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Forgive Me: un indie game (e fumetto) italiano per parlare di suicidio

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La cultura popolare, si sa, ama oscillare tra immobilismo e spasmodica ricerca di nuove strade. Nonostante si abbia l’impressione di uno sguardo perennemente rivolto al passato, con orde di fanatici pronti a bacchettare i loro idoli al primo segnale di cambiamento, non si possono certo ignorare certe piccole rivoluzioni. Destinate, nelle nostre migliori speranze, a modificare tutto l’elefantiaco apparato di questa industria. Scosse telluriche che partono dal ventre di questa enorme creatura, proprio come quelle generate dal movimento dei cosiddetti indie games.

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In giornate incastrate tra Games Week e Lucca Games, il tema si impone ancora più del solito. Cos’è indie? Cos’è mainstream? Oramai, visto l’enorme successo di alcuni di questi prodotti, gli endorsement da parte di grandi realtà del settore sono sempre più frequenti. E in casi come questi, la parola indipendente perde molto del suo significato.

L’aspetto mai sopito è invece la volontà di far fare passi avanti a un linguaggio che nel corso degli ultimi anni aveva perso molta della sua vitalità e dell’anarchia portata avanti fin dalle origini. Così abbiamo chi lavora sulla narrazione, chi sul gameplay e chi invece vuole sfruttare i videogiochi per parlare di temi più “importanti”. Solitudine, morte, depressione. Senza voler per forza di cose entrare in campo politico. Per certi versi, proprio come è accaduto al fumetto, linguaggio nato come divertissement e prodotto di consumo, poi cresciuto e cambiato fino a raggiungere una nuova maturità. Oggi nessuno si stupisce all’idea che un volume a fumetti possa sensibilizzare, far riflettere e strappare perfino qualche lacrima. Chi lo avrebbe detto cinquanta (centocinquanta) anni fa?

Probabilmente la stessa cosa devono averla pensata alla Gangster Games – giovane e promettente realtà indie-videoludica tutta italiana – nel voler ingaggiare un fumettista come Davide Pascutti tra le loro fila. In un progetto delicato come Forgive Me, basato sul dramma del suicidio, la classe e la sensibilità dell’autore di L’uomo che sfidò le stelle (con Di Virgilio e Laprovitera, Tunué, 2011) e Fausto Coppi (Becco Giallo, 2010) potrebbero essere indispensabili. E non si può che essere felici nel vedere due linguaggi nati “popolari” andare a braccetto per raccontare storie importanti.

Eccoci ai dettagli, quindi: nel gioco, le sessioni in prima persona più prettamente videoludiche verranno introdotte da una sorta di motion comic disegnato da Pascutti e scritto da Fabiano Zaino, game designer e direttore artistico dell’intera operazione. Nell’attesa che venga rilasciata una demo definitiva del gioco, in prospettiva della raccolta fondi necessaria per coprire le spese di un progetto così complesso, abbiamo scambiato qualche parola con i due autori delle tavole che ci introdurranno al mondo di Forgive Me.

Ciao Fabiano, incominciamo subito a parlare di Forgive Me. Mi pare si tratti di un videogioco piuttosto atipico, con tematiche non certo d’intrattenimento…

Esatto, la tematica principale del gioco è quella del suicidio. Eppure, anche se l’argomento del gioco non è di facile lettura, ho cercato di creare una atmosfera fantastica ben distante dal dramma consono a queste situazioni. Mi spiego meglio: già all’inizio della lavorazione del gioco, non volevamo realizzare un prodotto strappalacrime, ma analizzare la vita delle persone che stanno dietro a questa scelta cosi drammatica. I personaggi di cui leggeremo all’interno di Forgive Me si devono rendere interessanti per la loro storia, il loro carattere, la loro vita e non perché hanno scelto un gesto cosi estremo. Detto questo, di certo non abbiamo voluto banalizzare il tema del suicidio anzi, quello che compiono è un gesto terribile che è stato raccontato nella sua specifica forma, senza giri di parole o metafore.

Mi dicevi che la scelta di questo argomento è legata a una tua esperienza reale.

Senza scendere nei particolari, molti anni addietro, quando abitavo a Milano, ho prestato servizio come volontario in un telefono amico e ho avuto modo di entrare in contatto con delle persone che mi hanno raccontato “presunti” episodi di suicidio. Sia chiaro, metto la parola presunti fra parentesi perché il regolamento del telefono amico impone la segretezza nelle chiamate telefoniche. Si è successivamente arrivati a delle “conferme” attraverso episodi di cronaca avvenuti con una determinata fascia di utenza che di punto in bianco, viste alcune problematiche simili, smetteva di chiamare. Si potrebbe parlare anche di casi fortuiti ma le persone che si rivolgono ad un telefono amico, difficilmente smettono di farlo dal giorno alla notte. Ovviamente, ripeto e sottolineo che si tratta di pure congetture ma è stata una delle esperienze che più mi ha segnato durante la mia vita ed è giusto parlarne quando spesso anche gli stessi media di informazione, danno molte cose per scontate.

Il pubblico è pronto per questo tipo di prodotto? Abbiamo il massimo dello svago – il videogame – usato per parlare di un tema serissimo.

Penso che il pubblico sia pronto ad affrontare tematiche molto forti, ma bisogna vedere come viene raccontata una storia. Al cinema è facile vedere storie drammatiche davvero molto forti e emozionarsi per il livello di regia o la recitazione di un bravo attore. Si può leggere un libro a tema e magari arrivare a piangere per le belle parole che usa l’autore. Nel videogioco, che è una forma di intrattenimento puntato più sul divertimento spensierato, credo che affrontare temi difficili come il suicidio, coinvolgerà una piccolissima percentuale di giocatori. Non è però detto che un gioco con temi difficili non debba avere un gameplay alla portata di una grande percentuale di appassionati ed essere dunque più fruibile. Credo dunque che non sia tanto l’argomento da proporre, allegro o triste, ma il come lo si propone.

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Tra l’altro quello del videogame empatico mi pare un movimento in ascesa. Penso a lavori come That Dragon, Cancer o a Actual Sunlight. Siamo passati dal raccogliere monete a testate al parlare di cancro e solitudine.

Conosco i videogiochi da te citati e sono contento che altri sviluppatori lavorino alla creazione di prodotti che si diversificano in una maniera ben distante da quello del commerciale. Non penso però che ci sarà una grande ondata di prodotti legati al sociale in arrivo a breve termine perché si tratta di un argomento che viene scansato a priori. Cosa fra l’altro assurda dato che il 90% delle produzioni in commercio, parlano di morte e violenza. Facendo un rapido esempio, anche noi con il nostro gioco, manco il tempo di dire che il tema principale era il suicidio che in un forum dove abbiamo presentato il gioco, sono scoppiate varie polemiche sull’argomento. Fintanto che l’utenza non capisce che il videogioco può essere usato per raccontare storie diverse dal solito soldato che ammazza mille fantocci uno dietro l’altro, non penso che si faranno grandi passi avanti sul tema sociale nel mondo dei videogiochi.

Ai più progressisti sembrerà un concetto vetusto: autorialità. Sono più propenso a vederne qua che in un Gears of War qualsiasi.

Sarebbe bellissimo se i numeri del mercato cambiassero a favore di prodotti meno commerciali e più mirati ad una utenza che vuole un prodotto diverso. Purtroppo, penso che un COD annuale o un Assassin’s Creed qualsiasi, domineranno ancora per molto il mercato dei videogiochi e, sotto sotto, non credo che sia un male. Ci sono però delle alternative che ogni tanto diventano veri e propri cult anche non avendo grossissime vendite dietro. Il primo che mi viene in mente è il videogioco a cui noi ci siamo più ispirati, quel Dear Esther che tanto ha fatto discutere critica e giocatori di tutto il mondo (che comunque, attenzione, per essere un indie, ha venduto più che bene). Riguardo al videogioco puntato su temi sociali, il discorso del piacere o del vendere bene si deve confrontare ancora di più con una utenza che non è proprio abituata a trattare certi temi davanti al PC o alle console. Ancora oggi, nel 2013, è più facile apprezzare una guerra contro le locuste che giocare ad un gioco che parla di temi scottanti. La verità è che il giocatore medio ne ha molta paura.

E come siete arrivati al fumetto?

Il fumetto era un prodotto presente nelle nostre corde fin dall’inizio, dato che avevamo l’intenzione di raccontare la storia prequel del personaggio principale tramite tavole animate alla maniera di un Max Payne. Giusto per citare il primo videogioco di cui ho memoria che usava questo stratagemma. Successivamente alla collaborazione con Pascutti, si è preso in esame di mettere la storia di tutti gli altri personaggi che incontreremo, tramite fumetto, direttamente in-game. Ma questo è un discorso che ha preso piede solo di recente e a cui stiamo ancora lavorando per trovare una vera soluzione. Per ora ci accontentiamo dell’ottimo prodotto che ne è venuto fuori dalla mia collaborazione con Davide.

Quale è stato il vostro approccio alla materia? Mi dicevi che te ne sei occupato direttamente tu, in veste di game director.

Sì, oltre a scrivere la storia per il gioco, mi sono occupato della sceneggiatura del fumetto, ma su questo argomento bisogna partire da un presupposto diverso. Il fumetto del gioco non è nato come tale da subito ma ha preso forma dallo story trailer animato. Lavorando con Davide Pascutti, mi sono reso conto che la prima sceneggiatura che feci, non era idonea per il fumetto è cosi decisi di rimetterci mano. A lavoro concluso, anche grazie ad un pizzico di fortuna e seguendo i numerosi consigli di Davide, siamo riusciti a chiudere la lavorazione delle tavole destinate sia al fumetto che allo story trailer del gioco.

Avevi in mente dei punti di riferimento precisi mentre ci lavoravi?

Durante la lavorazione del fumetto sapevo già come sarebbe stata la storia da raccontare perché quando lavoro, prima di mettere mano alla scrittura, immagino come in un film, quello che dovrà essere raccontato. Eppure, durante la lavorazione alcune strade che pensavo giuste, si sono rivelate un fiasco e ho dovuto cambiare la struttura di molte sequenze. Nel mio lavoro cerco di mettere nero su bianco delle linee guida ben marcate, ma spesso e volentieri il succo di una storia cambia strada molto velocemente.

Come avete capito cosa poteva essere raccontato tramite gameplay e cosa invece richiedeva meccanismi più tradizionali?

Durante le prime sedute della lavorazione del gioco il titolo è nato come un “non gioco”, dato che io non ero ancora stato contattato da Alberto per mettere mano al gameplay di On The Tower (nome con cui è partito il progetto). Con il mio arrivo abbiamo deciso di mettere più carne al fuoco, cercando però di mantenere immutati tutti contenuti già presenti. Da questo punto di vista in poi dividere le parti giocabili da quelle testuali o visive è stato relativamente semplice, dato che al 99% ci si basa su cosa sia possibile fare o meno nella lavorazione e sulle risorse disponibili. Per farvi un esempio, non punti a realizzare filmati in computer grafica complessi se dietro non puoi permetterti di avere tre, quattro o cinque persone che lo fanno per te. Capiamoci, basterebbe anche un bravo modellatore e animatore 3D ma i tempi sarebbero lunghissimi. Meglio dunque lavorare con un disegnatore bravo e tirare fuori delle parti visuali tramite la tecnica del fumetto.

Una provocazione: il gameplay esclusivamente in game non è ancora abbastanza evoluto. Per questo, nel procedere del gioco, bisogna fare ricorso di volta in volta a materiali più tradizionali: filmati, file di testo, fumetti…

Provocazione che accolgo volentieri. C’è da fare però una piccola parentesi in merito: Forgive Me nasce come un gioco molto semplice nella sua fruizione del gameplay. Come detto poco sopra, il giocatore non sarà chiamato a risolvere grandi misteri, come in una avventura grafica, o non ci saranno mostri da uccidere come nel più classico dei first person shooter. Nel nostro gioco, il giocatore si immerge all’interno di una storia, raccontata in una certa maniera, coadiuvata anche e soprattutto da una quantità di testo abbastanza notevole. Una storia che ci preme raccontare più con le parole che non con un gameplay complesso. Forgive Me alla fin fine è sempre stato più una “esperienza” videoludica che non un vero e proprio videogioco.

Nel corso degli anni diversi prodotti hanno scelto di intraprendere la via della transmedialità. Film che proseguivano in fumetti, prequel videoludici,… Spesso con risultati disastrosi, nonostante i mezzi impiegati (Matrix, Southerland Tales, Seven Swords [in questo caso almeno il film era una bomba]). Voi sembrate crederci.

Ci crediamo, ma in parte, perché non stiamo puntando a realizzare delle vie parallele per il nostro videogioco cosi marcate come si potrebbe pensare. Da un lato abbiamo il gioco che si muove su una linea temporale avanti al nostro presente. Mentre nel fumetto, avvengono situazioni legate al passato dei personaggi coinvolti nella storia del videogioco, prima della loro dipartita. Certo, fa sempre parte tutto della stessa ricetta, ma per ora il fumetto è stato realizzato come una sorta di bonus al gioco.

Nei vostri piani avete una raccolta fondi per finanziare la parte finale del vostro progetto. Aldilà della scelta di una legittima indipendenza mi sembra di aver capito che di gente pronta a investire in progetti come il vostro ce ne sia ancora poca.

Si, stiamo vagliando l’ipotesi di farci finanziare il gioco per avere le possibilità economiche di realizzare diverse idee che per ora sono ne più ne meno in fase embrionale. Per rispondere alla tua domanda, bisogna capire gli umori della gente ma saper anche progettare una campagna di raccolta fondi che invogli le persone a investire su un progetto come il nostro. Se si punta il browser su siti come IndieGoGo o KickStarter, si vedranno decine e decine di progetti interessanti da finanziare fra piccoli e grandi nomi dell’industria videoludica, ma non sempre un buon prodotto viene finanziato e sono numerose le campagne di raccolta fondi non andate a buon fine. Si tratta di vincere alla lotteria: la possibilità di chiudere in positivo una campagna del genere è reale, ma bisogna saper pianificare davvero bene le mosse sulla propria scacchiera. Comunque sia, Forgive Me vedrà la luce come gioco fatto e finito se poi questo avverrà grazie al supporto di chi crede nel nostro progetto, ancora meglio.

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Passiamo ora a Davide, talento multiforme e incontenibile del fumetto Italiano. Non staremo a girarci attorno. Il fulcro di questa intervista saranno i parallelismi tra fumetto autoriale e videogioco indipendente, tanto per sfatare qualche luogo comune e convincere più di una persona come questo nuovo mezzo espressivo possa dare tantissimo. Missione possibile o il pubblico non è ancora pronto? Aldilà del videogioco in sé, mi interessa sapere che considerazione hai del pubblico. Lo vedi così tradizionalista come sembra?

Missione più che possibile, direi quasi inevitabile al giorno d’oggi. Il pubblico capirà e seguirà, l’importante è che siano gli autori a crederci fino in fondo. Per il fumetto la svolta è stata la presa di coscienza, da parte degli autori, di avere tra le mani un mezzo di comunicazione con dignità pari a quelli universalmente riconosciuti. Nel mondo dei videogame sta avvenendo la stessa cosa. In questo caso i pregiudizi da abbattere saranno ancora maggiori ma sono convinto che un pubblico giovane e attento alle novità come quello dei videogiochi li saprà superare agevolmente. In bocca al lupo!

Per quanto ne so io non sono moltissimi i fumettisti italiani che hanno collaborato in maniera attiva con la nuova scena videoludica indipendente. Come ti ci sei trovato? Mi pari un autore piuttosto agli antipodi, il che rende la cosa ancora più interessante…

Sarò sincero, non è stato facile. Di solito quando lavoro ho il controllo quasi totale sulle cose che faccio e, soprattutto, ho subito sott’occhio il risultato finale. In questo caso invece, dovendo realizzare dei disegni da utilizzare in un’animazione, avevo molti più “paletti” e vincoli.

D’altro canto, tanta è stata la fatica, tanta è stata la soddisfazione a lavoro finito!

Cosa conosci di questo mondo? Pare raccolga un sacco di creatività.

La sensazione è che sia un territorio ancora poco battuto e che permetta sperimentazioni impensabili nel mondo delle grosse case di produzione, dove le direttive sono tracciate dal mercato e non più dalla passione o dalla voglia di mettersi in gioco in totale libertà.

A parte il Metal Gear Solid di Ashley Wood solitamente il legame videogioco + fumetto propende sempre per tratti molto d’impatto, roba anni ’90. Il fatto che i ragazzi della Gangster Games abbiano scelto un disegnatore elegante come te è da prendere come un segno di maturità?

I videogame delle grosse produzioni sono tarati principalmente sugli utenti a stelle e strisce, notoriamente “fracassoni” e poco raffinati. Noi europei siamo un pubblico più colto e abbiamo storicamente maggiore attenzione alle sfumature. In quest’ottica, vista la particolarità del progetto, non posso che condividere le scelte “editoriali” fatte dai ragazzi della Gangster Games. Il pubblico apprezzerà di certo la coerenza e l’armonia esistenti tra ogni parte dell’opera.

Considerando anche il fatto che tutta l’operazione non parte certo da una base troppo divertente. Parlare di suicidio tramite un videogioco da vivere in prima persona è un bel rischio.

L’argomento non è banale né facile da trattare. In questi casi ritengo che la chiave sia evitare di mostrare le cose in maniera esplicita, restare sull’evocativo, suggerire, lasciare che sia il giocatore/lettore a chiudere le frasi lasciate in sospeso. Non ho ancora avuto modo di provare il gioco ma più che di rischio parlerei di bella sfida e i presupposti per superarla ci sono tutti.

Come ti sei approcciato alla sceneggiatura di un lavoro così particolare?

Ho lavorato sulla base della sceneggiatura stesa da Fabiano. In corso d’opera ci siamo sentiti spesso per confrontarci ed essere certi che il lavoro procedesse nella direzione corretta. In opere come queste è fondamentale che si crei una forte empatia tra le persone che ci lavorano.

Tra l’altro le tue tavole arriveranno al pubblico in un doppio formato. Stampate su carta per l’albetto promozionale e animate per l’introduzione al videogioco. Un bel modo per evitare la solita, stopposa, domanda sul fumetto digitale. O no?

Non credo molto nel fumetto digitale. Non ancora, non mi pare che abbia ancora fatto il salto di qualità. La sensazione è che agli appassionati piaccia ancora avere l’oggetto cartaceo da tenere in mano o da esibire nelle proprie librerie. C’è una buona dose di feticismo in tutto ciò, inutile negarlo, ma anche dal punto di vista della lettura, la libertà di cui gode l’occhio nel leggere un albo cartaceo è indiscutibilmente superiore rispetto al digitale. Il fumetto digitale dovrà offrire qualcosa di più rispetto al fratello cartaceo (animazioni, suoni, ecc), dovrà diventare un prodotto diverso che sfrutta appieno le sue potenzialità.

Pensi che la tua collaborazione sia stata un eccezione o potrebbe essere l’inizio di un qualcosa di più grande? La scena indie italiana è piuttosto frizzante…

Spero vivamente che questo non resti un episodio isolato. Potrebbe davvero aprire nuove possibilità sia per i fumettisti che per i creatori di videogame. Staremo a vedere.

Oltre a questo progetto trans-mediale in autunno uscirai con un altro grosso lavoro sospeso tra fumetto, teatro e web. Puoi anticiparci qualcosa?

Sto lavorando al fumetto di “Pop Economix”, un progetto che racconta attraverso diversi media e in modo accessibile a tutti le origini e gli sviluppi della crisi economica mondiale. Il libro uscirà per Beccogiallo quest’autunno, avrà uno stile completamente diverso rispetto alle altre mie opere, sarà a colori e disegnato interamente in grafica vettoriale.

Anche in questo caso più linguaggi per un solo scopo, come se una sola lingua non bastasse più. E’ davvero così?

Ormai siamo abituati a ricevere input attraverso canali diversi e abbiamo sviluppato la capacità di ricomporre da soli il quadro complessivo. Questo avviene praticamente in ogni settore, dalla pubblicità all’intrattenimento, dalla politica all’informazione. Sono convinto che, specialmente in settori di nicchia come quello del fumetto autoriale, del teatro o del videogioco indipendente, si possano creare sinergie interessanti per espandere le possibilità comunicative ed il pubblico dei singoli media. Al giorno d’oggi la vera abilità sta proprio nel saper coordinare e sfruttare senza preconcetti ogni possibile media per raggiungere una comunicazione efficace.

Insomma, ti avevamo lasciato con un fumetto su Fausto Coppi e ti ritroviamo tra videogiochi, teatro ed economia. Se è vero che l’autore moderno non può permettersi di rimanere fermo tu ne sei un esempio perfetto. Fin dove vorresti arrivare?

Progetti diversi possono aver bisogno di approcci narrativi diversi. Una delle costanti della mia opera è sempre stata la sperimentazione. Non mi piace fossilizzarmi su un tema o uno stile grafico e sfrutto ogni nuovo lavoro per provare strade non ancora battute. Tra l’altro da anni ho abbandonato carta e penna e disegno a computer con la tavoletta grafica. Capita spesso che siano nuovi software o nuove funzionalità nei programmi che uso a suggerirmi nuovi modi di raccontare per immagini. Perché quello che mi piace fare, più che semplicemente disegnare, è raccontare.

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