di Alessandro Bilotta*
La caratteristica unica di una serie a fumetti è qualcosa su cui il lettore preparato raramente si ferma a ragionare, e di cui il lettore inesperto non si è mai neanche reso conto. Quello a cui mi riferisco è il fatto che i personaggi cambino fisionomia con l’avvicendarsi dei disegnatori e dei loro stili. In alcuni casi queste differenze ne stravolgono i connotati, eppure se il lettore inesperto o casuale non ci fa caso, il lettore preparato ha affrontato la questione a suo tempo e ha assimilato il concetto che un personaggio è uno pur raccogliendo in sé interpretazioni diverse, una caratteristica che appunto è unica nell’esperienza della lettura di una serie a fumetti e che ha un derivato che gli assomiglia nel cinema, quando un personaggio mantiene la propria identità anche se negli anni viene interpretato da attori con caratteristiche fisiche molto differenti.
In anni recenti e in alcune serie, questo modificarsi dei volti dei protagonisti di un fumetto è stato interpretato come un problema da risolvere uniformando lo stile dei disegnatori. Un’altra scuola di pensiero a cui mi sento di appartenere, e che vede in Tiziano Sclavi il fondatore e massimo esponente, interpreta la differenza degli stili dei disegnatori come una risorsa per affrontare più sfumature diverse di una stessa serie e lo sceneggiatore come qualcuno che ha l’opportunità e dovrebbe avere la capacità di adattare una sceneggiatura a chi andrà a disegnarla. Così i lettori preparati sanno che non esiste un solo Dylan Dog, ma c’è il Dylan di Stano, il Dylan di Montanari & Grassani, ci sono almeno due Dylan di Casertano, quello del primo e del nuovo periodo, ci sono i numerosi Dylan di Dall’Agnol.
Ho avuto il caso di essere adolescente quando il Dylan Dog di Tiziano Sclavi ha vissuto il suo periodo di massima creatività e popolarità. Essere adolescenti, quindi per definizione affacciarsi con fragilità alle grandi domande e incontrare ogni mese un fumetto che si fonda su quegli interrogativi, far parte di quell’ «essere ragazzi: che crudeltà…» del “Lungo addio”; tutto ciò ha avuto un peso, infatti siamo qui a mettere in ordine queste parole. Allora non era frequente trovare analisi critiche, poter ragionare su quello che si stava leggendo, penso che il primo testo in assoluto a uscire fosse stato Raccontare Dylan Dog di Michele Masiero, pubblicato da Alessandro Distribuzioni, ed è stata una lettura determinante quanto la serie stessa. Nelle pagine del libro in cui la cronologia degli albi era elencata per autori, accanto al nome di ogni disegnatore c’era la sua interpretazione del personaggio. In poche pagine era chiara in modo netto ogni differenza, oggi potrebbe far sorridere questo stupore, ma in un periodo in cui non si disponeva degli stessi archivi critici e iconografici, un giovanissimo lettore si avvicinava a quel dietro le quinte con un certo senso della meraviglia. Le pagine di quel libro si sono consumate negli anni, anche quelle all’apparenza meno dense di significato come le pagine della cronologia.
Questa premessa è per aiutarsi con le immagini su un concetto che appartiene altrettanto alla parte scritta della serie a fumetti in questione. Il Dylan Dog di Tiziano Sclavi è stata un’opera complessa di situazioni, ambientazioni, temi e stili di racconto che hanno reso impossibile definirla da un solo punto di vista come invece è caratteristica di qualunque altro personaggio dei fumetti. Hanno reso inoltre difficile raccogliere il testimone per gli autori che sono seguiti, quando hanno preteso di scegliere solo una parte di questa forma articolata. Dentro questa multiformità c’è il tentativo di riversare la complessità dell’animo umano, in particolare quello dell’autore, il suo inconscio e il suo subconscio, e non è possibile comprendere i tanti volti di Dylan Dog se non si colgono i tanti volti di Tiziano Sclavi.
«Sono come Woody Allen, il rimpianto della mia vita è di non essere qualcun altro. Chiunque altro. Ma non pretendo Sean Connery, e neppure Dylan. Magari! Se poi qualcuno mi identifica con il mio personaggio è perché, per fortuna, non mi ha mai visto. Comunque no, non mi dà fastidio. Soltanto, un po’ mi rattrista, perché non è vero». Con queste parole Tiziano Sclavi si presentava ad Antonio D’Orrico, in una delle prime rare interviste, sul numero 39 di Sette del Corriere della Sera, nel settembre del 1996 in occasione dei dieci anni di Dylan Dog. L’identificazione, l’invidia e lo scontro con la sua creatura sono elementi con cui ha sempre giocato, e tutti sono veri e falsi insieme. Le varie fasi in cui si dividono le storie di Sclavi sono in alcuni casi semplice evoluzione della scrittura dell’autore, in altri rappresentano il cambiamento del suo stato d’animo, l’avanzare verso il pessimismo, tornare indietro, poi ancora sprofondare nella depressione, le diverse forme in cui tutto questo condiziona il mondo ai suoi occhi. Le fasi di cui parlo in alcuni casi sono ben distinte, in altri coincidono o si sovrappongono. Per me sono tuttavia abbastanza chiare e, se dovessi metterle in ordine, proverei a farlo come segue.
Dylan Dog nasce come un fumetto dell’orrore, figlio delle atmosfere più caratteristiche, anche in stile mostri della Universal, la serie di film sui mostri dell’orrore realizzata tra gli anni Venti e i Cinquanta dagli Studios della Universal. Eppure il fatto che venisse dedicata un’intera serie con un protagonista fisso a un tema del genere, era di per sé innovativo. E nel primo episodio, “L’alba dei morti viventi”, già si rifugge da questo classicismo raccontando un tema come quello degli zombi, moderno anche per il cinema. I disegni di Angelo Stano sono personali e ritraggono l’orrore in un modo inedito, l’impressione che si ha alla fine della lettura è di disturbo, si chiude ancora oggi l’albo con inquietudine. Fin dall’inizio, seppure in minor percentuale, ci sono degli episodi di quello che sarebbe diventato il puro stile Sclavi, seppure ancora inconsapevole. “L’alba dei morti viventi” appunto, ma anche “Gli uccisori”, “La zona del crepuscolo” e “Attraverso lo specchio”. È ancora presto per dire che è nato uno stile, un mondo, ma questi elementi verranno sviluppati in seguito dando a quel mondo una forma. L’esordio è tutt’altro che stereotipato, ma al genere classico appartengono molte delle più belle storie che seguono, come ad esempio “Jack lo Squartatore”, “Le notti della luna piena”, “Il ritorno del mostro”, “L’isola misteriosa”, “La casa infestata”, “Grand Guignol”, “Ossessione”, titoli che riecheggiano i classici del genere, fino in particolare alla prima irripetibile storia doppia: “Il castello della paura”. Dylan Dog si chiude in un castello delle lande inglesi per risolvere un omicidio della camera chiusa. Insieme a lui ci sono i quattro sospetti nipoti dell’uomo assassinato e un fantasma che infesta il luogo. In una sola storia Sclavi inserisce tutti gli elementi più classici del genere riuscendo ad alternare episodi così caratteristici con altri in cui sperimentare nuove soluzioni, l’eterogeneità del periodo classico di Dylan Dog è già presente. Una piccola rivoluzione sta già cominciando.
Il secondo tipo di racconto di Sclavi si alterna a queste storie e sono ingredienti inediti, embrione di un genere di episodio che porterà al nuovo modo di raccontare. In quest’altro tipo di storia, i temi più classici dell’orrore vengono rielaborati e contaminati a elementi stranianti, che attengono alla filosofia e al vivere contemporaneo. A questo mondo appartengono per esempio “Alfa e Omega”, “Fra la vita e la morte”, “Lama di rasoio” e “Canale 666”. In quest’ultimo, Dylan Dog si trova coinvolto in una catena di suicidi indotti tramite messaggi subliminali inseriti nelle trasmissioni di un canale televisivo che sta testando una tecnologia per il lavaggio del cervello.
Al terzo tipo di racconto, al terzo volto di Sclavi appartengono le storie che definirei di pura azione, intrattenimento, episodi come “Killer!”, “Giorno maledetto”, “Tunnel dell’orrore”, un filone che è stato a lungo esplorato nel post-Sclavi. Si può certamente dire che nella sua grande complessità, Dylan Dog contenga anche storie di intrattenimento, ma sarebbe un errore considerare anche queste rappresentative del personaggio. Per citare ancora il saggio di Masiero: «Sclavi è riuscito a creare un prodotto perfetto, culturalmente validissimo anche se estremamente raro: appassiona chi si accontenta di trovarci atmosfere truculente o episodi splatter, ma si presta al tempo stesso anche ad una lettura più profonda, sia artistica che esistenziale». Questa fotografia fedele della serie, sottintende la regola fondamentale, Dylan Dog contiene entrambe le letture, una non può prescindere dall’altra né escluderla. E ancora nel dialogo con Umberto Eco Dylan Dog. Indocili sentimenti, arcane paure, curato da Alberto Ostini per Edizioni Euresis, Sclavi dice qualcosa di ancora più radicale in questa direzione, sostenendo che il pubblico di Dylan Dog fosse un pubblico di cultura medio-alta. Sclavi è convinto che siano davvero pochi quelli che leggono solo il primo livello, che tutti debbano necessariamente essere a un livello superiore per comprendere i tanti riferimenti della sua scrittura, le citazioni, ma anche e soprattutto i temi. Scriveva così, «mettendoci dentro di tutto».
L’evento a cui portò quella scrittura, quel racconto, quelle idee, quel mondo è stato quello di riuscire a fotografare il sentimento di un’epoca. Le storie di Sclavi ci dicono che cogliere lo spirito del tempo non significa inserire semplicemente elementi di quel tempo nelle storie, ma afferrarne e raccontarne i temi e i problemi, facendone metafora e quindi restando in qualche modo attuali. Dylan Dog non è penetrato nella società perché ne riprendeva i fatti all’inseguimento di una modernità o di un giovanilismo che in fondo risultano sempre patetici; è penetrato perché ha saputo cogliere un senso, e quel senso era rimasto intrappolato nel filtro che era Tiziano Sclavi. Quando nel documentario di Gianfranco Soldi, Nessuno siamo perfetti, Sclavi dice: «Il mondo si suddivideva in me e i teppisti. Cioè vedevo teppisti novantenni, teppisti neonati, eran tutti teppisti», in quel momento sta facendo una metafora di un profondo senso della paura che era suo, ma che era quello del mondo. Teppisti erano i nuovi individualisti che stavano raccontando una nuova idea di mondo, teppisti erano i leader politici che lanciavano la politica mondiale verso un benessere irresponsabile che prosciugava le generazioni future, teppisti erano i media specchio di una società dei consumi, teppisti erano gli anni Ottanta. Questo stesso senso di paura è stato raccontato da due delle opere a fumetti più importanti di tutti i tempi, Watchmen di Alan Moore e Dave Gibbons e Il ritorno del cavaliere oscuro di Frank Miller, pubblicati entrambi, come Dylan Dog, nel 1986.
Da qui nasce un’idea, da uno spirito sensibile che sente in modo personale e privato il mondo che lo circonda e lo riversa su carta facendo identificare nella sua lettura quel mondo stesso. Sempre nel dialogo con Umberto Eco, ho sempre trovato completa identificazione in un intervento di Cristina Sclavi che era adolescente quando lo ero io e coglieva in modo esatto il punto di quello che avevano vissuto quei lettori: «uno spazio specifico come Dylan Dog dove della morte si parlava, magari ironizzandoci, ma comunque si parlava, era strano: era un’occasione quasi “magica” di cui approfittare per approfondire gli aspetti più intimi della paura, della speranza, del trascendente». La ricerca di questo spirito dell’uomo e del mondo è quello che fa Dylan Dog e da cui non si può prescindere in alcun modo e da cui ogni volta che lo si è fatto, ci si è allontanati da tutto questo.
Il quarto e penultimo tipo di racconto in cui si può definire il racconto di Tiziano Sclavi è quello di una strada intima e del tutto personale che ha origine e fine proprio in questi ultimi temi. La narrativa a fumetti dell’autore ha un seme già nel primo numero, prosegue negli episodi già citati del puro stile Sclavi e trova uno sviluppo in “Cagliostro!”, “Memorie dall’invisibile”, “Morgana” e “Dopo mezzanotte”. “Memorie dall’invisibile” è un episodio che ha ottenuto una certa popolarità anche grazie alla pubblicazione della sceneggiatura originale da parte del Centro Fumetto Andrea Pazienza, che ha consentito di comprendere ulteriormente la profondità e anche l’ironia con cui Sclavi costruisce una storia e dialoga con il disegnatore. A parte la struttura perfetta e articolata del racconto, qui è rappresentata al meglio l’idea dietro l’innovazione dell’autore. I mostri classici dell’orrore non sono personaggi fine a se stessi, ma sono icone, rappresentazioni di altri significati. L’uomo invisibile non è uno scienziato che prende una pozione che gli conferisce un potere, ma un individuo rimasto solo, diventato invisibile agli occhi umani nel momento in cui non ha più nessuno al mondo che lo ami. Il titolo è la citazione di Memorie dal sottosuolo di Fëdor Dostoevskij, il racconto di un individuo che vive isolato, immerso nei meandri e nelle ossessioni che animano la propria mente, proprio come il nostro uomo invisibile. Sclavi sa perfettamente cosa sta facendo. Con questa e con quelle che verranno, sta per pubblicare delle storie che andranno a fondo nell’analisi dell’uomo e delle sue paure come mai è stato fatto a fumetti, e cita lo scrittore che in letteratura ha inventato e portato alle estreme conseguenze lo studio dell’animo umano. Sembra un vero e proprio manifesto.
All’inizio del terzo anno di vita nasce Dylan Dog di Sclavi in quelle che considero le sue caratteristiche. Vengono pubblicati episodi come “Accadde domani”, “Golconda”, fino ad arrivare a “Storia di Nessuno”, quello che io considero l’episodio più alto mai raggiunto dal fumetto popolare, la migliore e più importante sceneggiatura mai realizzata in Italia. Il signor Nessuno muore e rinasce, ma il ritorno alla vita può essere più traumatico della morte stessa. Sclavi porta il lettore all’interno della testa di uno zombi, quali erano i suoi ricordi, cosa gli succede a confrontarsi con il presente senza essersi reso conto di essere morto. Il viaggio viene raccontato seguendo gli impulsi razionali della mente, che forse sta rapidamente degenerando, di un cadavere riportato in vita. È il tentativo riuscito di trasporre la tecnica del flusso di coscienza in vignette. Sclavi stesso in seguito dichiarerà di aver provato a sperimentare con Ulisse di James Joyce.
Sempre in occasione dei dieci anni della serie, sul numero 12 del mensile Tutto del dicembre 1996, in risposta a una lettrice che gli chiede il peggior pregio e il miglior difetto di Dylan Dog, Sclavi replica che la risposta è una sola e comprende tutto: «il dubbio». Le architetture che aveva inventato per le proprie storie qualche anno prima di quell’articolo costringevano il lettore a un impegno attivo, a nuovi sforzi interpretativi e soprattutto a lasciare ogni certezza alla prima pagina della storia. Ogni episodio ricostruiva il cammino dell’essere umano in una realtà senza punti fermi, una vita in bilico tra sogno e veglia, quindi un costante senso di angoscia di cui era vittima inerme il protagonista stesso della serie insieme al lettore. Torno per un’ultima volta a citare il saggio di Masiero nel suo capitolo più interessante, quello che analizza “il gioco delle finzioni” che Sclavi ha costruito per rendere coerente la voluta incoerenza del suo racconto: «Si mescolano, infatti, realtà e finzione, finzione nella realtà, finzione nella finzione (dove la stessa “realtà” è, naturalmente, finzione, in quanto presentata all’interno di un sistema “finto”, qual è quello della narrazione). La totale mancanza di regole, o meglio il loro essere la loro stessa negazione, giustifica l’assenza di ogni parametro spazio-temporale inteso in senso classico e di ogni rapporto causa-effetto sostituito da una onnipresente casualità». E ancora: «Possiamo quindi giustamente definire quella di Sclavi una narrazione “onirica” per due ragioni: prima di tutto in quanto regolata (o meglio, sregolata) dalla casualità, e poi in quanto non è mai possibile determinare quanto le vicende dei personaggi siano “sognate” e quindi in che misura, con il “risveglio” degli stessi, gli eventi narrati si “annullino”, riportando la situazione agli elementi iniziali».
Il quinto e ultimo tipo di racconto è quello di un Tiziano Sclavi della maturità. Ha preso diverse pause dalla scrittura e queste lo hanno portato a un sano distacco dalla propria creatura, ora sembra poterne scrivere senza lacerarsi, con il solito coinvolgimento, ma con una rinnovata dose di ironia, figlia di chi le questioni del mondo le conosce, ma tenendole a portata di sicurezza, sa riderne. È in questo periodo che scrive alcune delle più belle storie di sempre, in particolare “Tre per zero” e la seconda e terza parte di quella che viene chiamata “La trilogia extraterrestre”: “Quando cadono le stelle” e “Lassù qualcuno ci chiama”. Su Il Mucchio Selvaggio dell’estate del 2005, a un anno dal ventennale, Luca Castelli e John Vignola chiedono a Sclavi se il torpore della società contemporanea non abbia reso grigie le storie di Dylan Dog, prive ora di quell’allegria scanzonata tipica di un certo splatter e lui risponde: «Personalmente, negli ultimi tempi in cui scrivevo, tendevo sempre di più verso la commedia, una specie di improbabile fusione tra Neil Simon e l’horror. Ma Dylan, fin dall’inizio, è sempre stato anche un “contenitore” di autori, disegnatori e scrittori. Ognuno ha portato il suo stile nella serie, com’è giusto che sia. Forse è vero che c’è meno allegria scanzonata, ma non ho mai letto una storia “grigia”». Quando Sclavi risponde a questa intervista, non scrive Dylan Dog da diversi anni e le sue parole sulla commedia si riferiscono direttamente a quelle ultime storie.
Queste riflessioni che ho maturato negli anni, riguardando al lavoro di Sclavi con il giusto distacco del tempo, sono per me la costituzione di Dylan Dog. A tutto questo mi sono riferito quando ho scritto la storia breve “Il pianeta dei morti”, in cui raccontavo l’ultima avventura di Dylan Dog, di quel modo di intendere il personaggio che era di Tiziano Sclavi e che ora non era più, senza però aver avuto ancora degna sepoltura. Intorno a quella storia ne ho costruite altre che forse rischiavano di mettere in discussione la natura unica su cui si fondava la prima, invece ho pensato che un’ambientazione di qualche anno nel futuro potesse provare a tenere vivo uno spirito passato, senza condizionare la serie regolare. Inoltre avrebbe consentito di fare qualcosa di impossibile altrimenti, sempre nel solco dell’incontrollabile e dell’indefinibile delle storie citate finora; ovvero tutto questo avrebbe permesso di scardinare l’ultima delle certezze, quella del protagonista dei fumetti che continua a vivere in un eterno presente, trappola a cui neanche Dylan Dog naturalmente aveva potuto sottrarsi. Così anche sugli anni che passano è costruita una nuova angoscia, quella che “Il pianeta dei morti” cerca di raccontare. In quella serenità del tempo che non scorre si consolano i lettori di fumetti, ma sulla minaccia di quella stessa serenità “Il pianeta dei morti” ha edificato un non consolatorio futuro.
Sento con convinzione che per portare avanti Dylan Dog è necessario non imitare semplicisticamente il racconto di Sclavi, ma in modo più articolato abbracciare il suo pensiero, quello che fa versare il proprio sangue sulle proprie storie, con un solo limite che lui ha superato e che è all’origine del suo nobile sacrificio, ma anche il confine sul limite di una scelta che parte dall’immedesimazione nel personaggio che nessun altro potrà pretendere di ottenere. A Laura Scarpa, sul numero 45 di Scuola di Fumetto, in occasione dei vent’anni di Dylan Dog, Sclavi dice: «Ovviamente gli ho dato molto di me: i vestiti, per esempio (allora vestivo esattamente così). La paura dei pipistrelli. La claustrofobia. Il rifiuto dell’aereo. L’ironia. L’anarchia. Il mio ideale di “come vorrei essere fisicamente”. Ma dove le è andate a trovare tutte quelle fidanzate? Le mie si contano sulle dite di un monco. E il coraggio di affrontare i mostri, tipo uno zombi o un vigile? Io sono un vigliacco militante! Forse è vero il vecchio luogo comune che un personaggio finisce per vivere di vita propria, magari andando anche contro le intenzioni dell’autore».
Che Dylan Dog sia Tiziano Sclavi è un’affermazione tanto banale che non meriterebbe la conclusione di questo discorso. Sostenere che Dylan Dog sia i tanti Tiziano Sclavi è un pensiero poco più interessante. Il punto ancora più centrale è il percorso dentro cui Dylan Dog porta il proprio autore e viceversa, quel limite fra realtà e sogno che l’indagatore dell’incubo si può permettere di oltrepassare senza conseguenze, ma a chi lo scrive e a chi lo legge non è data questa possibilità. Per parafrasare Masiero, anche il sogno di Dylan è finzione, in quanto all’interno di un sistema “finto” qual è quello della narrazione, per questo si salva sempre. Il Novecento ci ha investiti con una domanda di cui Dylan Dog si è fatto interprete dando profondo significato alla propria esistenza di fumetto: dobbiamo scegliere tra noi stessi e i lati più profondi del nostro animo umano? Ha senso accantonare Ego in favore di Es? Per arrivare a una nuova forma di verità, per sciogliere i nodi non risolti di tutto quello che siamo e non conosciamo, dobbiamo scatenare senza freni ciò che è nei nostri meandri più torbidi, nel mondo incontrollato del sogno? Dylan Dog ha superato più volte questa trincea lasciandosi alle spalle la razionalità, e il suo autore l’ha fatto con lui. Per tutti gli altri, questo fumetto è un credibile resoconto su quel confine e su coloro che si domandano cos’è e se oltrepassarlo.
*Alessandro Bilotta è sceneggiatore di Dylan Dog. Questo articolo è tratto dall’introduzione a un volume dei Dylandogofili, l’associazione di collezionisti di Dylan Dog e riadattato per l’occasione. Il volume contiene tutte le illustrazioni realizzate dai disegnatori in occasione degli incontri alle fiere presso lo stand dei Dylandogofili, sarà prodotto in tiratura limitata per i soli iscritti all’associazione e verrà presentato al prossimo Cartoomics di Milano dall’11 al 13 marzo.