il processo, la parte più cervellotica, perché queste frasi si devono incastrare in maniera tale da aver senso.
Passiamo al disegno. Secondo me la domanda che molti tuoi lettori si fanno, soprattutto se non sono a loro volta fumettisti, è: cosa usi? Quali tecniche?
Sono matite e acrilici. Generalmente faccio i fondi con l’acrilico, e in quel modo la matita scorre meglio, fa degli effetti un po’ diversi dal solito. (Indica una vignetta del libro sulla Merini, ndr) Qui poi ho anche cancellato con la gomma.
Vedendo le tue tavole, l’impressione è che siano state realizzate “di getto”. È così?
In effetti la lavorazione è di getto, odio rifare mille volte le tavole, è una parte del lavoro che detesto. Generalmente sento se la cosa sta andando bene; se sono completamente dentro il lavoro ho la percezione di star facendo qualcosa di brutto o di bello, che funziona o che non funziona. Poi a riguardare dopo le tavole ci sono tantissime cose che non mi piacciono o che rifarei. La cura però è un aspetto che mi manca, e questo non è un pregio.
Quando hai questi momenti di frenesia, quante tavole fai?
In una giornata me ne vengono bene una media di quattro. Queste (quelle in bianco e nero in mezzo al libro della Merini, ndr) le ho fatte tutte in due ore.
Tra l’altro questi inserti con disegni a tutta pagina sono comuni a entrambi i libri, avvengono in corrispondenza di passaggi delicati della storia…
È una cosa che faccio per movimentare un po’ la narrazione. A volte cambia anche lo stile, ho usato la xilografia nelle parti in cui Terzani fa il reporter di guerra. Invece alla fine del libro ci sono solo cieli astratti, faccio un passo indietro e lascio parlare lui.
A livello cromatico c’è una scelta prima di iniziare il lavoro?
Sì sì, anche nel lavoro che sto facendo adesso su Ettore Majorana (su testi di Francesca Riccioni, che dovrebbe uscire per Rizzoli Lizard nel 2015, ndr) è tutto blu e rosso ed è stato deciso ancora prima di avere la sceneggiatura completa.
In appendice al libro di Terzani c’è anche la tavolozza dei colori che ho usato, è una sorta di dedica nascosta a una persona che ama molto l’arancione, che è il mio colore “spreferito”. Non lo riesco a gestire, non lo percepisco, ma mi sono sforzata e ce l’ho messo.
Ma hai uno storyboard?
Sì (mi fa vedere l’agenda, dove c’è lo storyboard per una nuova storia per La trama, ndr), mi faccio anche questi calendari di lavorazione che non rispetto, dove mi incoraggio da sola!
…e la cosa bella è che anche il calendario è fatto a mano…
Guarda cosa c’è scritto sulla mia agenda. (C’è scritto: “Ti prego guardami!”, ndr)
Non trovi un po’ limitanti le biografie? Non pensi che a un certo punto ti stancherai?
Penso che a un certo punto mi smarcherò dalle biografie, ma se le ho affrontate così è perché ho questa abitudine a lavorare su me stessa, questo scavo intimo, che mi permette quantomeno di immedesimarmi con i personaggi che affronto.
Contraddico subito la domanda precedente, perché mi sembra che anche le biografie possano rientrare in una ricerca sulla memoria, sul passato, che è comune a tutta la tua opera. Ed è molto evidente in Bosco di betulle, la mostra che hai realizzato con Viola Niccolai e Francesca Lanzarini. Lì si parla proprio dell’infanzia, di memoria familiare. Insomma, alla fine sta tutto dentro la stessa poetica?
Penso di sì. Anche con le altre persone con cui lavoro… abbiamo una prospettiva abbastanza simile, siamo attratte da un certo tipo di letture, abbiamo un background comune, quello che con Viola chiamiamo “il comune sentire”. Questo fa sì che si lavori poi sulle stesse tematiche. Bosco di betulle è stato un bellissimo progetto perché ci ha permesso di legarci ancora di più, e poi a livello di pubblicazione del catalogo è stata una cosa in più, non avevo mai fatto un libro autoprodotto legato all’illustrazione. La cosa bella di quel progetto è che avendo delle anime simili, all’inizio ci trovavamo qua e là per lavorare insieme e divertirci, poi ci siamo rese conto che era tutta un’operazione sul nostro vissuto. Ci siamo accorte che ognuna mostrava alle altre luoghi della propria infanzia, e raccontava episodi della propria vita. Ci siamo dette di fare Bosco di betulle capitolo due tra qualche anno, chissà cosa sarà successo nel frattempo.
Un altro elemento che a me sembra costante nel tuo lavoro, e che si nota soprattutto in L’esistenza delle formiche, è la natura. Che rapporto hai con la natura? Come entra nei tuoi disegni?
Entra in modo implicito, perché non mi definirei esattamente una grande amante della natura. Per esempio mio padre da piccola mi diceva sempre che avevo paura di tutto (api, bisce, cani e gatti) e che sembravo nata in centro a Pontedera (provincia di Pisa, roccaforte operaia, dove c’è la Piaggio, quella che fa le Vespe), anziché qua in campagna. E comunque è un rapporto “forzato”, perché sono nata tra pini e olivi e non me ne libero anche se cerco di adattarmi a stare ovunque. Dal momento che non sento slegata la mia vita rispetto a quello che faccio, vale lo stesso per il lavoro. La natura c’è anche non volendo.
Una cosa che mi turba e al tempo stesso mi piace è che nonostante non sia molto legata al posto in cui abito lo sono invece totalmente al monte che sta sopra casa mia e ai crinali garfagnini nei quali mi portavano in vacanza da piccola. Il monte si chiama Monte Serra e quando lo vedo da lontano mi rimetto in pace con tutto, scherzo dicendo che è il mio nord. È inevitabilmente quando disegno è molto spesso rappresentato.
Senti, ma a parte i dialoghi tra Sartre e Simone De Beavouir, c’è una storia in particolare che ti piacerebbe raccontare?
Vorrei fare una storia, ovviamente romanzata, sulla vita di mia madre, perché è ricca di avvenimenti. Traendo spunto da questo vorrei metterci altre cose e vorrei fare una “goblettata”, cioè gestire la storia alla maniera di Dominique Goblet pur prendendo le distanze da lei. Perché lei lavora con tantissime tecniche, tantissime, te le spara tutte insieme per cui hai uno shock quando guardi le sue cose. Vorrei provare a condensare questa storia con qualcosa tratto dall’autobiografia che avevo fatto, magari rielaborato e migliorato. E poi usare altre tecniche, magari la monotipia.
Cos’è?
Con un rullo stendi l’inchiostro su un plexiglass e poi con un fazzoletto “disegni” la luce e rimangono delle forme. Poni sopra un foglio e stampi come nella calcografia classica per mezzo di un torchio. Se non c’è questo l’effetto viene lo stesso ma sarà diverso, più leggero.
Perché proprio questa tecnica?
Quando faccio queste cose vado in estasi. Se sto male e faccio questo poi mi riprendo. Il lavoro su Sartre e Simone De Beavuoir è stato fatto tutto in questo modo, nell’arco di un anno nel laboratorio di incisione dell’Accademia con Manuela Candini: andavo lì e mi astraevo. E questo è fondamentale: star bene quando fai qualcosa, provare gusto in quello che fai.
*Pietro Scarnera è nato a Torino nel 1979. Si laurea nel 2004 in Scienze della Comunicazione con una tesi sull’editoria del fumetto che nel 2008 verrà pubblicata in parte nel saggio Graphic novel e politica: fra giornalismo e autobiografia, all’interno del libro Politicomics (Tunué) di Federico Vergari. Nel 2008 è fra i vincitori del concorso Coop for words con la storia Un gatto senza padrone. Nel 2009 vince la selezione per giovani disegnatori dell’Emilia Romagna legata al Festival Komikazen. Da questo concorso nasce il libro Diario di un addio (Comma 22). Attualmente vive a Bologna e si occupa di giornalismo e comunicazione. Il suo ultimo fumetto è Una stella tranquilla. Ritratto sentimentale di Primo Levi (Comma 22).