Luca Conca è una delle rivelazioni del 2013. Con due volumi pubblicati nell’arco di un anno, è diventato un autore simbolo della piccola ma agguerrita etichetta indipendente Passenger Press, diretta da Christian Marra. Il tratto ossessivo ed elaborato, e la sua narrazione frenetica e cinematica gli hanno fatto guadagnare l’endorsement di un insospettabile Leo Ortolani.
Il suo lavoro in due parti (finora) racconta con le peripezie di alcuni sventurati inseguiti da un mostro gigantesco e viscido, sottoposti a una caccia umana apparentemente per pura soddisfazione di alcuni carnefici. In uno scenario che fa rivivere l’azione del cinema pop-horror americano in ambientazioni italiane, Conca ci ha colpito soprattutto per un disegno energico, spontaneo, solo all’apparenza caotico. E dopo avere recensito Il Buio, abbiamo voluto fare quattro chiacchiere con lui.
Il tuo fumetto racconta, in sostanza, di un continuo inseguimento. E il risultato, ovviamente (ma nemmeno troppo) è che la narrazione è molto cinematica.
È vero, ho scelto un taglio più cinematografico che fumettistico. O meglio, ho voluto guardare a quei fumetti che hanno una sceneggiatura più vicina a quella cinematografica, con montaggi alternati, flashback e salti temporali. Da un lato ho pensato ad autori come Micheluzzi, Milazzo, Giardino, dal taglio realistico e dichiaratamente filmico, che però non rinunciano agli stilemi classici del fumetto e alle sue specificità. Dall’altro, però, semplificando la gabbia e arrivando a sole 3/4 vignette per pagina (togliendo anche le voci onomatopeiche e quasi del tutto il testo), alla fine ho scelto il linguaggio del fumetto senza utilizzarne la sintassi. Una storia semplicissima, con un inseguimento e pochi elementi narrativi, mi permetteva di sperimentare con più facilità questa soluzione.
Il disegno ci ha colpito: pare sia frenetico e dinamico che dettagliato, con segni a matita scomposti eppure densissimi. Come hai lavorato?
Cercavo uno stile “diverso” dal solito: realistico, quasi fotografico (per aumentare il più possibile l’immedesimazione) ma anche pittorico. Pur pensando al bianco e nero non volevo uno stile troppo grafico, con neri e bianchi netti e puliti, ma un segno sporco e cattivo, con neri mai pieni e quindi misteriosi. Come se dentro si muovesse sempre qualcosa… Eliminando i contorni netti e il ripasso preciso, che fissa e congela le scene, ho cercato un segno ossessivo, che sembra non definirsi mai, ma semmai solo avvicinarsi alle cose. Un segno che conserva tutti i ripensamenti e che, a mio parere, rende bene l’atmosfera allucinata e paurosa della storia.
Con quali strumenti realizzi i tuoi disegni?
Faccio prima dei disegni a matita che poi ripasso con la penna bic nera.
Parlavi di stile fotografico. E in effetti si vede l’attenzione che metti nei volti. Che tipo di modelli usi?
Per le espressioni, le fisionomie e le anatomie, prima disegno tutto a memoria, inventando personaggi e movimenti, cercando di avvicinarmi il più possibile ad una resa credibile e corretta. Quando ho qualche dubbio o l’inquadratura è difficile, faccio mettere in posa amici e parenti… o mi metto in posa io stesso, e poi correggo eventuali errori e incertezze.
Gli sfondi sono luoghi che conosci, immagino.
Sì, mi piace scegliere luoghi vicini a me, raccogliere molta documentazione e fare molte foto, in base alla storia che ho pensato, avendo così diversi scatti da diversi punti di vista, per rendere convincenti anche semplici sfondi. Mi piace poi pensare che i protagonisti si muovano in un paesaggio che è riproducibile a 360 gradi, senza inventare troppo. Scherzando con Christian Marra, tentando di giustificare la lentezza del mio lavoro, gli dicevo che sono un disegnatore di fumetti “kubrickiano”. Chiaramente lui, da editore responsabile e serio qual è, mi mandava affanculo.
Al di là del tema horror, a cosa volevi alludere con la fuga dei tuoi personaggi da un mostro deforme (unico elemento surreale, peraltro)?
Mi sono reso conto solo in questi ultimi anni, pensando a storie o possibili trame, che il senso di colpa, l’espiazione e le lotte solitarie con le proprie ossessioni sono i temi che più mi affascinano. Senza però troppi simbolismi e sottintesi esistenziali. Mi piace l’uomo solo o in pericolo… Questo mostro, quindi, forse anche fin troppo ingenuamente, è un’ossessione. O una paura. O una colpa.