Siamo nel 2008 e nei cinema di tutto il mondo sta per uscire il primo Iron Man. I Marvel Studios, per la prima volta in grado di finanziarsi in maniera del tutto autonoma un lungometraggio, decidono di affidare il loro debutto nel mondo del cinema a uno dei personaggi meno folkloristici dell’intero e sconfinato parco e scegliendo come regista un attore comico il cui successo più grande, fino a quel momento, era stata una strana commedia natalizia con Will Ferrell.
I trailer sono buoni, tuttavia sono in pochi a crederci. Gli appassionati strabuzzano gli occhi per la fedeltà di certe scelte, ma il pubblico generalista è concentrato su altro. L’attenzione è infatti tutta per Il Cavaliere Oscuro di Christopher Nolan, in uscita di lì a un paio di mesi, e preceduto da una campagna pubblicitaria a dir poco imponente. A questo si aggiunge la morte dell’attore maledetto, risucchiato dal personaggio del Joker sino al punto, si dice, da non riuscire più a venirne fuori.
La ricetta per uscire dal tunnel del blockbuster di plastica che ha caratterizzato buona parte degli anni Novanta pare sia proprio quella del nuovo Batman: tanta voglia di prendersi sul serio, l’oscurità, il realismo, Hans Zimmer sempre più lanciato nel ruolo di nuovo Danny Elfman. Dall’altra parte, Kevin Feige e compagnia mettono sul tavolo Robert Downey Jr. – pronto a tentare il tutto per tutto interpretando se stesso –, un sacco di battutine sagaci, Chris Cornell e i Black Sabbath sparati a tradimento già dai teaser. Alla luce delle aspettative caricate sulle spalle dei due titoli, sono sempre meno quelli pronti a puntare sul cavallo della scuderia Marvel. Poi il film arriva al cinema e succede il miracolo, incassando abbastanza da generare un forte interesse intorno al progetto.
Tutti ne parlano bene, elogiando l’irresistibile leggerezza di fondo. Forse perché un cinecomic così non si era mai visto prima: da un assunto assurdo – un miliardario geniale si costruisce un esoscheletro da combattimento per fuggire da una grotta dell’Afghanistan – parte una commedia inoffensiva, tutta costruita sulla brillantezza degli attori. La sceneggiatura lascia in secondo piano la pacchiana spettacolarità a tutti i costi del decennio precedente e rimpicciolisce l’inquadratura. La gente non aveva idea di chi fosse Iron Man, e, a dirla tutta, neppure gli interessava di essere informata al riguardo, preferendogli piuttosto una mai così bella Gwyneth Paltrow impegnata a battibeccare con un alcolizzato pieno di talento. In realtà, stava succedendo ben altro e pochi di quegli spettatori sospettavano che, sotto quel bel pacchetto tanto brillante, si celasse la cosa più somigliante ai fumetti originali mai arrivata sugli schermi cinematografici statunitensi.
Era l’inizio di un processo di trasformazione del pubblico che da lì a sette, otto anni avrebbe fatto apparire come perfettamente normale guardare un telefilm per adulti basato su un ninja cieco e riconoscere al volo un personaggio come Visione.
Civil War, un sogno (cinematografico) proibito
L’isteria nerd generata dalla scena post-credits del primo Iron Man rimarrà nella storia come una delle manovre di marketing più riuscite. Anche oggi, a distanza di quasi due lustri, fa venire la pelle d’oca vedere Samuel L. Jackson nei panni di Nick Fury presentarsi come direttore dello S.H.I.E.L.D. e introdurre come se nulla fosse l’ipotesi Vendicatori. Era autentico stupore infantile quello che allargava i nostri volti al cinema in quel momento, l’esatto momento in cui i fumetti della nostra infanzia e adolescenza prendevano per la prima volta vita su uno schermo in modo degno e senza vergognarsi di ciò che erano. Il fatto poi che quei trenta secondi fossero nascosti li rendeva ancora più speciali: la platea generalista lasciava la sala, solo i true believer restavano fino alla fine dei titoli di coda. Un po’ come la testa impalata di John Romero alla fine di Doom 2: uno di quei segreti che distinguono utenti casual da adepti di lunga data. Due pellicole dopo, l’attesa della scenetta nascosta sarebbe diventata un fenomeno di massa.
«Ci sarà un film dei Vendicatori?» ci si chiedeva. Intanto, l’universo cinematico Marvel incominciava a prendere piede.
Alcuni accoppiamenti che sulla carta funzionano benissimo – supereroe rétro più Joe Johnston – non riescono a ingranare, mentre altri più strampalati – il Thor diretto da Kenneth Branagh – ci regalano momenti di autentico piacere. L’aspetto sempre presente, in ognuna di queste pellicole, era comunque l’assoluto rispetto per la fonte originale. Il Teschio Rosso era ridicolo come sulle pagine degli albetti, mentre Asgard era imponente e folle come ci si aspettava. Poi arrivò l’annuncio di Joss Whedon, ex regista e creatore di Buffy nonché sceneggiatore di una magnifica run degli X-Men, alla regia di The Avengers.
Ammettiamolo, arrivati a una certa età è facile fare quelli che di certe cose non sanno più che farsene. Preferiamo piuttosto passare il tempo a sistemare gli ultimi volumi di Adrian Tomine e Jonathan Franzen nella mensola della libreria ad altezza uomo, in modo che siano i primi titoli su cui si posa lo sguardo di chi ci entra in casa. Eppure, per quanto ti voglia allontanare da quelle visioni così infantili, non puoi nascondere che certe cose ti smuovano sempre. Vedere un nerd da battaglia come Whedon messo alla guida di un blockbuster impossibile dove andranno a convergere tre protagonisti di altrettanti successi al botteghino è una di quelle. Il film è bello – non bellissimo, accontentiamoci – ma il suo maggiore pregio è quello di farci andare in brodo di giuggiole al pensiero di ciò che sarebbe arrivato dopo. Se sono riusciti in una simile impresa dove arriveranno con la conclusione dell’inevitabile trilogia? In quel momento il sogno proibito era Civil War.
Non potevamo immaginare che da lì a poco l’asticella si sarebbe sollevata a livelli così assurdi da poter includere procioni parlanti, titani pazzi, guanti dell’infinito, uomini formica e maghi supremi. Ci sarebbe bastato sapere che qualcuno a Hollywood stesse considerando l’idea di investire centinaia di milioni dollari in un film dove si parlava di registrazione governativa di supereroi. C’era già stato Watchmen, è vero, ma questa volta era del tutto diverso. Il resto poi è storia: il film c’è stato davvero – uscirà in questi giorni nelle sale – e pare sia una bomba.
Quando avevo quattordici ci si doveva accontentarsi di Batman & Robin e il massimo di cui si parlava su certe testate circa la pellicola di Joel Schumacher erano i capezzoli in plastica di George Clooney. Adesso anche i giornali più autorevoli fanno a gara a chi indora di più un film dove un sacco di supertizi in costume si menano con altri supertizi in costume. Questa cosa fa capire quanto il gusto del pubblico più sofisticato sia cambiato nel corso degli ultimi anni, lasciando maggiore spazio al fantastico e all’evasione.
Se volessimo cercare di capire quali siano stati i capisaldi in grado di ribaltare la situazione in maniera così significativa (vi ricordate quando i nerd erano quelli di Freaks & Geeks?) potremmo mettere sul tavolo i soliti Il Signore degli Anelli, Battlestar Galactica, la settima generazione di console da gioco, Harry Potter, il Trono di Spade, lo stesso Marvel Universe, come abbiamo già visto. Eppure sono convinto che un minimo di importanza l’abbia avuta anche la prima versione di Civil War, quella su carta, destinata a infrangere ogni record di vendita durante l’anno della sua pubblicazione.
L’America, la Guerra Civile e Mark Millar
La saga di Civil War comincia a raggiungere gli scaffali delle librerie statunitensi nel maggio 2006. Come vuole la tradizione di casa Marvel, il più grosso evento dell’anno viene affidato allo scrittore del momento, in modo da poterne sfruttare appieno la popolarità. Nessun dubbio sul fatto che all’epoca il nome da fare era quello di Mark Millar, al picco della sua forma creativa. Lo scozzese veniva infatti da una sfilata impressionante di successi, dagli Ultimate X-Men alle due serie – anzi, stagioni, come le chiama lui – degli Ultimates passando per il rilancio di Wolverine. Scrive inoltre la seconda, ottima run di Authority, il “what if” Superman: Red Son più una serie indefinita di esperimenti per qualsiasi casa editrice disposta a dargli possibilità. Giorno dopo giorno il “Millarworld”, il suo personalissimo universo espanso, si consolida e conquista nuovi, impensabili territori.
La sua strategia è piuttosto semplice: grandi idee riassumibili in un pugno di parole, provocazioni calibrate sul margine massimo tollerato dalla casa editrice interessata, spettacolarità a ogni costo, un sacco di richiami all’attualità, one-liner come se piovesse e incipit il più impattanti possibile. Non riesco a trovare una ricetta migliore per vendere fumetti d’evasione: ogni nuovo titolo di Mark Millar ti faceva sentire come stessi leggendo la cosa più figa al mondo. Già dalle prime pagine potevi dare un’identità ben precisa a quelle storie, avevi almeno un paio di battute da citare a memoria e una discreta serie di esempi per dimostrare a chiunque come quella non fosse la solita roba da bambini.
A distanza di anni è facile capire come in realtà le cose siano andate diversamente: Millar non avrà mai scritto nulla di davvero grande in senso stretto, ma la sua incredibile ricetta per cucinare prodotti perfetti rimane indiscutibile. E in questo senso Civil War è il suo capolavoro.
Il megafumetto di Mark Millar
L’avvio è di quelli grandiosi: Speedball e i suoi New Warriors sono i protagonisti di un reality show. Nel tentativo di alzare gli ascolti decidono di attaccare un gruppo di criminali ben al di sopra delle loro possibilità e il risultato è una tragedia, con oltre seicento vittime tra i civili.
È chiaro fin da subito come ci si trovi già in pieno territorio millariano: qualsiasi altro scrittore avrebbe imperniato la vicenda su un paio di caduti nel corso di qualche missione rischiosa-e-immorale-ma-necessaria, avrebbe tirato in ballo il concetto di danni collaterali, qualche frecciatina d’attualità, il solito «Mio Dio, cosa siamo diventati?» e a posto così. Millar invece deve per forza metterci centinaia di morti, tra cui un’intera scuola elementare, a causa di un reality show. Guarda caso, tra il 2005 e l’inizio del 2006, MTV lancia 8th & Ocean, Laguna Beach: The Real Orange County, NEXT, The Hills, Two-A-Days, My Super Sweet 16, Parental Control e Viva La Bam. Una sequela di reality che portano l’emittente a diventare il più grande nemico dell’umanità dopo la Corea del Nord e l’Iraq.
Dopo un’idea così, lanciata proprio in quel momento, la strada non poteva che essere tutta in discesa. La trama prende poi una brusca svolta “politica” – virgolette d’obbligo – quando il governo degli Stati Uniti chiede la registrazione di tutti i supereroi, in modo poterne regolamentare le funzioni. C’è chi la prende bene e chi invece proprio non ci sta. L’idea è trita e ritrita, ma è qui che subentra l’autentica intuizione: a dispetto di ogni previsione, a ribellarsi al Governo non è l’eccentrico miliardario Tony Stark, ma il ligio Capitan America. In apparenza, un ribaltamento di prospettiva quasi epocale, capace di generare un‘attenzione folle sull’evento; in realtà il gioco dello scozzese per una volta si conferma molto più raffinato di quello che ci si potrebbe aspettare.
Mark Millar sarà anche un volgarotto amante delle boutade gratuite, ma dalla sua ha sempre avuto un occhio incredibile per il tratteggio psicologico dei suoi personaggi, riuscendo a riassumere in pochissime vignette apparentemente inutili personaggi spesso agli antipodi. Come accade, ad esempio, nella prima serie degli Ultimates, con un Nick Fury che cercare di convincere Bruce Banner a unirsi alla squadra. Il setting è formale, una rilassata cena in un lussuoso ristorante di Chelsea. L’instabile scienziato cerca in ogni modo di darsi un tono scegliendo «arrosto al sesamo e allo zenzero in salsa dolce di peperoni rossi. Senza cipolle, grazie. Sono un po’ allergico». Chiunque abbia lavorato per abbastanza tempo in un ristorante sa bene come certe vezzose scelte degli avventori siano in realtà disperate ricerche di attenzione, spesso a dispetto della qualità di quello che andrà a mangiare. In tutta risposta il suo commensale preferisce buttarsi senza alcun dubbio – quasi non guarda neppure il menù – su di una bistecca al sangue. Sicuro, concreto, senza tempo da perdere in ammennicoli da aspirante cuoco di Master Chef. Lui è lì per lavoro e nel suo campo nessuno è migliore di lui. Lo sa bene e il mondo è meglio che si adegui. Nell’arco di due vignette apparentemente inutili abbiamo tratteggiato alla perfezione due personaggi agli antipodi. Potrete perciò anche odiare Millar, ma vi assicuro: non è un risultato da poco.
Alla stessa maniera in Civil War la divisione tra le due fazioni dei personaggi non è così manichea come appare.
Capitan America infatti non si sta ribellando agli Stati Uniti, sta solo dimostrando di essere più americano di quanto avremmo mai immaginato. Una caratterizzazione del personaggio ben diversa dal pupazzetto asservito alla Casa Bianca che ci immaginiamo noi spocchiosi europei. Un simbolo dell’essenza sudista come i Lynyrd Skynyrd non cantavano Free Bird per nulla. Alla stessa maniera, non mi ci vedo anarcoidi come Jonh Milius o Hunter Stockton Thompson seguire alla lettera ogni singola regola decisa dai colletti bianchi del governo. Eppure trovo pochi esempi di personaggi più americani di loro.
Tony Stark invece è Elon Musk, Mark Zuckerberg, Larry Page e Sergey Brin messi assieme ed elevati a potenza. Un classico esempio di oligarca della Silicon Valley, investito della missione di rendere il mondo un posto migliore per tutti noi. Il fatto che questa gente finisca per accumulare ricchezze impossibili e costituisca il nostro filtro sulla realtà sono solo aspetti secondari. Anzi, secondo perditempo come Jaron Lanier, staremmo perfino lavorando gratuitamente per loro. Guarda caso di tutti i personaggi coinvolti in questa Guerra Civile solo uno finisce per guadagnarci. Una volta conclusasi la bagarre, infatti, Iron Man viene messo a capo della sicurezza mondiale, mentre ogni accusa di sopruso o abuso di potere viene lasciata cadere nel nulla. Cosa vuoi che sia la deportazione in realtà parallele di gente impegnata fino al giorno prima a rischiare la vita pur di salvarci tutti? Il suo socio in questa impresa è Reed Richards, altro genio scientifico che non si è mai fatto grossi problemi a scavalcare leggi e istituzioni pur di seguire la propria vocazione. Per maggiori informazioni al riguardo chiedete pure di Ben Grimm.
Gli schieramenti di questa Guerra Civile paiono ricollegarsi – schiavitù esclusa – a quelli della Guerra di Secessione del 1860. Gli indipendentisti della Bible Belt, culla dell’America più autentica, contro i progressisti del nord del paese; la tradizione del sud (ricordiamo come il Capitan America di Millar si comporti ancora come un uomo degli anni ’40) contro il presunto ultra-progressismo della West Coast. Entrambi gli schieramenti interpretano benissimo le spinte più viscerali degli Stati Uniti d’America, causando un interessante cortocircuito tra realtà e finzione.
Civil War finisce per essere l’evento fumettistico più chiacchierato dell’anno, cominciando a far capire a chi stava ai piani alti cosa piace davvero al pubblico moderno. Un processo iniziato già quattro anni prima con il successo ben oltre le aspettative degli Ultimates, serie progettata per svecchiare la fazione più tradizionalista dell’universo Marvel e di cui un sacco di intuizioni sono andate a confluire nelle fondamenta delle loro controparti cinematografiche. Anzi, è risultato chiaro fin da subito come i Vendicatori cinematografici fossero in realtà quelli visti all’opera dal 2001 in poi: da quando insomma Millar ha cominciato a mettergli in bocca battute come «Speravo che valere trecentocinquanta miliardi di dollari potesse farmi qualificare come eccentrico», passando per il nuovo Iron Man nanotecnologico di Warren Ellis e finendo la propria corsa con Civil War.
Fare e strafare la guerra
Ma se alla base ci sono tutte queste fantastiche idee, così influenti anche oggi, perché non consideriamo questa saga come una grande storia e non solo come un ottimo esempio di crossover estivo?
Il problema sta tutto nel linguaggio utilizzato e nella solita smania di esagerare delle grandi major del fumetto statunitense. La tradizione vuole che questi eventi debbano essere la cosa più ‘grossa’ dell’anno e, dovendo anche vendere tonnellate di copie, ogni forma di avanguardia per il raggiungimento di tale risultato viene cassata già alla linea di partenza. L’unica via accettabile è prendere un disegnatore come Steve McNiven e chiedergli di disegnare più splash page possibile.
«Tieni i punti esclamativi sotto controllo. Ti è permesso di usarne non più di due o tre ogni 100.000 parole» era la quinta regola della buona scrittura di Elmore Leonard. Con i fumetti è la stessa cosa: le vignette a tutta pagina, o comunque tavole basate su griglie piuttosto larghe, devono essere usate con parsimonia, possibilmente per accentuare momenti già di per sé piuttosto importanti. Possono servire a incorniciare il picco di un climax costruito con tutta calma in precedenza o a scagliarci con violenza all’interno di una sequenza fondamentale. Se cominciamo a disseminare vignettoni extra-size ovunque, con la scusa che la saga è uscita in sette albi e ognuno di essi deve poter fornire almeno un picco emotivo, quel che otterremo saranno due risultati: innanzitutto, perderemo l’impatto emotivo di questo strumento; in secondo luogo, sottrarremo un sacco di pagine a una narrazione con più respiro.
Civil War ha solo una decina di pagine in meno rispetto al Cavaliere Oscuro di Frank Miller, altro fumetto che non ha mai fatto nulla per nascondere la sua indole spettacolare, ma la differenza di imponenza della storia, al di là dell’importanza storica, è imbarazzante. Ci sono pagine dell’opera di Miller che arrivano a contenere 16 vignette e un sacco di testo. Questa cosa rallenta di molto il ritmo di lettura, lascia tirare il fiato, fornisce un sacco di profondità alla vicenda e ci permette di allargare lo sguardo su di un mondo che altrimenti finiremmo per guardare dal finestrino di un treno in corsa. Cosa che, invece, accade puntualmente in ogni crossover targato Marvel.
C’è anche un altro aspetto da prendere in considerazione. La seconda parte della regola d’oro citata poco sopra è «Se poi sei incline a giocare con i punti esclamativi come Tom Wolfe, puoi aggiungerne a manciate». Proprio come non tutti gli scrittori possono ambire a scrivere Il Falò delle vanità, così non tutti i disegnatori sono Walter Simonson. Uno che all’apice della sua run di Thor se ne uscì con un episodio di sole splash page, lasciando tutti annichiliti dalla potenza del tratto e delle composizioni. Già, perché se Simonson è stato (almeno per questo) un genio, Steve McNiven è quello che in linguaggio cinematografico verrebbe definito come uno shooter di livello medio alto. Alla Antoine Fuqua, per capirci. Tutti abbiamo adorato vedere Denzel Washington prendere ancora una volta in mano la situazione in The Equalizer, ma dubito che qualcuno lo possa citare fra i propri film preferiti, no? Allo stesso modo, il disegnatore di Civil War fa tutto ciò che deve per impressionare lo spettatore medio, evitando con cura ogni forma di autorialità o vezzo d’artista: le sue splash page non contengono narrazione, ma paiono riproduzioni della vetrinetta delle action figure della nostra fumetteria di fiducia. Sono quasi sempre del tutto gratuite, messe lì solo per sciorinare ancora una volta il cast corale della miniserie. La colpa non è certo tutta sua (in coppia con Warren Ellis, ricordo prove soddisfacenti), ma ancora una volta di Mark Millar. Questi ha preferito scrivere una sorta di enorme trailer su carta per tutto il castello di spin-off e vicende parallele, anziché costruire una sceneggiatura in grado di camminare da sola.
Ne avevamo già parlato per Secret Wars, dimenticandoci di sottolineare un dato: già nel 2006, le cose non erano andate molto diversamente. Stando a Wikipedia, l’intera Civil War è stata spalmata su qualcosa come 24 volumi, per un totale di 3.888 pagine da seguire nel corso di neppure un anno. Faccio presente come invece la miniserie principale arrivi a malapena a occuparne 208. Inficiata in chiusura, oltretutto, dalla cronica incapacità di Millar di scrivere conclusioni degne e dalla scellerata scelta di puntare tutto su uno stile fracassone e roboante. Di tutte le informazioni contenute in quelle 3.600 pagine di differenza, farne confluire qualcuna nella linea narrativa principale avrebbe contribuito a renderla qualcosa di più di una bella idea agghindata con un sacco di specchietti per le allodole. Una soluzione intermedia la si sarebbe potuta trovare. Forse. Ragionando.
Con questo non voglio certo dire che la quantità premi sempre – le sei pagine della prima versione di Qui di Richard McGuire ne sono testimonianza palese –, ma che forse saghe dall’afflato epico hanno bisogno di un minimo di profondità per poter mostrare tutta la loro imponenza. Ancora una volta ricordo come, secondo il noto manuale di scrittura di Alan Moore, la costruzione di un mondo tangibile e ben articolato sia alla base di qualsiasi storia. Bisogna prendersi il tempo necessario per metterlo in piedi e, solo in un secondo momento, concentrarsi su risse e battute da bullo.
Rileggendo Civil War, dieci anni dopo
In conclusione, non è sbagliato dire che rileggere oggi Civil War significhi riprendere in mano una storiella tutto sommato modesta, con qualche bel momento, troppa routine e pochi momenti davvero evitabili (curiosamente tutti riconducibili alle apparizioni del Punitore). Di quei sette albetti striminziti è rimasto soprattutto il ricordo di un’idea davvero grandiosa, qualche momento fatto apposta per essere dato in pasto ai media generalisti – Peter Parker che rivela la sua identità in conferenza stampa – e una testimonianza ben precisa di come la Marvel sia stata in grado di rimettersi in careggiata dopo anni di tragedia editoriale.
L’arrivo di Joe Quesada sulla poltrona di Editor in Chief solo sei anni prima, e la gestione perfetta di team creativi in stato di grazia ne furono il principale antidoto. Senza il magazzino di idee incamerate in quegli anni, comprese quelle non certo sviluppate alla perfezione, ho qualche dubbio sul fatto che David Maisel (boss e anima dei Marvel Studios dal 2004 al 2010) sarebbe stato in grado di farsi finanziare in via del tutto preventiva dalla Merrill Lynch Wealth Management ben dieci film basati su personaggi Marvel.
Oggi sappiamo bene come quella costosa scommessa sia andata a finire: secondo le proiezioni, il nuovo Capitan America sarà il terzo film Marvel a superare il miliardo di dollari di incassi; sull’inserto domenicale del Corriere della Sera trova spazio un articolo dedicato a Pantera Nera; tutto ciò mentre il teaser trailer di Dr. Strange macina milioni di visite su YouTube, peraltro sciorinando un cast artistico stellare.
Non sarà certo tutta gloria. Lasciamo a questo momento il privilegio di invecchiare e vedremo, poi, cosa ne rimarrà. Per adesso limitiamoci a constatare quanto storie in grado di fare presa sul nostro immaginario possano smuovere mari e monti.