Viviamo in un’epoca presuntuosa e insieme meschina. Così mentre la scienza si prodiga a prolungare innaturalmente la vita ai vecchi, la tecnologia s’incarica di rubare posti di lavoro ai giovani, togliendogli il pane di bocca. Devono essere la delusione per il presente e l’apprensione per il futuro a renderci tanto devoti al passato. Non c’è ricorrenza gradevole o sgradita che non venga puntualmente ricordata, commentata, discussa, celebrata come se si trattasse, sempre, di qualcosa di eccezionale veramente. Siamo ammalati di un’influenza di nostalgia perpetua. Da quanti mesi, tra poco saranno anni, viene celebrato il Centenario del Cinema, anche se il cinema non versa affatto in buone condizioni ed è addirittura svenduto nelle edicole come gadget per i giornali a loro volta in crisi?
Le commemorazioni sono allestite con riti quasi sempre uguali. Qualche volta più truffaldini, qualche altra meno. Ma le varianti sono poche. Per il Centenario del Cinema qualsiasi film di qualsiasi tipo è incassettato con l’etichetta del capolavoro. I giornali che lo regalano servono solo per involtare il capolavoro. La spesa alle edicole ha cambiato completamente stile. I giornalai sono chiamati a sostituire le cassiere dei botteghini dei cinema meno frequentati. I critici cinematografici hanno perso terreno nel senso che sono meno consultati perché non sempre disposti ad avallare le scelte di titoli.
Gli squinzi e soprattutto le squinzie che praticano la disinformazione telefonica preferiscono intervistare i c.d. tuttologi con domande varietà: “In occasione del Centenario del Cinema, mi può fornire i dieci titoli di film da lei giudicati più belli e i dieci più brutti? Con motivazioni, naturalmente. Le posso lasciare tempo sino a domattina. Mi dispiace, ma il giornale chiude…”. “Lei pensa che il Cinema sia stato effettivamente ucciso dalla Televisione? O che sia decaduto per conto suo, per incapacità di chi ne fa ancora? Le pare giusto insistere?…”. “I film risuscitati in occasione di questo Centenario del Cinema sono stati oculatamente scelti per rinverdire la passione del grande schermo nel pubblico? Non si è troppo dimenticato il bianco e il nero a favore del colore? Il bianco e nero era magico, perché non se ne fanno più in bianco e nero?…”. Qualche domanda, a volte, è persino pertinente. Ma per caso.
Non sono un tuttologo e non smetto di dichiarare di non esserlo, ma, forse, anni e anni fa, ho sbagliato a rispondere alle prime domande telefoniche. Ma erano altri tempi, le donne nei giornali femminili non erano ancora considerate giornaliste ma impiegate. Così mi è capitato di rispondere anche su cose che non mi sognavo di sapere, insomma di provare a ragionare insieme con le intervistatrici, che, del resto, allora non erano affatto squinzie, ma lottavano contro un’ingiustizia.
Alberto Moravia, che allora era senz’altro riconosciuto come il maggiore scrittore italiano anche all’estero, dava lezioni di gentilezza, rispondendo a tutte le sue intervistatrici con una grande pazienza e una fervida solidarietà. Autodidatta, non si peritava di tentar di fabbricare all’istante, per amor di dialogo, nuove, ardue teorie che andavano a finire come perle tra le pagine, marroncine e cilestrine nei rotocalchi di Angelo Rizzoli. Come non seguire il suo esempio? Ma poi tutto è cambiato, quando ai direttori è balenata la possibilità di fare i giornali più o meno gratis a forza di molestie telefoniche. Tutto è diventato un inferno. E continua. La giornata, a volte, più d’una volta per la verità, passa non a lavorare per questo giornale che mi paga, ma a cercar di non fare una brutta figura telefonicamente e, puntualmente, a farla.
Il mio guaio particolare è che non so quasi nulla di niente, ma che mi sono sempre occupato, per campare, di film, strip e spot. E, dunque, non ho scusanti per non rispondere. Consideravo esaurite le cerimonie per il Centenario del Cinema, e mi godevo il sollievo di esser stato relativamente risparmiato, quando è stata aperta la caccia per il Centenario del Fumetto. L’inizio è stato semplice, ma molto efficace. È squillato, naturalmente, il telefono, ho tirato su incautamente la cornetta: «Mi dovrebbe parlare un po’ del Centenario del Fumetto…» ha detto una voce gentile.
«E lei cosa ne sa?…», ho detto. La voce era quasi angelica, ma, in pratica, ha pronunciato una condanna piuttosto capitale: «Niente. Il Direttore mi ha detto di intervistare lei, che lei sa tutto…». «Niente», ho cercato, «sono alla pari con lei». Non ha affatto gradito, l’angelicità è svanita, è sopravvenuta la più zelante squinziaggine persecutoria: «Ho poco tempo a disposizione», ha sentenziato e ha aggiunto un tocco di rancore. «Dopotutto, cosa le costano cinque o sei minuti di collaborazione?…». «E in cinque, sei minuti dovrei raccontarle cento anni di storia?…», mi sono scandalizzato. «Non esageri, ora», mi ha rimesso a posto, «si tratta pur sempre di fumetti, no? Un genere che, poi, non va gran bene…».
«E cosa ne sa lei?…», ho protestato. Ha fatto una risatina da carognetta. «Siamo alla pari, no? L’ha detto lei… È una delle tante cose destinate a finire tra i saldi del secolo. Inutile insistere. Hanno avuto il loro quarto d’ora di notorietà, e poi il tempo è scaduto…». Mi sono arrabbiato perché mi sentivo arrabbiare, e non volevo farlo sentire, dovevo controllare la mia voce: «Ma se si è già fatta un’opinione così precisa, perché mi sta a… a a», ripetevo a, e non trovavo la parola giusta: non poteva essere a “tormentare” come ero tentato di dirle. Anche al vittimismo c’è un limite. In fondo, mi è venuta in soccorso lei, forse senza neppure volerlo: «Perché il mio Direttore aveva dieci anni quando è uscito il primo numero di “Linus” e lo rubava a suo fratello maggiore. Cose a cui è ancora affezionato adesso. Il fumetto come messaggio popolare, il fumetto come messaggio universale, il fumetto come discorso politico. Forse, questa è l’unica cosa azzeccata veramente. La politica è davvero un fumetto…» Finalmente, sono riuscito a parlare con un minimo di tranquillità. «Senta, parlo sul serio, non voglio litigare. Potrei essere suo nonno. Quello che lei dice, lo trovo interessante. Non che lo condivida, mi è proibito dall’anagrafe, ma le conviene proprio farla lei, la commemorazione del Centenario del Fumetto. Spetta di diritto a lei. Le commemorazioni devono farle i posteri che sanno che una cosa, una persona, o anche una semplice idea sono morte. Chi le crede ancora vive non può…». Mi ha interrotto.
«Non faccia troppo il nonno. I nonni ricattano sempre con il sentimentalismo…». E nel mio orecchio è frusciata di nuovo quella risatina da carognetta. Ma io ormai non pensavo più a lei. Pensavo ad altro. Pensavo all’arrivo dei fumetti in Italia. Fu come se fossero degli ufo. Arrivarono camuffati perché chi era in combutta con loro temeva di compiere un passo troppo arrischiato e aveva estirpato dalle vignette americane i veri e propri fumetti, quelle nuvolette che ospitavano le parole dei personaggi. E per di più erano accompagnate in calce da quei versicoli baciati o ribaciati che completavano il camuffamento. Quelle poesiole melense che costituivano la goduria degli adulti che ci compravano il «Corrierino» per leggerselo loro ad alta voce. A esempio, per il fumetto sfumettato Buster Brown, ribattezzato Mimmo: “Dice Mammola: Che tomo, par che in culla ci sia un uomo. Dice Mimmo a Mammoletta: or facciamo una burletta…”. E per Happy Hooligan ribattezzato Fortunello: “Rotoloni per la china, quasi in ciclica mina. Ma la Mula scostumata beve il mosto ed è beata…” e per Katzenjammer Kids ribattezzati Bibì e Bibò: “Un riso formidabile scappò a Tom dalla strozza e il pittor spaventato ruppe la tavolozza…”. Poesie del grande critico teatrale Renato Simoni, risate dei nostri genitori. Le risento, quelle risate di ombre. Ma qual è il primo sfumetto con cui ho avuto un incontro ravvicinato di qualche tipo?
*Questo testo è stato originariamente pubblicato su La Stampa del 4 aprile 1996 e ripreso dal volume Sul fumetto di Oreste del Buono, a cura di Daniele Brolli, in libreria per Comma22.
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Gallery: Oreste Del Buono in mostra al WoW di Milano