Satoshi Kon, nel corso della sua prolifica carriera, è stato autore di manga e regista di lungometraggi animati. Dopo il suo debutto, avvenuto come fumettista ad appena ventun anni nel 1984, diventa assistente di Katsuhiro Otomo, lavorando anche su Akira.
Negli anni a seguire, nella seconda metà degli anni Ottanta e poi nei Novanta, Kon, continuando a serializzare brevi manga e racconti autoconclusivi, collabora ad alcune delle principali opere di fantascienza animata dell’epoca. Tra questi: Roujin Z – ispirato al manga Zed di Otomo e Tai Okada, uscito in Italia per Star Comics – per il quale si occupa dei layout; Patlabor 2: The Movie – ispirato al manga Patlabor di Masami Yuki, in cui Kon fu supervisore; poi Memories, sempre di Otomo, per il quale Kon cura la sceneggiatura di Magnetic Rose, uno dei tre cortometraggi dell’opera.
In veste di fumettista, vive per certi versi all’ombra dell’ingombrante influenza di Otomo. Eppure, nella varietà della sua seppur non vastissima produzione è riuscito a dare voce a una variopinta espressività che toccava sia i territori della fantascienza tanto apprezzati nell’ambito del manga maturo degli anni ottanta, oltre a cimentarsi in racconti di stampo prettamente fantastico e mitologico.
A rappresentare al meglio la molteplicità delle sue anime stilistiche è il volume L’eredità dei sogni, raccolta delle sue storie brevi pubblicate dal 1984 al 1989. L’influenza del maestro Otomo in queste pagine è chiara; sin dall’apertura col racconto Carve, un concentrato dei temi e delle location tipiche di Domu o di Akira, realizzato però con una padronanza del mezzo e una visione sorprendenti per un esordiente. Il volume contiene poi sia racconti di avventura che romantici o di quotidianità urbana.
Come mangaka, Satoshi Kon esprime al meglio la sua personalità artistica per mezzo di tematiche naturalistiche e mitologiche, lontane dalla fantascienza spietata di Otomo e più vicine alla tradizione panica giapponese, con quegli stessi accenti ambientalisti che hanno sempre contraddistinto l’opera di Miyazaki e, più di recente, quella di Daisuke Igarashi.
In questo filone, si inserisce, assieme ad alcune storie brevi, il volume Kaikisen (in Italia La stirpe della sirena, per Star Comics), una romantica ed evocativa storia di scontro tra natura, tradizioni e avanzamento economico e sociale. Seguiranno il racconto fantascientifico di disagio e dannazione urbana World Apartment Horror (scritto da Katsuhiro Otomo e Keiko Nobumoto); e le opere incomplete Seraphim e Opus, nelle quali lo spirito visionario di Satoshi Kon si esprime al meglio, nel raccontare le vicende di un mangaka che confonde realtà e immaginario (Opus) e nell’illustrare scenari post-apocalittici futuristici e misteri ancestrali (Seraphim).
Il suo segno, pulito e dai tratti piuttosto realistici rispetto alle tendenze predominanti nei manga degli anni Settanta e Ottanta, fu espressione di una delle correnti più vive e interessanti viste nel manga nei decenni successivi, accostabile oltre che a Otomo, anche a Yukinobu Hoshino (2001 Nights) e al maestro del pop e della purezza del segno Hisashi Eguchi, character designer col quale Kon ha collaborato per alcuni suoi film.
La carriera di Satoshi Kon regista inizia nel 1997, con Perfect Blue, un libero adattamento del romanzo omonimo di Yoshikazu Takeuchi. Concepito inizialmente come un live action e successivamente prodotto come un lungometraggio animato per il mercato dell’home video, venne poi distribuito nel circuito cinematografico, riscuotendo un notevole successo di pubblico e di critica, conquistando diversi premi in giro per il mondo. In Perfect Blue, un thriller per adulti in cui viene raccontata la vita di una idol che, abbandonata una carriera musicale di scarso successo, tenta il salto nel mondo del cinema, venendo per questo “tradimento” perseguitata da un suo accanito fan, possiamo riscontrare quasi tutte quelle che saranno le tematiche successive dell’autore. Innanzitutto la preferenza per i personaggi femminili, poi l’amore per il cinema americano e infine l’utilizzo di una struttura narrativa su piani doppi e paralleli (oggettivo-soggettivo, reale-immaginario, concreto-virtuale, il film nel film) e da cui, nello specchiarsi reciproco dei quali, emerge di volta in volta la chiave di risoluzione dell’enigma o quella di lettura delle vicende narrate.
La nostalgia, che in Perfect Blue si esprime come ossessione per l’immutabilità, adolescenza si esprime compiutamente nella seconda opera da regista di Kon, Millennium Actress (2001) che, partendo da tematiche simili a quelle di Perfect Blue, ne ribalta il punto di vista, mettendo da parte i lati oscuri esplorati nel primo film. Ancora una volta la protagonista è un’attrice, la vecchia gloria dello schermo Chiyoko Fujiwara, ritiratasia vita privata su di una montagna. Quando il regista Genya Tachibana e il suo operatore si recano da lei in visita per intervistarla si troveranno coinvolti in un viaggio nel tempo luminoso e commovente, in cui i piani della realtà, del fantastico e del ricordo si mescoleranno di continuo. Millennium Actress, rispetto al cupo Perfect Blue, si presenta come un’esplosione di colori, di trucchi e inganni, che seguono e riempiono una narrazione temporale non lineare e spesso basata su associazioni affettive e visive. Millennium Actress sarà seguito dal meno riuscito Tokyo Godfathers (2004), una sorta di rivisitazione del western The Three Godfathers di John Ford (ma non è difficile trovare anche un’influenza della poetica di Frank Capra). Durante la notte di natale, tre disperati, una ragazza scappata di casa, un alcolizzato e un travestito, trovano una neonata in un cumulo di immondizie. Divisi fra la volontà di adottare la bimba e quella di riconsegnarla alla sua famiglia, i tre intraprendono un doppio viaggo: attraverso la città e attraverso loro stessi. Kon, giocando nella rappresentazione dei tre protagonisti sul filo che separa la caricatura dalla rappresentazione simil-documentaristica di un micromondo comunque degradato, sbaglia troppo spesso il colpo, anche se la visione di una Tokyo notturna disegnata dalla neve resta comunque abbagliante.
A questo link una gallery di locandine immaginarie da Millennium Actress.
L’ultimo film di Satoshi Kon, Paprika realizzato dopo che il regista ha completato i tredici episodi della propria serie animata Paranoia Agent, è anche quello più azzardato e sperimentale. Tratto dal romanzo dello scrittore Yasutaka Tsutsui, Paprika, il film meno classicamente narrativo del regista, è tutto giocato sull’alternanza di due piani: quello reale e quello del sogno. Nel futuro descritto nell’opera, infatti, grazie a un dispositivo, il DC Mini, è possibile entrare nei sogni altrui e navigarli come se fossero un mondo parallelo ma tangibile. La trama è poco più di un pretesto per una serie di allucinate e affascinanti sequenze visionarie. E’ possibile individuare un ribaltamento stilistico, specie nella sequenza della parata dei giocattoli, rispetto a una scena simile presente nell’Akira di Otomo, in cui i balocchi degli esper anziani-bambini si trasformano in mostri inquietanti. La luce che investe le fantasie di Satoshi Kon è del tutto diversa da quella livida, oscura e desaturata degli incubi di Otomo. Qui ogni cosa è illuminata, vivida, colorata. Ma non per questo meno inquietante. La capacità di inquietare “in pieno sole”, per così dire, rimane uno dei pregi migliori di questo film.
Mentre è al lavoro sulla sua ultima opera Satoshi Kon muore, il 24 agosto del 2010, per un tumore al pancreas. Nel suo ultimo post sul proprio sito web, intitolato Sayonara, l’autore saluta con queste parole il proprio pubblico:
Pieno di gratitudine per tutto ciò che di buono c’è nel mondo, poso la mia penna.
Con permesso. Satoshi Kon
*Articolo realizzato in collaborazione con Andrea Tosti.