Esce nei cinema italiani il nuovo film di Ari Folman, The Congress, a cinque anni dal capolavoro Valzer con Bashir. E delle tante domande che The Congress (tratto dal romanzo Il congresso di futurologia di Stanislaw Lem, l’autore di Solaris) pone allo spettatore, una su tutte ci è sembrata centrale: qual è il confine fra realtà e riproduzione? Ovvero, nello specifico, in che modo l’animazione può essere considerata “riproduzione di realtà” o alternativa alla realtà stessa? Già, perché l’ultima opera di Folman sembra aprire squarci tutt’altro che scontati sul naturale dialogo fra media diversi, siano essi cinema, animazione o fumetto.
Le pellicole in cui cinema dal vivo e animazione convivono nella stessa immagine sono molte, ma poche pongono al centro del discorso proprio questa convivenza. Di primo acchito viene in mente Chi ha incastrato Roger Rabbit?, dove il compianto Bob Hoskins imparava ad accettare l’incorporeità e la follia del mondo animato di cui il coniglio Roger e tutti i suoi compari fanno parte. Qui la convivenza fra realtà e riproduzione animata era assodata: nello sviluppo della storia lo spettatore era conscio che il cartone animato nel mondo reale fosse un dato di fatto. Lo stupore era innanzitutto visivo: la tecnologia apriva nuovi, interessanti orizzonti cinematografici. Questa era la base su cui si è fondata quella sorta di trilogia, sempre firmata da Robert Zemeckis, in cui la riproduzione animata (questa volta in computer grafica, tramite la tecnica nota come motion capture) era riflesso del reale ma al tempo stesso espansione della fantasia del suo autore, il quale diveniva vero e proprio demiurgo. Polar Express, La leggenda di Bewoulf e A Christmas Carol sono stati realizzati con attori veri, i cui corpi erano ricoperti di sensori che “catturavano” la performance attoriale. Quindi, in Beowulf, Ray Winston interpretava Beowulf stesso e addirittura un drago.
Isao Takahata, tra i fondatori dello Studio Ghibli e regista, fra gli altri, di Una tomba per le lucciole, ha diretto un documentario che in pochi conoscono. Yanagawa horiwari monogatari (lett. La storia dei canali di Yanagawa) è l’unico suo lavoro in cui ha abbandonato la tecnica dell’animazione per un cinema dal vivo, addirittura documentaristico, legato quindi a doppia mandata alla realtà del mondo che sta riprendendo. Nonostante ciò, Takahata ha deciso di inserire nella pellicola segmenti animati con la sola funzione di spiegare e descrivere meglio i funzionamenti dei canali di Yanagawa. Andando a recuperare un esempio più recente ma altrettanto interessante (che forse più di tutti si avvicina al tema cardine di The Congress) si potrebbe citare anche The Lego Movie, in cui, all’improvviso, la storia animata dei Lego si rivela la creazione immaginaria di un bambino reale, impegnato a giocare coi mattoncini.
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Protagonista di The Congress è l’attrice Robin Wright che interpreta se stessa, ormai a margine dell’industria hollywoodiana e con un figlio disabile a carico. Vista la sua situazione decide di farsi scannerizzare, in modo che gli Studios possano usare la sua immagine a loro piacimento, per qualsiasi film desiderino. Anni dopo, il mondo scopre una nuova droga che permette all’uomo di vivere come fosse in un cartoon, dimenticando le miserie della vita reale, ma senza cancellarle davvero. The Congress inizia con uno sguardo in camera della protagonista. Già solo l’incipit si presenta come un manifesto: azzerare quell’intesa tacita fra spettatore e attore che rende il racconto credibile. Il film prosegue sotto forma di critica al sistema hollywoodiano, ma diventa un’incredibile riflessione sull’immagine del corpo attoriale e su cosa l’uomo desidera vedere e, di conseguenza, di come voglia vivere. Nel passaggio dal cinema dal vivo al cinema animato c’è uno scarto in cui si racchiude il significato stesso dell’opera.
Esiste, quindi, un confine fra reale e animato? The Congress pone e risponde a questa domanda in maniera radicale e, forse, estrema. Lo fa, molto semplicemente, con uno stacco di montaggio. Uno stacco che è molto simile a quello presente nel finale di Valzer con Bashir e che ha lo stesso, potentissimo significato. Il passaggio dall’animazione al reale in Valzer con Bashir poneva sullo stesso piano le due rappresentazioni ed estremizzava in termini drammatici l’intero racconto. In The Congress il passaggio dall’animazione al reale non fa che sottolineare la povertà e la disillusione di quest’ultima dimensione, un vuoto da cui, come suggerisce il finale, è necessario rinascere.
Le atmosfere e le tematiche che attraversano The Congress ricordano moltissimo il lavoro di Satoshi Kon, che sia in veste di regista che di mangaka ha sempre messo al centro del suo discorso il confine fra reale e la sua rappresentazione. Paprika, ma soprattutto la serie animata Paranoia Agent, sono due opere di Kon in cui il sogno diviene fuga dal reale, e il passaggio fra le due dimensioni incredibilmente facile e spaventoso. La contaminazione dell’universo reale con quello onirico crea disastri senza precedenti e, molto spesso, il sogno è l’incarnazione dell’opera fantasiosa generata dall’autore. Nel bellissimo Opus, manga incompiuto di Kon, il personaggio di un fumetto costringe il suo autore/creatore a entrare a far parte del suo mondo narrativo. Ma, a sorpresa, veniamo a sapere che lo stesso autore è frutto della mente di Satoshi Kon, che diventa così personaggio cardine del suo fumetto. Un gioco a incastri che, per certi versi, pone le medesime domande di The Congress.
Non è un film perfetto, The Congress. Non ha la compattezza storica ed emotiva di Valzer con Bashir e soffre di una dispersione narrativa che confonde lo spettatore, soprattutto nei segmenti animati. Ma è cinema allo stato puro, un concentrato di poesia e filosofia che, alla fine, rende la pellicola unica. E, soprattutto, ha una libertà espressiva che è una ventata d’aria fresca in un panorama sempre più desolante.
Nel panorama recente, è il film che, più di ogni altro, ci costringe a pensare al futuro in termini di intersecazione mediale: cinema, animazione, videogioco e fumetto dovranno necessariamente incontrarsi e – come stanno già facendo, nelle mani di creatori quali Folman – percorrere una lunga strada insieme.