di Stefania Rumor
Oreste del Buono è stato il mio professore, il mio magnifico rettore. Dato che l’università l’ho fatta a «Linus». Sono entrata in redazione nel marzo del 1976, avevo diciotto anni. Abitavo fuori Milano, prendevo un treno all’alba e arrivavo in ufficio molto presto, ma quando arrivavo OdB era già al suo posto. Prima che la redazione si popolasse ci voleva un’ora, e in quel frattempo rimanevo a chiacchierare con lui di quanto era successo nel mondo. Immaginate una ragazza appena in odor di diploma e un intellettuale che aveva navigato i difficili anni del Dopoguerra e vissuto quelli, atroci, dell’oppressione fascista. Be’, il secondo si era offerto di aiutare la prima a preparare la maturità. Anzi, di più: saputo che lei, dovendo portare un autore contemporaneo all’esame, aveva optato per Alberto Moravia, compose semplicemente il numero di telefono dello scrittore e glielo passò.
Quella è stata la prima, delle numerose volte in cui OdB mi ha stupito. Riusciva sempre a stupire, forse perché non finiva mai di stupirsi lui per primo. Possedeva antenne sensibili capaci di intercettare prima di altri quelle che sarebbero diventate “tendenze” (gli anni Ottanta si avvicinavano e si iniziava a chiamarle così); era molto attento a tutti i ragazzi del Movimento che bazzicavano in redazione. Coglieva il genio in personaggi che a me sembravano solo un tantino strambi, e si invaghiva di certe idee bislacche che si rivelavano puntualmente molto interessanti. Ciò che era controcorrente diventava la strada da seguire, lui cavalcava questi flussi. Frequentare la scuola OdB voleva dire frullarsi dentro tutto quel che di nuovo succedeva. E soprattutto, imparare a essere curiosi.
Io sono arrivata proprio quando stava per manifestarsi il movimento del ’77: «Linus» divenne subito un catalizzatore di menti pensanti, provenienti da generazioni diverse, che avevano in comune una non sopita curiosità per il nuovo. «Linus» parlava di politica in modo laterale, descriveva il mood “trasversale del desiderante” di quella generazione: nei fatti prendeva posizione, ma parlava di linguaggio; proponeva (e proponendo analizzava) le storie che nascevano con urgenza nell’humus ribollente della controcultura; metteva insieme alto e basso. Il linguaggio, potente, attraverso cui proponeva queste storie ai lettori era quello dei fumetti. I collaboratori di allora, anche i più blasonati, erano costretti a confrontarsi con la presenza di quei quadretti. è sempre stato così. Forse è proprio questo incontro, il motivo per cui «Linus» è rimasta l’unica ancora viva tra le riviste nate tra gli anni Sessanta e Ottanta. OdB fu artefice e promotore di questo incontro, da quando prese la direzione di «Linus» nel 1971, a seguito della cessione dell’editrice Milano Libri alla Rizzoli.
Ai tempi del mio arrivo in redazione sentivo spesso parlare (ne sento parlare ancora oggi che di acqua sotto i ponti ne è passata) della conversazione sul fumetto tra Oreste del Buono, Elio Vittorini e Umberto Eco. Era stata pubblicata sul primo numero diretto da un altro genio, Giovanni Gandini, con l’aiuto dell’amico Ranieri Carano, colui che letteralmente inventò gran parte di quella neolingua che imporrà a un vasto pubblico strisce a fumetti americane surreali e imprevedibili: Peanuts naturalmente, ma anche L’il Abner, Pogo… Nei locali di corso Garibaldi 86, a Milano, si raccontava che era anche merito di quel gruppetto di intellettuali un po’ carbonari, un po’ “katzenjammer kids”, se il fumetto europeo dagli anni Settanta in avanti era riuscito a crescere e ad affermarsi come linguaggio autonomo. Non ci fosse stato «Linus», la prima rivista del genere al mondo, forse non sarebbe nato «Charlie Hebdo» in Francia, e tante altre riviste che pubblicavano fumetti.
La satira del «Linus» di OdB era più di costume che politica, e affidata agli autori di fumetti. Conobbi Renato Calligaro, che con Oreste e Nicola proponeva un punto di vista critico all’interno della sinistra, e idealmente seguiva la strada tracciata da Roberto Zamarin con Gasparazzo, l’operaio-massa le cui strisce erano pubblicate su «Lotta continua»; poi Chiappori e di conseguenza l’anarchico sessantottardo UP il sovversivo; naturalmente Altan, con il primo Cipputi del 1976; Pericoli e Pirella; più avanti arrivò Sergio Staino con Bobo sottobraccio: OdB ne rimase letteralmente folgorato.
L’esperienza che ricordo con maggior affetto, però, è lo sbarco dei fumettisti-pittori-fotografi-poeti di area soprattutto bolognese. Loro in qualche modo idealmente più vicini alla mia generazione e alla mia esperienza. Il fumetto di quell’epoca era ricco di referenze e citazioni, gioiose e cupe, delle avanguardie artistiche del Novecento: dada, surrealismo, futurismo, espressionismo, pop art, arte concettuale, avevano segnato profondamente quella generazione. Se ne parlava.
Del Buono era generoso nell’offrire riferimenti, mi raccontava in che terre affondavano le radici dell’arte narrativa di questi nuovi autori onnivori, Andrea Pazienza e Filippo Scozzari prima, poi Lorenzo Mattotti e Igort – gli apripista di una pattuglia di autori con cui OdB intreccerà rapporti sempre più stretti negli anni successivi, quando già aveva abbandonato la Rizzoli – e Giorgio Carpinteri, Marcello Jori, Daniele Brolli. Mi parlava di legami con certe esperienze letterarie e artistiche del dopoguerra, (in fondo Nanni Balestrini, Umberto Eco e Alberto Arbasino figuravano tra i collaboratori della nostra rivista), con la storia culturale stessa del nostro paese. Intanto, le stanze della redazione erano frequentate, oltre che dagli autori di fumetti, da giovani critici e scrittori, arrembanti figli del gioioso ’77 degli indiani metropolitani, di RadioAlice e Macondo (non quello di Márquez, bensì un locale milanese: di area autonomo-ludica, più che luddista), della gente che frequentava il centro sociale Santa Marta, luogo in cui si incontravano rock progressivo, fumetti e performance artistiche. Come dire: gli Area e Andrea Pazienza, a braccetto. C’erano brandelli del movimento studentesco, buoni maestri e praticamente tutti gli autori, giornalisti, intellettuali che nei decenni successivi avrebbero animato la storia culturale del nostro paese. Spesso nel bene, a volte nel male. Io mi sono trovata catapultata in mezzo a quegli stimoli. Del Buono si appassionava e mi faceva appassionare, per esempio, a quegli strani fumetti francesi dei «Métal Hurlant»… alla fine li pubblicammo, noi per primi fuori dalla Francia. Un resoconto di quegli anni non può che essere caotico.
Diciotto anni, cresciuta a Satanik, Kerouac e Noi e il nostro corpo, conoscevo un bel po’ di ragazzi e ragazze borderline. Era inevitabile che mi facessi delle domande. In quei momenti del Buono era una presenza rassicurante, gli piaceva spiegare – per lo meno, a me – e lo faceva con infinita pazienza. Riusciva a cogliere dettagli per così dire poetici, nel grande dramma collettivo di quei tempi tagliati dall’eroina, dalle pallottole delle Brigate Rosse e dalle bombe fasciste. E poi esprimeva il suo apprezzamento per cose semplici, come il fatto che riuscissi a intrattenere buoni rapporti con tutti, autori, collaboratori… con alcuni era facile, soprattutto Hugo Pratt, veneziano come me.
Scriveva con due dita, ma con la velocità di una dattilografa esperta, come pensando con quei polpastrelli che battevano sui tasti forsennatamente. Scrisse un editoriale straziante dedicato ai funerali di Fausto e Iaio, in cui con estremo dolore registrava il solco che si era aperto tra sinistra e sinistra.
Ma i suoi editoriali erano sempre illuminanti, mese dopo mese. Anche quando prefigurò le sue dimissioni, non solo professionali, titolando una serie di fondi: “andarsene”. Di lui si sa che si dimise un numero allucinante di volte: perché era non solo intellettualmente (e personalmente) generoso, ma anche un uomo retto. E un raffinato umorista. Soffrì moltissimo, e soffrii molto anch’io, quando decise di dare le dimissioni a seguito dell’affaire P2 che sconquassò la casa madre Rizzoli. Eravamo nel 1981.
Allora la vita nel giornale era stimolante, varia e non mancava di suspense: OdB non era solo paziente, colto, informato. Era anche un po’ pazzerello, un tipo bizzoso che quando gli giravano era meglio non stargli tanto intorno. Credo che della redazione apprezzasse molto anche il fatto che sapeva trasformarsi, quando ce n’era bisogno, in una sorta di rassicurante scudo umano nei confronti del mondo fatto di petulanti questuanti, di giovani autori misconosciuti ma già dotati di potente super-io. Spesso, infatti, colto alla sprovvista, specie se in missione in qualche altrove per conto di dio, non sapeva dire di no, per un sacco di umanissime ragioni…
Con del Buono il filo non si è mai spezzato tra il 1981 e il suo ritorno, nel 1995, quando RCS cedette a Baldini&Castoldi la testata. Ci si sentiva, lui ci confortava e spingeva ad andare avanti. Così, quando dopo 14 anni il mio maestro ritornò (anche se nell’editoriale del primo numero del suo ritorno, lui si definì bidello della scolaresca linusiana), fu molto semplice riprendere il discorso. Non si era mai interrotto. Lui si buttò nel nuovo corso con l’entusiasmo che conoscevo, volle subito riportare sulle pagine di «Linus» Jori e Igort appena tornati dal Giappone, e dedicò copertine tridimensionali ai loro personaggi. Si invaghiva follemente di alcuni autori ma chiedeva sempre un parere e a volte il confronto era anche aspro. Quando eravamo in disaccordo su alcune scelte, se alla fine si optava per la soluzione che avevo proposto io, una volta arrivati gli stampati era sempre pronto a riconoscere che era stata una buona idea. “Stefania, ha fatto bene a imporsi, aveva ragione lei.” Con OdB ci siamo sempre dati del lei.
Uno scambio quotidiano, mentre si viveva in qualche modo insieme, in una dimensione più minimale. Qualche mese dopo l’acquisto da parte di Baldini&Castoldi di «Linus» la redazione si era trasferita in un appartamento di via Mario Pagano, dalla parte opposta della città. Si andava a mangiare nel bar con cucina del nipote di Enzo Bettiza. Ottimo cuoco, un po’ di destra. Si scatenavano discussioni. Da bar, appunto: tutto sommato poco impegnative, ma liberatorie. Certo le cose intorno a noi erano cambiate enormemente, tutti ce ne rendevamo conto: i movimenti spazzati via, persino quel po’ di vivacità culturale degli anni Ottanta apparentemente sepolta. Fare un giornale come «Linus» in quelle condizioni storiche era obiettivamente molto più difficile. Ma abbiamo cercato di tenere duro.
Dal 2000 o giù di lì, purtroppo il mio direttore ha cominciato a diradare la sua presenza in redazione: si era ammalato. Le riunioni le facevamo al telefono (B2B, che le conference call ancora non usavano). Negli anni successivi e fino alla sua morte, il rapporto è stato più sentimentale. Un filo mai spezzato, nonostante la lontananza: lui si era stabilito a Roma, dalla sua Lietta.
Questo testo costituisce l’introduzione, firmata da Stefania Rumor, al volume Sul fumetto di Oreste del Buono, a cura di Daniele Brolli, in uscita oggi per Comma22.
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