Los Pitufos (ES), Els Barrufet (ES-CT), De Smurfen (NL), Smølferne (Danimarca), Smerf (PL), Die Schlümpfe (DE), De Smurfen (BE), Os Estrumpfes (PT), Τα Στρουμφάκια (GR), Smurffit (FI), Strumparnir (IS), Smurfene (NO), سنافر (AE), Smurfarna (SE), 蓝精灵(CN), Şirinler (TR),Hupikék törpikék (HU), スマーフ(JP) …
Questa lista ben oltre i limiti dello scioglilingua, piena di “f”, “p” e “u” in varie combinazioni, contiene solo alcuni dei nomi con cui sono conosciuti, in giro per il mondo, i piccoli ometti dalla pelle blu. Quelli che nel 1962 furono battezzati in Italia con il poco felice Strunfi (sul n.21 del quindicinale “Tipitì”, Edizioni Dardo) e, infine, nominati Puffi al momento della loro ricomparsa sulle pagine del Corriere dei Piccoli nn. 24/33, nel 1964 (traduzione merito, probabilmente, della redattrice José Pellegrini).
Il successo planetario di questi personaggi, tuttavia, ci ha fatto da tempo dimenticare le modalità del loro esordio: semplici comprimari in un’altra serie, ne soppiantarono presto i veri protagonisti, riducendoli a loro spalle, in presenze occasionali. Un ribaltamento di ruoli da manuale, insomma. Che vale la pena ricordare di questi tempi, vista la duplice iniziativa da parte dell’editore italiano RW/Lineachiara: la ricca collana cronologica I Puffi – L’Integrale, e la ristampa della serie che diede loro i natali, John e Solfamì.
1958: quando apparvero i Puffi.
Il creatore dei Puffi, il fumettista belga Peyo (vero nome: Pierre Culliford, 1928-1992), aveva debuttato nel 1952 sulla rivista Spirou, creando diverse serie e riadattando un suo vecchio personaggio dalla travagliata storia editoriale, già apparso su La Dernière Heure e Le Soir: Johan.
Questo paggio, al servizio di un innominato Re di un imprecisato reame medievale, coraggioso e abile con la spada, insegue caparbiamente l’ambizione di diventare un cavaliere. Quando gli viene affiancato, a mo’ di spalla, il piccolo menestrello Pirlouit, sorta di scanzonato Sancho Panza, l’idealista e donchischiottesco Johan si trova costretto nel ruolo di co-protagonista, tanto che la serie, a partire dall’avventura Le Serments des Vikings, del 1956, cambierà titolo da Une Aventure de Johan a Johan et Pirlouit.
Il medioevo fantastico che fa da sfondo alle avventure di Johan e Pirlouit, resi nelle pubblicazioni italiane come John & Solfamì (anche se, in una prima versione, il nome di Pirlouit era stato tradotto come Tipitì) diventa, a partire dal 1958, anche lo sfondo sui cui si muoveranno Les Schtroumpfs, che esordiranno nell’avventura La Flûte à six schtroumpfs (1948, Spirou nn.1047/1086), un libero adattamento della tradizionale favola tedesca de Il pifferaio di Hamelin.
In quel racconto, la presentazione dei nuovi personaggi è graduale, degna delle grandi star che saranno. Inizialmente vediamo apparire, da dietro le foglie, degli occhi che scrutano i due protagonisti. Poi una mano blu fa capolino da dietro un masso. Un cespuglio si stacca dal masso, continuando a nascondere ai nostri occhi l’occupante, e poi si muove, dandoci finalmente un’idea delle dimensioni del personaggio: minuscolo. Infine, alcune tavole più tardi, i Puffi si presentano ufficialmente al loro pubblico, così:
Nelle intenzioni di Peyo, che li inventa riadattando alcuni personaggi creati per un suo progetto di animazione degli anni Quaranta, dovrebbero essere utilizzati solo una volta. Ma il successo degli ometti blu (il nome dell’avventura che ne ospita l’esordio si trasformerà, nell’edizione in album, da La flûte à six trous a La Flûte à six schtroumpfs) è tale che già nella successiva La Guerre des sept fontaines (1959, Spirou nn. 1094/1139) ricompaiono, anche se ancora nelle retrovie. E’ nello stesso anno però, che sempre su Spirou (n.1107) viene pubblicata la prima avventura a loro nome, Les Schtroumpfs noirs (I puffi neri, tradotta in edizione americana e nella trasposizione animata come The Purple Smurfs, per evitare eventuali accuse di razzismo).
Proprio con Les Schtroumpfs noirs il settimanale belga inaugura una nuova formula editoriale: i mini-récit. Le quattro pagine centrali formano un inserto staccabile che, dopo una laborosiosa operazione di piegatura, rifinitura e graffettatura, si trasformano in un mini-libro. Un’invenzione di Yvan Delporte, già caporedattore della rivista e, proprio da quell’episodio, principale collaboratore della serie, anche dopo la morte di Peyo e fino ad un anno prima della propria, nel 2006.
Nonostante la caratterizzazione grafica ancora incerta e meno morbida, il fenomeno dei Puffi esplode con straordinaria energia, esprimendo subito la propria vocazione multimediale. Già nel 1959, infatti, gli studi TV Animation Dupuis producono una serie di nove cortometraggi. Finalmente, nel passaggio alla pubblicazione in volume, un adattamento di Les Schtroumpfs noirs (1963; l’omonimo volume contiene anche le storie Le Schtroumpf volant e Le Voleur de Schtroumpfs), assumono l’aspetto definitivo. La curva del corpo si fa più armoniosa e tondeggiante; le dita delle mani passano da cinque a quattro; il copricapo si accorcia. I Puffi sono pronti a puffare per il mondo.
I Puffi e il loro (micro) mondo
Bassi come gnomi (l’espressione “due mele o poco più” della nota sigla tv italiana, cantata da Cristina D’Avena, deriva dalla francese “hauts comme trois pommes”), tutti identici nell’aspetto fisico – con l’eccezione di Grande Puffo e di Puffetta, creata dall’antagonista Gargamella – forniti di una pelle dalla bizzarra colorazione blu, vestiti, tranne rarissime eccezioni, esclusivamente di una calzamaglia aderente bianca e di un cappello dallo stesso colore ed estremamente longevi (Grande Puffo avrebbe 542 anni, come afferma lui stesso: “Eh, ‘Mon Dieu, J’ai eu 542 ans auxc haterelles”), i Puffi si presentano come una comunità compatta di tipo rurale, formata da un centinaio di componenti e organizzata intorno ad un villaggio con case a forma di fungo – ma in realtà in muratura – reso invisibile e irragiungibile ai non-puffi dal decano della comunità, che lo protegge con un incantesimo. Apparentemente asessuati, vivono le loro avventure sullo sfondo dello stesso scenario creato da Peyo per le avventure di John & Solfamì, che con la comparsa dei Puffi si arricchirà notevolmente di nuovi elementi, primo fra tutti l’arcinemico Gargamella, che cerca di catturarne almeno sei per completare una formula capace di donargli la mitica pietra filosofale.
Ogni puffo, come è noto, ha un nome che lo caratterizza e spesso ne definisce la professione. Ci sono quindi Puffo Golosone (naturalmente un cuoco), Puffo Inventore, Puffo Pittore e così via. I Puffi sono inoltre molto golosi delle bacche della salsapariglia (Smilax aspera) – tradotte in italiano come puffbacche – per reperire la quale si allontanano spesso dai confini sicuri del villaggio (con conseguenti rischi e disavventure). Un insieme variegato di “tipi”, insomma, dai caratteri estremamente semplificati, con cui è facile identificarsi. Specialmente da bambini. Questa capacità di rappresentare una “bozza di mondo”, senza obiettivi sociologici, attraverso un gruppo ristretto di personaggi che vivono in un mondo chiuso e autoreferenziale, rappresenta uno dei motivi di successo della serie, oltre alla piacevolezza delle gag e dell’umorismo. Non il solo, naturalmente.
Un linguaggio tutto da puffare
Oltre alla loro caratterizzazione grafica e fisica, l’altra specificità delle creature di Peyo è il linguaggio. Anch’esso un aspetto non secondario nel decretarne il successo. Il linguaggio dei Puffi, a quanto raccontò per primo André Franquin, amico di Peyo, fu il motore stesso che condusse alla loro ideazione. Un giorno in vacanza al mare, infatti, Peyo, che non riusciva a ricordare come si chiamasse la saliera, disse all’amico Franquin: “Passami il… puffo!”. Quando l’amico gli rispose “Ecco il puffo, e quando avrai finito di puffarlo ripuffamelo” l’idea aveva iniziato a prendere forma. Il testo originale di quella leggendaria chiacchierata tra amici – per un caso del destino, anche giganti del fumetto – lo trovate qui).
“En 1958, j’étais un jour en vacances à la mer avec Franquin et, à table, je lui ai demandé de me passer quelque chose, sans en trouver le nom : “Passe-moi… le schtroumpf !”. J’avais forgé ce terme sur le modèle de “un truc, un machin, un bidule”… Il m’a répondu : “Tiens, voilà le schtroumpf, et quand tu auras fini de le schtroumpfer, tu me le reschtroumpferas !” On s’est ainsi amusés à schtroumpfer pendant les quelques jours que nous avons passés ensemble, c’était devenu un gag pour nous. Nous consacrions nos moments de détente à traduire en “schtroumpf” des tirades de Racine ou des fables de La Fontaine, ainsi que des chansons à succès de l’époque. Ce qui donnait des résultats assez surprenants et tout à fait hilarants, du genre : “Maître Schtroumpf sur un arbre schtroumpfé tenait dans son schtroumpf un schtroumpf !…”
Il linguaggio dei Puffi prevede l’uso del termine puffo (schtroumpf), nelle sue varie declinazioni come sostitutivo dei verbi, degli avverbi e degli aggettivi. Ne risulta una lingua semplificata ma non impoverita nell’utilizzo. Umberto Eco, che nel 1979 scrisse un breve testo sulla questione (lo trovate qui), criticò, fra l’altro, la traduzione italiana operata da Josè Pellegrini perché più timida nel “puffare”, rispetto alla versione originale: “Pensando che i piccoli lettori non capirebbero bene il linguaggio puffo, Pellegrini riduce le sostituzioni. Puffa meno di quanto dovrebbe schtroumpfare”. Più seriamente, Eco osservava: “Questo significa che la lingua puffa risponde alle regole di una linguistica del testo: ogni termine è comprensibile e rapportabile ad altri solo se lo si vede nel contesto e lo si interpreta alla luce del «tema» o topic testuale”. Per non dire del rapporto fra i termini e il topic visuale: in fondo, sempre di fumetto (o di animazione) si tratta.
Interpretazioni
La peculiare organizazione sociale dei Puffi (un puffo, un mestiere; un unico immutabile leader; sostanziale eguaglianza dei membri della “base”; la presenza della magia e di un linguaggio proprio che pare quasi un rituale; la presenza di un nemico caratteristico), ha suscitato numerose e fantasiose interpretazioni. Soprattutto politiche, sociologiche e filosofiche. Fra le più diffuse, i Puffi sono stati visti come:
- la raffigurazione di uno Stato/di un regime di stampo socialista. Di più: un consapevole veicolo di propaganda ideologica. Secondo questa teoria, a sua volta spesso parodiata, il Grande Puffo rappresenterebbe Karl Marx, Quattrocchi – l’unico che tenta di sostituirsi al potere del leader – alluderebbe a Trotsky e Gargamella sarebbe l’incarnazione del capitalismo. Del resto i Puffi sono tutti uguali, godono tutti degli stessi diritti, e a ciascuno è assegnato un ruolo preciso, immutabile per il corso dell’intera vita. Inoltre non sembra esistere una reale proprietà privata, e i beni possono essere collettivizzati.
- un chiaro rimando al modello nazista. Rispetto al punto precedente non cambia molto. Ma in questa lettura Gargamella diventa la caricatura dell’ebreo diffusa durante il regime hitleriano, e l’uguaglianza fisica e sociale dei Puffi il segno di una“perfezione” assoluta che ricorderebbe quella ariana (salvo il passaggio dal bianco-e-biondo al bianco-e-blu?). La caratterizzazione grafica di Gargamella, peraltro, secondo questa interpretazione sarebbe riconducibile, allo schema caricaturale dell’ebreo originatosi, inizialmente, sulle pagine del settimanale tedesco Der Stürmer.
- I Puffi rappresenterebbero, altresì, una setta di stampo massonico. In questo caso il Grande Puffo rappresenterebbe il Gran Maestro e i Puffi i discepoli – inizialmente 99, come i gradi di alcuni ordini massonici di stampo esoterico. Costretti a vivere nella segretezza e isolati dal mondo, praticano la magia e il culto.
Per una panoramica di queste fantasiose teorie si può leggere Il Libro Nero dei Puffi, scritto dal politologo Antoine Buéno. Nonostante queste interpretazioni risultino tanto gustose quanto infondate, e che lo stesso figlio di Peyo, Thierry Culliford, le abbia definite “ridicole e grottesche”, godono ancora di un certo consenso, tanto da ritornare periodicamente alla luce tra le pagine di giornali, magazine e blog. La cospirazione dei piccoli omini blu, in fondo, pare un perfetto soggetto per la fantapolitica.
Volendo aggiungere a queste una (almeno in parte) meno maliziosa, si potrebbe infinesottolineare, un po’ come per Astérix, il peso dei simboli nazionali francesi.Da un lato c’è una piccola comunità isolata, continuamente assediata – come in Astérix – da un nemico ipoteticamente più forte, ai cui attacchi resiste grazie all’astuzia e all’utilizzo di pratiche magiche.Anche l’iconografia sembra andare in quella direzione: il cappello che indossano, infatti, ricorda il berretto frigio diventato simbolo della rivoluzione francese, tanto da cingere il capo della Marianne, personificazione della Repubblica Francese.Infine, i colori del Grande Puffo (berretto rosso, barba bianca, corpo blu) sarebbero gli stessi della bandiera nazionale.
La televisione e il declino
Conl’acquisto da parte di Stuart R. Ross dei diritti di sfruttamento dalle edizioni Dupuis nel 1976, il merchandising dei Puffi prese a diffondersi in Nord America. Leggenda vuole che Fred Silverman, presidente dell’azienda radiotelevisiva NBC, vedendo in mano a sua figlia una bambola dei Puffi, decise che sarebbe stata una buona idea produrre una serie animata televisiva.
Composta da 427 episodi, andati in onda dal 1 settembre 1981 al 2 dicembre 1989, e prodotta da Hanna & Barbera, la serie ebbe un incredibile successo, lanciando definitivamente i Puffi oltreoceano. Un trionfo attribuibilesì al buon livello tecnico della realizzazione, ma soprattutto alla più generale originalità dei personaggi.
In seguito alla chiusura della serie, avvenuta dopo un repentino calo di ascolti durante l’ultimo anno di programmazione, i Puffi sono stati i protagonisti di altre serie animate, di due recenti (e dimenticabili) lungometraggi in tecnica mista, e di alcuni speciali. Fra questi merita una menzione Cartoon All-Stars to the Rescue (I nostri eroi alla riscossa). Il mediometraggio animato racconta la storia di Michael, un adolescente che ha una fortissima dipendenza dalla più terribile delle droghe (quantomeno nell’immaginario cartoonesco americano di fine anni Ottanta): la marijuana. In suo soccorso arrivano, prendendo vita nella camera della sorella, cui Michael sottrae i soldi per alimentare la propria dipendenza, alcuni dei più noti personaggi dei fumetti e dei cartoni animati: Alvin e i Chipmunks, le Tartarughe Ninja, Bugs Bunny e Daffy Duck, Garfield, Slimer dei The Real Gosthbuster, alcuni personaggi dei Muppets Babies, Qui, Quo, Qua, Alf e, naturalmente, una selezionata rappresentanza de I Puffi (Grande Puffo, Puffo Quattrocchi e Puffo forzuto).
A parte qualche considerazione pseudosociologica in linea con gli spot antidroga degli anni Ottanta/Novanta (la dipendenza da stupefacenti come conseguenza del bullismo, la confusione fra droghe pesanti e droghe leggere etc.) il film, dal tono moralistico e solo a tratti scientifico, mette in scena varie situazioni visionarie (come il viaggio che Michael fa dentro sé stesso – e intendo in senso letterale) che solo l’uso di droga che la pellicola vuole bandire potrebbero giustificare. Cartoon All-Stars to the Rescue ufficializzò definitivamente l’iscrizione dei Puffi nell’albo delle glorie dell’animazione e dell’immaginario statunitense.
Ma il successo della serie Hanna & Barbera – il principale, anche se non primo veicolo di diffusione dei personaggi anche nel nostro paese ha avuto anche importanti conseguenze sull’identità della creazione di Peyo. In primis, ne ha potenziato l’atteggiamento politically correct (i Puffi che da neri diventano viola, per esempio). Ma non solo: ha eliminato elementi che avrebbero richiesto una qualche complessità (Gargamella non cerca più i Puffi per creare la pietra filosofale, ma solo per farsi una bella zuppa); ha ridotto l’impatto dell’ambientazione medievale; e, in ultima analisi, ha spalmato un bel po’ di miele su una serie che già non si distingueva per spirito provocatorio. Come conseguenza del successo dell’adattamento televisivo, le storie a fumetti cominciarono ad andare alla rincorsa di quelle animate, adeguandosi al loro immaginario, stile narrativo e, in buona sostanza, perdendo un po’ di brio. Fino all’opera di banalizzazione pupazzettistica compiuta, purtroppo, dai due recenti lungometraggi. Che invece di rilanciare la serie, sfruttando il 3D in direzione di nuove energie di immaginazione, sembrano avere – diciamo – puffato verso la mediocrità.