La notizia è recente: PictureBox ha chiuso i battenti. Il modello economico su cui si basava questa piccola, ma importante, casa editrice era diventato economicamente insostenibile per il suo fondatore e unico dipendente. Un regime che nonostante un crowdfunding attivato dai fan e dalla stima indiscussa delle critica e dagli addetti ai lavori non è riuscito ad affermarsi. La notizia ha comunque colpito un po’ tutti, soprattutto in un periodo di estrema crisi che sembrava, invece, nei limiti, premiare le piccole attività indipendenti.
L’occasione ci permette, però, di parlare dell’esperienza PictureBox e di spingere quanti ancora non conoscano la sua produzione a saccheggiare il catalogo eccezionalmente scontato del 50%.
Dietro PictureBox – casa editrice di Brooklyn, NY fondata nel 2004 – c’era la poliedrica figura di Dan Nadel, condirettore del magazine online tcj.com (la sponda web dello storico The Comics Journal), curatore di antologie fumettistiche come Art in Time e Art out of Time, organizzatore di mostre e retrospettive, blogger, nonché vincitore di un Grammy Award per aver ideato l’artwork di Ghost is Born dei Wilco.
Il punto di forza della PictureBox era quello di porsi non solo come una casa editrice interessata al fumetto come genere narrativo, ma di pensarlo come una declinazione generale della cultura visuale americana, o meglio di una specifica cultura visuale: quella «underground». Sfogliando il catalogo è facile accorgersi dell’eterogeneità dei titoli proposti, il cui comune denominatore è una qualità intrinsecamente artistica e la «marginalità», rispetto al mainstream – nonostante il rapporto profondo e ambivalente con lo stesso. Una marginalità attivissima che ha operato una sottile svolta nel fumetto americano dopo l’esplosione dell’underground negli anni Novanta e che negli anni zero ha ormai acquisito lo status di fenomeno di culto.
Nata dall’evoluzione di Ganzefeld, una rivista antologica, la PictureBox ha da subito messo in chiaro la sua vocazione, pubblicando un autore come Trenton Doyle Hancock o dedicando uscite a gruppi come i Black Dice, certo di non facilissima presa per il grande pubblico. Anzi, la scelta di autori come C.F. (al secolo Christopher Forgues), Brian Chippendale e Gary Panter era per Nadel un modo chiaro di affermare l’identità della propria casa editrice, rivolgendosi ad un particolare pubblico, certo di nicchia, ma in costante crescita.
La stessa selezione operata da Nadel viaggiava in questa direzione: da una parte legata ai propri interessi, dall’altra ad assecondare i gusti di un target ben preciso, fatto di aficionados e collezionisti hard-core, interessati a finanziare artisti e gruppi appartenenti a quell’affascinante e sfuggente continente noto come «underground».
Picture Box è nata, quindi, con l’intento di rispondere a questo gusto, che nell’arco di un decennio ha raggiunto una sua maturità, proponendo artisti come il già citato Brian Chippendale, batterista del fondamentale duo math-rock Lightning Bolt nonché del progetto noise Black Pus, ma anche autore di fumetti da tratto weird, pasticciato e intricatissimo, come Ninja e If-n-Oof. O mangaka come Yuichi Yokoyama, dal tratto ipercinetico e retro-futurista, e l’impubblicabile Takashi Nemoto. Non mancano nomi eccellenti sia in campo fumettistico come Jim Steranko, Wally Wood e Spain Rodriguez, che musicale come Peter Blegdav e il mitico Don Van Vliet, in arte Captain Beefheart.
Tra i tanti nomi che affollano la diversificata – e quasi schizofrenica – produzione dell’editore, è impossibile non citare Frank Santoro o pionieri dell’estetica punk come Gary Panter, di cui fa bella mostra nel catalogo un’edizione deluxe (decorata a mano) del suo Hot Burrito, venduta alla modica cifra di 1000 dollari. Tra le ultime e conclusive uscite, quella che non può mancare nello scaffale di ogni appassionato è la rivista antologica Kramer’s Ergot curata da Sammy Harkham, con contributi di artisti come Kevin Huizenga, Dash Shaw, Johnny Ryan e Gabrielle Bell.
Nei suoi quasi ottanta titoli, PictureBox ha tracciato quindi – anche al di là dell’ambito prettamente fumettistico – una storia della cultura visuale alternativa americana. Al contempo, l’operazione di Nadel ha avuto il merito di mostrare la dimensione aperta e onnivora del fumetto, un linguaggio permeabile e in continua ridefinizione, e le sue enormi ricadute sull’immaginario americano. Come dice lo stesso Nadel – in un’intervista rilasciata a Tim Small per la rivista Studio – gli autori della casa editrice «lavorano con una mano nella cultura tradizionale e commerciale e mainstream, e con l’altra nel mondo dell’arte e della musica underground […] è una generazione cresciuta con G.I.Joe e Pac-Man e una cultura di merda che ha poi scoperto Gary Panter…ed era probabilmente più interessata a guardare le cose e creare dei mondi piuttosto che alla forma letteraria del fumetto».
L’estetica ibrida e disinteressata della Picture Box, grazie alla trasversalità praticata da Nadel, cercava di sfuggire, pertanto, al facile cliché del fumetto alternativo come letteratura disegnata. Non è solo la facilità con cui «stanno all’interno della percezione di cosa sia un libro» che permette ai fumetti di esser visti senza alcun sospetto, e quindi come dei prodotti culturali e d’intrattenimento per un pubblico adulto. Il valore aggiunto risiede per Nadel nella capacità di proporre un nuovo linguaggio, che non usi, per l’appunto, solo la logica accomodante della narrazione. Un linguaggio che faccia a pezzi i confini tra l’estraneo e il familiare: alla cui invenzione il lettore è chiamato a partecipare attivamente ricostruendo pezzo a pezzo l’avvincente disegno.
Un modello forse non economicamente praticabile, ma che senza dubbio in quasi un decennio di attività lascia un segno indelebile nella storia dell’editoria indipendente americana e non.