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Preacher: l’America di Ennis e Dillon

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Piccolo incipit autobiografico necessario a capire l’approccio con cui è stato steso questo articolo. Qualche tempo fa, a pranzo con un grandissimo amico autore di fumetti, si stava parlando di letture giovanili e di come, dall’adolescenza all’età adulta, i nostri gusti fossero cambiati. Se su gran parte di quello che le nostre controparti liceali consideravano irrinunciabile concordavamo che fosse meglio stendere un velo pietoso, qualche titolo pareva aver resistito alla prova del tempo in maniera perlomeno dignitosa. Prestandosi, oltretutto, ad analisi un minimo più approfondite. Fra questi svettava Preacher.

Entrambi ne avevamo ricordi splendidi – fatti di violenza, turpiloquio e deviazioni sessuali di ogni genere – ma nessuno dei due aveva più avuto il coraggio di rileggerlo a distanza di anni. La paura di rimanerne delusi era davvero troppa. Il terrore che il passare del tempo ne avesse indorato il ricordo era tangibile, soprattutto considerando come all’epoca della sua prima apparizione nelle fumetterie avessi poco più di quattordici anni e un bagaglio culturale commisurato all’età. Il sospetto che molte di quelle trovate geniali apparissero tali solo per via della mia ingenuità era sufficiente ad abbandonare sulla libreria quei nove brossurati per interi lustri, nonostante me li sia sempre portati appresso in tre traslochi. Durante quella chiacchierata ci ripromettemmo di non cedere alla nostra curiosità e di continuare a vivere nella beata illusione che quello fosse uno dei migliori fumetti della nostra gioventù.

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Questa la situazione fino al 22 maggio, data in cui la rete televisiva AMC ha contribuito non poco a risollevare l’attenzione sul materiale originale trasmettendo la prima puntata della serie televisiva tratta da Preacher. Nonostante la messa in onda in Italia sia ancora un’incognita, l’occasione per tentare una rilettura critica dell’opera era troppo ghiotta. Così, a distanza di più di quindici anni dall’ultima volta che prestai davvero attenzione a quelle pagine, mi apprestavo a rileggermi tutto d’un fiato l’intera run. Una settimana dopo ne riemergevo tirando un sospiro di sollievo: dopotutto, nella mia adolescenza, non leggevo solo spazzatura.

Breve sinossi per chi non avesse idea di cosa si stia parlando. Preacher è una serie Vertigo pubblicata dal 1995 al 2000. Il protagonista è Jesse Custer, predicatore alcolizzato texano fino al midollo, che si ritrova posseduto da un’entità divina dotata di un potere paragonabile a quello di Dio. Genesis, questo il nome dell’essere celestiale, è il frutto dell’unione proibita tra un arcangelo e una diavolessa. Oltre che, piccolo particolare, il principale motivo per cui il Padre eterno decide di abdicare il trono dei Cieli. Cosa non proprio gradita al nostro eroe che, da buon americano quale è, decide di farsi carico del problema e di rimettere le cose a posto. Dopotutto, «A man oughta do what he thinks is best», sentenziava quel monumento a stelle e strisce di John Wayne – che appare nel fumetto come spirito guida di Custer – nel film Hondo.

Da un presupposto così sconclusionato prende il via un viaggio attraverso gli Stati Uniti con l’obbiettivo di ritrovare il Creatore e costringerlo a prendersi le sue responsabilità, costi quel che costi. A rendere ancora più difficile un’impresa già di per sé abbastanza epocale troveremo il Graal, potentissima organizzazione segreta custode della discendenza di Cristo intenzionata a scatenare l’Armageddon, e il terribile Santo degli Assassini, pistolero immortale e infallibile sguinzagliato dagli angeli con il fine di eliminare Custer prima che sia troppo tardi. Aggiungete poi vampiri irlandesi, teenager deformi, detective sessuali, magnati della carne cruda, voodoo, nonne malefiche, droga, alcool, un sacco di sesso, un fiume in piena di volgarità e una tonnellate di altre trovate stravaganti e capirete bene il perché incappare in Preacher a quattordici anni significasse per forza di cose amore a prima vista.

Era tosto, pieno di roba disgustosa, blasfemo quel che bastava. Non c’era un solo balloon che non contenesse una buona percentuale di “fottuto” o “cazzo” o “pompini” e, soprattutto, era intriso d’America. E per una volta gli autori non si stavano facendo in quattro per restituirci quella vera, cruda, piena di contraddizioni e aspetti ben poco nobili alla Cormac McCarthy. Quella di Preacher è la terra dei liberi, che solo due autori europei cresciuti sotto la cappa dell’imperialismo culturale statunitense potrebbero immaginare. Godendosela tutta, per una volta. Tanto per mettere subito le carte in tavola, il primo numero della serie si apre in un diner lungo un’autostrada, pieno di camionisti e cameriere sfatte. Difficile immaginarsi qualcosa di più magnificamente scontato. E da lì in avanti sarà un tour dalla Louisiana fino a New York, passando per la Monument Valley e San Francisco. Ognuno di questi posti non viene ritratto per quello che è in realtà, ma per come la sua immagine si è diffusa nel mondo grazie a decenni di cinema e televisione. «Sembra come… ogni maledetto film sulla città, sai?», ammette Jesse Custer osservando Manhattan dall’Empire State Building.

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Nel 1980, l’artista statunitense Richard Prince comincia a ri-fotografare campagne pubblicitarie della Marlboro tagliando fuori dall’inquadratura loghi, slogan e tutto quello che ne potrebbe tradire l’origine. «Se non sai cosa stai guardando, potresti definire l’immagine come una definizione perfetta dello spirito del West americano, con tutto che implica a riguardo di machismo da duri, libertà personale e Dio», ci spiegava dalle colonne del Telegraph il critico d’arte Richard Dorment. Era America elevata al cubo, senza tutte le sbavature della versione reale. Un mito diffuso in tutto il mondo attraverso un pacchetto di sigarette. Preacher funziona alla stessa maniera, con la medesima mancanza di interesse a opporsi a questo vizioso meccanismo.

Così i texani sono tutti rozzi razzisti (anche se Austin è la città più liberale e progressista degli USA), ognuno ha una seconda possibilità, la religione cattolica non può che assumere sfumature di fanatismo, la parola di un uomo vale più di mille contratti, il Jack Daniel’s è un ottimo whisky e tutta un’altra serie di allegre panzane. In mano a qualsiasi altro autore ne sarebbe uscita una barzelletta, ma Garth Ennis ci mette talmente tanto amore da renderlo qualcosa di magico. Chissà, forse perché in quel particolare frangente della sua vita il sogno americano lo stava vivendo davvero sulla sua pelle, ricalcando le imprese di altri emigrati di lusso come Alan Moore, Grant Morrison e Neil Gaiman.

Al momento dell’uscita del primo numero di Preacher, Ennis era un venticinquenne nato tra le bombe dell’Irlanda del Nord e professionalmente cresciuto sulle pagine di 2000 AD. La sua run del Giudice Dredd viene ricordata come una delle più estreme della storia del personaggio – il che è tutto dire – e raggiunge il culmine con il megavento in venti parti Judgement Day. La qualità della sua scrittura gli permette a soli ventuno anni di esordire sulle pagine della testata di culto Hellblazer, succedendo al creatore della serie Jamie Delano. Si tratta del primo lavoro importante per il mercato statunitense di questo ragazzaccio che, del tutto incurante della pressione, decide di sfruttare l’occasione fino in fondo.

Così, nello story arc Cattive Abitudini, John Constantine, il cui tabagismo compulsivo rimane uno dei tratti distintivi del carattere, scopre di avere un tumore ai polmoni e di essere praticamente spacciato. L’esordio col botto gli garantisce una permanenza di diversi anni su quelle pagine intrise di occultismo e puzza di posacenere da pub, dandogli tutto il tempo di affilare le armi in vista del suo lustro d’oro. Tra il 1995 e il 2000 il nostro sboccato irlandese si divide tra Preacher e Hitman, meno noto del primo ma considerato da molti il suo autentico capolavoro. I motivi di una tale esplosione di popolarità sono semplici: idee esagerate a rendere ben distinguibile ogni storia, volgarità, gestione del ritmo perfetta e protagonisti scolpiti nella roccia.

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Prendiamo la prima parte di Preacher. Senza mezzi termini, a livello di tecnica è esemplare, un treno lanciato con la precisione di un cronografo svizzero tra luoghi e personaggi sempre diversi. Ennis divide il macroplot della serie in microarchi narrativi dotati di uno svolgimento organico e ben delineato. Non ci si annoia mai perché c’è sempre qualcosa di diverso in corso, eppure ci si sente immersi in un vicenda epica che richiederà anni e anni per arrivare alla sua conclusione. Parliamo di un tipo di mestiere che si impara solo scrivendo centinaia di pagine e leggendone migliaia, assorbendo a livello sottocutaneo meccanismi e trucchi da artigiano navigato. Tutto funziona talmente bene che, quando il meccanismo si inceppa – aspetto innegabile degli ultimi numeri – ci si sente zavorrati e si arriva al gran finale davvero esausti. Sceneggiatore compreso. Complice l’inarrestabile ascesa verso le vette di follia della prima parte della run, era praticamente impossibile che si riuscisse a garantire un ritmo così elevato fino alla fine. La debolezza del finale della serie è cosa nota a tutti, ma poco importa quando il percorso per arrivarci è stato così divertente.

Quello che rende particolarmente godibile la serie è la minuzia di particolari con cui è descritta questo distillato d’America. In anni di ipertrofismo anatomico ed effetti speciali a tutti i costi come i ‘90s, ecco arrivare un disegnatore dallo strano tratto sommesso, destinato ad asciugarsi ancora di più con il passare dei numeri. Anche se troppo spesso si tende a dimenticarsene, Steve Dillon è fautore del successo di Preacher tanto quando Ennis. L’andazzo grottesco e a tratti puerile della sceneggiatura trova nelle sue tavole, così pulite ed efficaci, il perfetto contrappeso per non finire mai a farla fuori dal vaso. All’inizio di questa folle avventura si nota forse qualche tendenza più caricaturale, ma arrivati all’ultimo numero quello dietro la tavola rimane un disegnatore solo apparentemente rigido, misuratissimo nel bilanciare storytelling e spettacolarità in maniera asciutta e mai noiosa. Se le tonnellate di personaggi della serie risultano uno più memorabile dell’altro è anche merito della straordinaria sintesi del disegnatore inglese.

I chiaroscuri in cui viene calato l’autodistruttivo Cassidy nei suoi momenti più cupi e la crudezza glaciale dei trascorsi da tossicodipendente, per esempio. Senza l’apporto di Dillon difficilmente Ennis avrebbe potuto dimostrare con tale chiarezza la sua capacità di tratteggiare psicologie stratificate e, seppur traslate in un contesto assurdo, realistiche. Prendiamo come esempio il vampiro irlandese appena citato. Come succedeva nel film svedese Lasciami entrare, più che succhiare sangue questo parassita si nutre della vita di chi gli sta accanto, in maniera non troppo dissimile da quanto facciano certi deprecabili individui nel mondo reale. Uno spicchio di autentico dolore che va distinguersi dal resto del teatrino ultraviolento, con conseguente strampalata parata di attori, che è Preacher.

Tipo Facciadiculo, ottuso adolescente di provincia intenzionato a seguire le orme del suo idolo Kurt Cobain tirandosi una fucilata in bocca. Peccato che il Nostro sia tanto inetto da sbagliare perfino questo, rimanendo sfigurato per tutta la vita. Dopo un presupposto così assurdo non poteva che prendere il via una vicenda altrettanto surreale. Prima lo ritroveremo nei panni di un giustiziere in motocicletta, poi di una ricchissima e improbabile rockstar gabbata dal suo manager. Il punto più alto della sua presenza su queste pagine, prima di andare a concludere la sua parabola da loser in un paternalismo da film Disney, la si raggiungerà con la beffarda favoletta Mondoculo. Classico campione di quella satira di grana grossissima con cui Ennis ha dimostrato spesso di divertirsi come un bambino.

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Forse ancora più interessante è la vicenda del temibile Herr Starr. Ex-soldato delle forze speciali tedesche, entra a far parte del Graal diventandone ben presto il Sacro Esecutore. La sua amoralità e la sua abnegazione a un obbiettivo enorme – un nuovo mondo più giusto e privo si sbavature – ne fanno una perfetta macchina da guerra. Le cose incominciano a farsi più complicate nel momento in cui decide di scalare le gerarchie della potentissima organizzazione segreta. Il suo obbiettivo è semplice: prenderne il controllo e accelerare il processo di azzeramento della civiltà sfoltendo tutte le manfrine da ordine religioso di quart’ordine. Sebbene all’inizio le sue motivazioni siano saldamente legate a ideali di giustizia, una sequela di eventi piuttosto curiosa lo trasforma ben presto in un animale assetato di vendetta. Niente di troppo strano, visto che il Nostro finisce per perdere un orecchio in una sparatoria, trasformarsi in un pene gigante, farsi cannibalizzare una gamba e staccare i genitali a morsi da un enorme cane addestrato da uno specnaz sovietico. Un bigino di tutte le esagerazioni tanto care a Ennis, compreso l’utilizzo di un ordigno atomico per scopi personali, che ne fanno una delle personalità più memorabili di questo western sui generis.

Nel delineare questi personaggi secondari affiora con maggior chiarezza l’intento vagamente conservatore dell’irlandese, tanto abile nel dare vita ad attori sopra le righe quanto a ristabilire il “giusto” ordine delle cose prima della chiusura dell’ultimo numero. L’unico personaggio che se ne esce da vincitore è infatti il predicatore Custer, quello che fa le cose alla vecchia maniera rimboccandosi personalmente le maniche. Una piccola rivoluzione dal vago retrogusto reazionario, se lo contestualizza negli anni in cui viene pubblicato il fumetto. Nel 1994 Beck conquistava il mondo cantando «sono un perdente, tesoro, quindi perché non mi uccidi?», Kevin Smith descriveva una gioventù svogliata e menefreghista, una nuova generazione di punk all’acqua di rose scalava le classifiche facendoci credere tutti ribelli, le major del fumetto pensavano di attirare nuovi lettori mettendo in scena sfilate di eroi disturbati alla Marvel Edge o giocandosi la carta della sociologia facile con titoli come Generation X di Lodbell e Bachalo. Il tutto mentre Kurt Cobain cambiava per sempre la concezione di idolo adolescenziale sparandosi, come abbiamo già visto, in bocca.

In uno scenario simile, la comparsa di un personaggio come Jesse Custer deve aver avuto l’effetto di un fulmine a ciel sereno. Duro come un blocco di marmo, altrettanto integro e sempre pronto a risolvere le cose menando le mani è il classico tipo che non ha esitazioni sul fare la cosa giusta, costi quel che costi. Concreto, senza peli sulla lingua, incapace di fare giochetti con chi gli sta accanto – se non per difendere la sua bella – e con l’amicizia maschile come massimo ideale vita, il protagonista di Preacher è uno degli ultimi maschi alfa del fumetto statunitense. Togligli tabacco e parolacce sostituendole con uno scudo di vibranio e praticamente otterrai Capitan America. Qua e là fanno capolino qualche incertezza o un sottile bisogno fisiologico di avere sempre accanto qualcuno, tanto per renderlo più umano, ma è davvero poca roba.

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Se alle prime apparizioni il suo carisma e la sua cazzutaggine sono uno dei punti di forza della serie, alla lunga ne diventano anche il difetto maggiore. La limpidezza della sua storia d’amore con Tulip – donna bellissima, tostissima ed emancipatissima – e l’abitudine di chiudere qualsiasi discorso accendendosi una sigaretta e sputando una frase a effetto vengono prestissimo a noia. Spesso si ha l’impressione di avere davanti agli occhi una parodia del tipo tosto, cresciuto tra i saggi consigli del padre e le violenze del mondo, piuttosto che un personaggio dotato di autentico spessore. Soprattutto nel rapporto con la fidanzata assistiamo a un infantilismo da romanzetto Harmony davvero irritante, con i nostri impegnati in continue maratone sessuali e a declamare il loro amore “fino alla fine del mondo” ogni pugno di pagine. Da notare come Custer sia l’unico di tutta la serie la cui vita sessuale non viene descritta in maniera deviata o come legata a qualche complesso d’inferiorità.

Ma forse era da immaginarselo. In un affresco su di un’America ideale, quella venduta al resto del mondo fino al 1989, sarebbe stato impensabile far emergere come protagonista un appassionato di strap-on. L’unico vero trionfatore doveva essere un cowboy composto in egual misura da alcool, tabacco e armi da fuoco. Uno che riesce a punire Dio, a redimere il suo ex-migliore amico, a chiudere tutti i conti in sospeso e a darci il suo commiato in sella a un cavallo, assieme alla sua bella innamorata più che mai, senza battere ciglio. Era l’unica soluzione coerente. Verrebbe da dire che Ennis convogli in Preacher tutto l’amore per John Ford, lasciando la sua venerazione per il ben più crepuscolare Peckinpah alle pagine di Hitman. Che infatti risultava ben meno retorico e più pessimista. Lì nel fare la cosa giusta il protagonista non si avviava verso un orizzonte infinito. Semplicemente moriva, proprio come Pike Bishop, Llewelyn Moss e tutti quegli uomini della frontiera nati fuori tempo massimo.

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