HomeFocusProfiliTullio Avoledo, scrittore fumettòfilo e lettore di The Walking Dead. Intervista

Tullio Avoledo, scrittore fumettòfilo e lettore di The Walking Dead. Intervista

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di Andrea Alberghini

Tullio Avoledo, autore del celebre L’elenco telefonico di Atlantide e di diversi romanzi e racconti (pubblicati per lo più da Einaudi), è certamente uno dei maggiori e più noti scrittori italiani contemporanei. Ma Avoledo è anche un narratore dalle caratteristiche insolite: pur concentrando le sue storie sull’Italia dei nostri tempi, tende a mescolare ingredienti gialli e fantastici, calando le sue trame nel contesto del territorio della provincia friulana, da cui proviene. Uno scrittore in grado di entrare ed uscire con naturalezza da un approccio “di genere” e che – forse proprio per questo – non ha una alcuna remora a riconoscere il proprio tributo verso la cultura fumettistica. Lo abbiamo incontrato, per discutere con lui di fumetto, e in particolare di una sua solida passione: la serie The Walking Dead.

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In più occasioni, nel corso di interviste o incontri pubblici, hai espresso la tua ammirazione per The Walking Dead, il fumetto di successo ideato da Robert Kirkman che ha da poco celebrato i dieci anni di vita editoriale. Che rapporto hai col fumetto, in generale? Leggi fumetti occasionalmente o sei un appassionato?

Sono da sempre un lettore di fumetti, e ho finito per passare questa abitudine ai miei due figli. Calvin & Hobbes e Bloom County, poi V. for Vendetta, Watchmen e così via. I fumetti sono entrati nella mia vita molto presto, quando nella soffitta di un amico divoravamo vecchie annate del Vittorioso, di cui ricordo soprattutto certe incredibili storie di Jacovitti. E poi Tex, Zagor, Capitan Miki, L’Intrepido, e le storie del Corriere dei Piccoli: Michel Vaillant, Dan Cooper… Dei fumetti di Dan Cooper, un astronauta canadese, ho comprato recentemente l’integrale. Così come ho l’integrale delle storie dei fumetti di Doonesbury, di Luc Orient e di Jeff Hawke. Potrei andare avanti a lungo, ma mi fermo a Dylan Dog (i numeri “storici”) e a due indimenticabili disegnatori Disney come Carl Barks e Don Rosa.

Quindi penso proprio di potermi definire appassionato di fumetti, sì. Decisamente sì. D’altra parte Pordenone è terra di fumettisti. Penso a Davide Toffolo, a Barison. Grandi narratori per immagini.

Trovi che rispetto al cinema, ai videogiochi, ecc. offrano stimoli particolari alla tua attività di scrittore?

Come scrittore credo di aver imparato la tecnica di sottrazione: un fumettista deve rendere una situazione con pochi dettagli: descrivere la Londra vittoriana, per dire, mostrando solo una porta e l’ombra di un lampione. Non può perdersi nei dettagli, com’è invece libero di fare un romanziere. Deve imparare ad alludere, a far capire con pochi segni. Questa è una lezione che credo di essermi portato dietro nella mia valigia di scrittore.

Come hai conosciuto The Walking Dead? E’ stato un amore a prima vista o hai impiegato del tempo ad appassionarti? In questo secondo caso: cosa ti ha spinto a continuarne la lettura?

È stato un puro caso. Scorrevo le pagine di Amazon in cerca d’altro, e mi sono imbattuto nella copertina del primo trade paperback americano, Days Gone By. Era il 2004, credo. L’ho ordinato, e mi ha letteralmente catturato. Sono un fan della prima ora. È per questo che non guardo più la serie tv. La storia perde terribilmente fascino, passando dalla carta allo schermo. La violenza grafica delle immagini si stempera, sembra l’Inferno di Dante illustrato da acquerelli di Manara anziché dalle incisioni di Doré (con tutto il rispetto per Manara: L’Asino d’oro e i I Borgia sono dei capolavori).

Aspetto ogni numero di TWD con l’ansia di un adolescente. Il motivo è semplice: sono storie che ti lasciano sempre la voglia di scoprire cosa succede dopo. Niente stanca il lettore, anche con episodi apparentemente “statici” come quelli iniziali ambientati nella comunità di Alexandria. Credo ci voglia una grande abilità per tenere legato il lettore alla storia: ho usato, in parte inconsciamente, tecniche simili per scrivere Mare di Bering, che con Un buon posto per morire resta il più “fumettistico” dei miei romanzi. E poi c’è il fatto, incredibilmente realistico e lontanissimo dalle regole narrative comuni, che anche i protagonisti possono morire. La morte della moglie di Rick, o l’assassinio di Glenn, mi hanno lasciato attonito per un bel po’. Soprattutto la morte di Glenn. Continuerei a leggere il fumetto anche solo per vedere Negan punito come si merita. E so che succederà, com’è già successo al Governatore.

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The Walking Dead è un fumetto di zombie. Tu hai “quasi” scritto una storia di zombie; mi riferisco all’aneddoto riguardante la prima stesura – chiamiamola così – del tuo libro La ragazza di Vajont

Ah sì, questa è bella e va proprio raccontata. Ero in Sardegna, al festival di Gavoi, e l’ufficio stampa di Einaudi mi chiese una sinossi, un breve riassunto del mio romanzo in fase di scrittura. Io in quel momento non avevo idea di dove sarebbe andato a parare, quel romanzo. Così, in uno dei momenti “Dada” che a volte mi prendono, inventai una storia di morti viventi a Vajont. Scrissi il riassunto di quella storia delirante e lo mandai all’editore. Qualche settimana dopo inviai il riassunto giusto. Purtroppo, per la Buchmesse – la fiera del libro di Francoforte – l’Einaudi usò per il suo depliant una traduzione della prima sinossi. Quella dei morti viventi…

Quando lessi il testo stampato sbiancai. La cosa bella è che al Salone del Libro di Torino vennero a chiedere di me due produttori di Hollywood interessati alla mia storia di zombi. Quando seppero che il libro parlava di tutt’altro girarono i tacchi. Provai a dire che in un paio di mesi potevo scrivere un soggetto come quello della falsa sinossi, ma non se ne fece nulla. In un universo parallelo, ma purtroppo solo lì, forse esiste un film di zombi tratto da La ragazza di Vajont. E magari ha vinto l’Oscar.

Comunque ti annuncio in anteprima che quest’anno prenderò parte a un progetto letterario italiano ispirato al Diario di un sopravvissuto agli zombie di J.L. Bourne. Divertendomi come con Metro 2033.

Curiosità a parte, nel tuo ultimo libro Le radici del cielo (Multiplayer, 2011) ti sei confrontato con uno scenario post apocalittico tinto di elementi orrorifici e hai toccato il tema della sopravvivenza di gruppi organizzati in un mondo ostile. L’Homo homini lupus è anche uno dei temi di The Walking Dead, dove la minaccia zombie passa presto in secondo piano rispetto al violento manifestarsi del lato predatorio della natura umana. Credi che il successo di questo tipo di letteratura, dopo averla anticipata, sia legato alla crisi generalizzata che stiamo attraversando?

È una delle possibili spiegazioni. Non a caso in TWD gli zombi sono diventati quasi un elemento di contorno rispetto alle bestie umane. La cosiddetta “civiltà” è una patina così sottile. Quando una società entra in crisi ogni regola rischia di non tenere più. Il passaggio dalla normalità alla catastrofe potrebbe essere quasi immediato. I canali di rifornimento di un Paese occidentale sono così complessi e fragili che basterebbe un evento anche non catastrofico, tipo uno sciopero prolungato dei camionisti, per precipitare quel Paese nel caos. Paradossalmente i Paesi più poveri sono anche i più attrezzati per sopravvivere a un’eventuale catastrofe di tipo ordinario. Un’invasione zombie sarebbe tutto un altro paio di maniche. Di fronte a una cosa del genere saremmo tutti a rischio, con uguali (minime) possibilità di sopravvivenza. Ricchi come poveri, europei come africani. I ricchi avrebbero certi vantaggi competitivi nella lotta per la sopravvivenza, i poveri ne avrebbero altri. Credo che il successo di massa della letteratura e del cinema zombie nascano dalla percezione della fragilità del nostro modo di vivere. Anche se il film che mi ha terrorizzato di più negli ultimi anni è stato quello tratto dal romanzo La strada di Cormac McCarthy. E lì la minaccia era umana, non zombesca. Terribile. Di una violenza quasi insopportabile.

Cosa ti ha maggiormente colpito di The Walking Dead? La caratterizzazione dei personaggi? Il passo della narrazione? La gestione della tensione? I pugni nello stomaco che Kirkman assesta al lettore?

Il complesso di tutte queste cose e il modo sapiente in cui vengono miscelate, senza mai esagerare. A mio avviso c’è anche un altro elemento accattivante, esplicitato sulla copertina dei trade paperback americani: avere a che fare con un pericolo di morte quotidiano ti fa riscoprire il valore della vita. Da quanto tempo non ti sentivi più vivo? – chiede il fumetto. Da quanto tempo non davi più importanza alle cose che davvero contano? Alle altre persone? I morti viventi riportano in vita anche noi. E poi c’è il grande senso di precarietà che incombe su ogni pagina… Un critico inglese scrisse, a proposito della musica di Tobias Hume, un soldato e compositore inglese del ‘600, che la forza e l’intensità delle sue canzoni esprimevano “la vita e l’amore prima della penicillina”. Il mondo di TWD è un mondo di sentimenti intensi, di dolori acuti. Niente di più lontano dalla palude buonista e politicamente corretta dei nostri giorni.

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Quanto conta secondo te la struttura seriale di The Walking Dead nella sua eccezionale presa sul pubblico? Kirkman sfrutta il formato standard del comic book americano (che ha una sua tradizione consolidata) per ottenere effetti spiazzanti che personalmente ritengo si perdano un po’ nella successiva raccolta in volume degli archi narrativi. Sei d’accordo? Più in generale, quanto pensi che contino elementi come questo, cioè esterni al puro e semplice ‘testo’, in letteratura? Potrebbero essere sfruttati più consapevolmente a fini narrativi anche e soprattutto nel romanzo scritto?

Sicuramente. Nel fumetto l’impaginazione ha un’importanza fondamentale, e lo stesso vale, secondo me, anche per i romanzi. Forse dipende dalla mia formazione cinematografica, ma personalmente ho sempre avuto una forte sensibilità per i tempi e il ritmo della narrazione, e per la “cornice” rappresentata dai singoli paragrafi e capitoli. Kirkman è un maestro di questa tecnica.

The Walking Dead è una serie in bianco e nero, scelta certamente azzeccata per un fumetto horror che tra l’altro, nell’affrontare la tematica, richiama per molti versi il capolavoro del 1968 di George Romero Night of the Living Dead, capostipite dei film di zombie. Cosa pensi dei disegni di Adlar? Trovi efficace il suo stile? Quanto contribuisce secondo te alla costruzione dell’atmosfera?

È un tratto grezzo, brutale, che mi ricorda molto Alberto Breccia, o una grande artista del passato come Käthe Kollwitz. Espressionismo, ma con alcuni dettagli grandiosi, nascosti al lettore superficiale. Ho in mente certi dettagli malinconici degli interni devastati, o i primi piani degli zombie che rivelano la loro personalità passata, con effetti a volte grotteschi, altre volte tragici. Il passaggio di consegne da Tony Moore a Charlie Adlard secondo me è stato un asso vincente per Kirkman. Anche se Battle Pope del duo Kirkman-Moore era una gran bella idea.

Come tutte le storie horror, anche questa parla di mostri per esercitare una critica feroce sulla società, spogliandola delle sue ipocrisie. È anche una storia sui rapporti tra padre e figlio, una tematica che hai affrontato direttamente in Tre sono le cose misteriose (Einaudi, 2005) ma che compare spesso nei tuoi romanzi…

Beh, le logiche predatorie della cosiddetta società moderna sono sempre più evidenti. Su un’antologia americana del 2010 intitolata The New Dead è apparso un racconto di Aimee Bender, Among Us, che fra l’altro descrive i comportamenti economici aggressivi di una multinazionale come comportamenti tipici degli zombie. Un grande racconto. Illuminante. Almeno la società vittoriana (un’epoca che ha più di un tratto in comune con la nostra) era un po’ meno ipocrita nel suo atteggiarsi verso i deboli, le cosiddette “classi inferiori”. I film di Romero, come TWD, dicono un sacco sulla nostra società. Sono molto più che semplici film e storie dell’orrore. Quanto ai rapporti tra padre e figlio, beh, il modo in cui evolve il rapporto tra Rick e Carl è di una finezza psicologica notevole. Niente di più diverso dallo stereotipo del fumetto così come lo vedono gli ignoranti.

Dopo 119 numeri (numerazione americana) trovi The Walking Dead interessante come all’inizio, o ritieni che Kirkman abbia già dato il suo meglio?

No, il meglio deve ancora venire. C’è tutto un mondo, là fuori. E poi c’è la punizione di Negan. Spero che non mi facciano attendere ancora a lungo.

Un’ultima curiosità: stai leggendo qualche nuovo fumetto che ti appassiona?

Sto leggendo con entusiasmo e curiosità la saga francese del Triangle Secret: la storia di Cristo che non muore sulla croce, sostituito dal gemello, e della caccia scatenatasi durante i secoli fra tre diverse fazioni per scoprire il segreto nascosto nella sua tomba. È una serie delirante, tutta da godere. Le varie epoche storiche sono affidate a disegnatori diversi, e anche questa è una cosa interessante. Purtroppo in Italia sono stati stampati solo i quattro volumi dello spin off INRI, oltretutto in un formato assolutamente inadeguato: troppo piccolo, si perde quasi tutta la bellezza del disegno. Peccato. Ora sto cercando di procurarmi gli ultimi volumi della saga. Potrei scaricarli e leggerli sul PC, ma sono un feticista, e devo assolutamente leggerli sulla carta. E nel formato giusto.

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