In Morti di sonno (2009) Davide Reviati aveva raccontato una storia memorabile, a partire da un inconsueto spaccato – fatto di luoghi, dettagli storici, caratteri – della provincia italiana nei tardi anni Settanta. Il suo era un romanzo di formazione crudo e partecipe, realistico ma non filtrato da ingombranti pretesti autobiografici evidenti, che a ragione è già stato definito “nella storia del graphic novel italiano contemporaneo, uno degli esempi più compiuti ed emozionanti” (Matteo Stefanelli, nell’introduzione alla riedizione 2013 per la collana ‘Graphic Journalism’ del Corriere della Sera).
Ora, la lettura di Sputa tre volte – il suo nuovo graphic novel, da poco pubblicato da Coconino Press, QUI un’anteprima – si confronta inevitabilmente con l’avere già vissuto le esperienze, gli ambienti e le sensazioni evocati di Morti di sonno. Non intendo dire, con questo, che Sputa tre volte sia in qualche modo un proseguimento del lavoro precedente, ma è di certo l’ampliamento di un’esperienza artistica articolata e stratificata. Un percorso creativo che trova radicamento profondo nella tradizione narrativa italiana, sia fumettistica che letteraria.
Sputa tre volte ha le caratteristiche del racconto di memorie. Prende forma in un contesto familiare – una provincia rurale italiana (nella Pianura Padana) dai contorni definiti seppur sufficientemente ‘aperti’ da suonare tutt’altro che localistici – in un periodo lontano dal presente ma non troppo, e ruota perlopiù intorno alle azioni di un gruppo di ragazzi. Quando invece entrano in scena gli adulti, compaiono secondo un’angolazione tale da far comprendere che il punto di osservazione è quello degli stessi giovani protagonisti.
Il libro precedente aveva un approccio tanto sentimentale quanto antropologico, nel suo ragionare intorno alla crescita preadolescenziale influenzata indelebilmente dal territorio e da tutto ciò che esso ospita (il mondo del lavoro e della politica, che entravano con prepotenza anche nella vita dei bambini).Sputa tre volte da questo punto di vista fa ancora più sul serio, esplorando diversi caratteri e tipi di umanità. Si apre con una citazione della scrittrice e poetessa Mariella Mehr, appartenente alla etnia nomade Jenish, che da piccola fu vittima di un programma eugenetico del governo svizzero, il Kinder der Landstrasse, che puntava a condannare i genitori Jenish come malati di mente e affidare i loro figli a famiglie svizzere. Ed è proprio intorno alla questione dell’integrazione che ruotano maggiormente le vicende narrate in Sputa tre volte.
I protagonisti sono un gruppo di ragazzini (Guido, Moreno, Katango e altri); sono loro quelli che, dicevamo, danno una prospettiva al racconto. Ma, a ben vedere, i veri protagonisti di tutto il corpo del libro non sono i singoli individui, bensì un’intera comunità, un intero territorio. Lo si comprende ben presto nella lettura di questo lungo libro, che sarebbe inesatto definire racconto di formazione, proprio perché, pur avendo come figure centrali dei ragazzini – appaiono sin dalle prime pagine, impegnati a farsi le canne – il libro di Reviati ha una struttura composita, con la complessità del romanzo e del racconto corale. Con una asciuttezza narrativa che ha il gusto del realismo tipico della letteratura italiana di primo Novecento, ma che si adatta a tematiche della seconda metà del secolo (tanto che quindi sarebbe corretto definire Reviati neo-realista), l’autore fa suo quel viscerale attaccamento alla terra che si trovava nelle opere di Cesare Pavese, Federigo Tozzi, Giovanni Verga, e poi nel Pier Paolo Pasolini romanziere: storie di rurale quotidianità, che nascono dal radicamento italiano nella provincia profonda di prima e dopo la Seconda guerra mondiale.
C’è una contrapposizione spontanea, quasi brutalmente naturale, tra il mondo di mezzo dei ragazzini, l’aspro quotidiano degli adulti e l’esistenza selvaggia di animali e nomadi (questi mostrati come fossero sullo stesso piano, per come vengono percepiti dalla popolazione). La loro è una convivenza dura e primordiale, mondi che si incrociano con interazioni schiette e talvolta brutali. Lo specchio narrativo in cui entrano i personaggi descritti da Reviati ha una tinta neutra, non idealizzata, non ammorbidita dal compiacimento del ricordo. Al centro del suo racconto c’è proprio l’antropologico interesse per le (macro) relazioni umane tra gruppi diversi, siano esse tra stadi di evoluzione e crescita, siano tra etnie differenti; tanto che a tratti la narrazione lascia spazio alla didascalità Storica.
Narrare vicende lontane, in un passato prossimo, e in terre vicine ma ancora apparentemente poco contaminate dallo sviluppo economico e industriale, serve in realtà a Reviati per creare una parabola di problematiche odierne della coesistenza, spogliata dai dettagli superflui del contemporaneo. Non gli servono riferimenti palesi ai molteplici scenari attuali di difficile convivenza etnica e a come essa venga affrontata politicamente e socialmente oggi; mostrare l’ecosistema in miniatura della Pianura Padana permette all’autore di ragionare su temi di più ampia rilevanza corrente. Gli zingari convivono con i contadini della Pianura non senza difficoltà, e mostrano reazioni a loro imprevedibili, talvolta rozze quanto quelle di un cane randagio. Ma tutte queste reazioni sono viste e vissute come fondamentalmente naturali, e proprio per questo vengono assorbite con durezza all’interno della struttura sociale, seguendo una logica – una comprensione – che Reviati tratteggia come una forza spontanea, quasi primigenia.
Poi ci sono i ragazzi, altro fattore fuori controllo, mossi da reazioni vivaci, che interferiscono con la monotona ordinarietà degli adulti, in ballo anche loro tra isolamento e integrazione. La storia sembra portare in evidenza una sorta di similitudine tra l’età della crescita (con le sue contraddizioni, gli istinti e le violenze) e la condizione dei nomadi (liberi, animaleschi, disadatti). La gioventù, sembra sottolineare il fumettista, è una sorta punto di incontro naturale, un primordiale momento di eguaglianza sociale.
Reviati racconta questo scenario, e le singole vicende o brevi episodi che compongono il suo romanzo, con un tratto spietato e graffiante quanto lo è il tono della narrazione. Le sue chine non sono mai dispensate sulla tavola con campiture nette, bensì con segni frenetici eppure in qualche modo ponderati: per quanto fitti e ruvidi, raramente escono dai bordi della vignetta, graffianti e sottili come in un acquaforte. Il segno dell’autore appare allora più che mai disciplinato, e le sue figure si sono fatte ormai particolarmente dettagliate e fluide. Seppur meno dinamiche e centrifughe rispetto al passato (fosse solo per la prevalenza qui di scene descrittive rispetto a quelle di movimento), le sagome continuano inoltre a ricordare le deformazioni di Francis Bacon (sì, può sembrare un paragone azzardato, ma penso a certe linee delle figure umane, mobili e grottesche) o gli esperimenti di movimento di Umberto Boccioni (mi riferisco anche e soprattutto alla scultura Forme uniche della continuità nello spazio). In queste forme risuona una eco lontana di Lorenzo Mattotti – quello in bianco e nero di Chimera e Stigmante – e una ‘fratellanza’ grafica con Fabio Visintin.
In realtà, è piuttosto difficile pensare a un autore contemporaneo paragonabile alla poetica – narrativa ed estetica – di Reviati. Troppo radicato nella tradizione letteraria per essere avvicinato alla spontaneità di Gipi, e assai più disciplinato rispetto a lui; troppo diretto e ‘popolare’ – nel senso più alto del termine – per accostarlo alla densità dell’approccio del Manu Larcenet più recente. Eppure con questi, come con i citati Mattotti e Visintin, Reviati sembra condividere una urgenza del segno che va ben oltre la linea, e travolge le figure così come il ritmo grafico. Una urgenza che tuttavia, in Reviati, sembra venire da molto, molto lontano: dal rapporto con il tempo e con la Storia.
Sputa tre volte
di Davide Reviati
Coconino Press
562 pagine, b&n – 25€