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Il super-problema di raccontare Superman, oggi

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Ne Il buio oltre la siepe Atticus Finch ammonisce la figlia sul peccato di uccidere i passeri, indifesi e incapaci di fare del male. Nella finzione fumettistica, Il buio oltre la siepe è il libro – e film – preferito da Superman (si veda Superman vol.2 #67). E almeno per quanto riguarda il presente, non è difficile riconoscere delle somiglianze tra il personaggio e la metafora offerta a suo tempo da Harper Lee: Superman, nell’Olimpo dei supereroi più famosi, è oggi il più indifeso. Peggio, è diventato un problema. Perché si è trasformato in un simbolo, e nessuno sa bene come si scrivano storie che hanno per protagonista un simbolo, più che un personaggio. Nel 2004 lo scrittore Lev Grossman si poneva una domanda attualissima: «Come migliori un personaggio che ha super-tutto?». Dodici anni dopo, Superman è ancora il simbolo dell’industria fumettistica. Forse più fuori che dentro di essa. La sua importanza è insomma indiscussa, ma nel frattempo i lettori sono andati avanti: cresciuti, cambiati, arrivati e partiti.

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Disegno di Alex Ross
© DC Comics

Il fatto: nel contesto dei recenti problemi di vendite della DC Comics, il parco testate di Superman non se la sta passando bene. Sia Superman che Action Comics – le due testate storiche dedicate all’eroe di Siegel e Shuster – vengono superate nelle vendite da novellini come Silk; le serie di Batman vendono in media tre volte tanto. Vero è che, grandi eventi a parte (i reboot, il matrimonio con Lois Lane, la “morte e resurrezione”), le testate di Superman non sono state dei blockbuster nemmeno negli ultimi decenni. Come è possibile, per quello che Umberto Eco descrisse come un mito moderno? Tentativo di risposta: perché scrivere Superman è difficile.

Superman “si è rotto”

Per certi versi, tocca dire che l’eroe creato da Jerry Siegel e Joe Shuster è imbrigliato nel tradizionalismo DC degli anni Trenta. Sembra che abbia vissuto troppo a lungo per essere rilevante oggi. Come un organo vestigiale, c’è, ma nessuno sa bene che farsene. Un boy scout azzurrone senza una vena di dubbio che, con l’arrivo di personaggi più tormentati e moralmente grigi, è stato costretto a periodiche sedute di aggiornamento (Man of Steel, Diritto di nascita, Secret Origin, Terra Uno) e le cui origini sono state raccontate in mille modi diversi (a Grant Morrison, in All Star Superman, sono bastate otto parole), evenienza meno necessaria in casa Marvel. Come scrive Daniele Barbieri ne I linguaggi del fumetto: «I fumetti Marvel nascono già pronti a un’America multiculturale e multirazziale, in cui isolamento ed emarginazione sono problemi sentiti fin dall’infanzia, e si riveleranno nei decenni successivi molto più adeguati di quelli della DC ad affrontare il cambiamento sociale».

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Le origini di Superman raccontate in otto parole da Grant Morrison su ‘All Star Superman’.
Disegni di Frank Quitely
© DC Comics

In questi giorni, su The Atlantic, il giornalista Asher Elbein ha pubblicato un articolo in cui alla domanda “Come si aggiusta Superman?” premette una giusta osservazione: «non puoi aggiustare qualcosa se non sai dov’è rotto». Perché Superman ha molte incognite. Tanto per cominciare, il Nostro soffre del complesso di Diomede. Diomede è un personaggio mitologico simile ad Achille, solo senza crisi esistenziali. È giovane, capace di ferire gli dei e non teme nessuno. Ma è senza complicazioni, senza il tallone debole. Il suo archetipo è lo stesso di Legolas o Leonardo (la tartaruga ninja). Figure di supporto, mai protagonisti – come invece è il fumettistico Kal-El – perché privi di zone d’ombre o complessi di alcun tipo che ne rendono stimolanti le storie. Il loro eroismo, mai conflittuale, annoia. Quando gli autori di Superman fanno i conti con il complesso di Diomede, la prima cosa che viene loro in mente è privarlo della sua invulnerabilità, trovando alternative all’uso della kryptonite. Sull’ultima serie di storie si sta giocando proprio su questo aspetto, perché si pensa che l’eroismo incarnato dalle persone vulnerabili che trovano il coraggio di compiere le azioni definite eroiche sia più interessante. E lo è, ma non vale per Superman. Il suo potere più grande infatti è l’incorruttibile fibra morale di cui è fatto il suo spirito. Una superumilità che lo previene dal cedere all’ego e dal vedere sempre del buono in una razza, quella umana, che continua a commettere errori.

L’insostenibile pesantezza della superumiltà

Max Landis, sceneggiatore di American Alien, una miniserie sugli anni giovanili di Superman ben ragionata (perché debitrice di All Star Superman e delle idee del suo autore Grant Morrison), ha commentato dicendo: «Se sei Superman e vivi sulla Terra puoi fare due cose. Proteggerla o dominarla. E lui ha scelto di proteggerla». La forza d’animo di Superman è tale proprio perché gli impedisce di abusare dei suoi poteri. Una volta che gli sceneggiatori lo privano delle sue capacità, la forza d’animo perde di valore. Quando è indebolito dalla kryptonite o dall’assenza dei raggi solari, la grandezza morale di Superman svanisce. L’espediente narrativo che dovrebbe rendere interessante la storia, perché rende imperfetto l’eroe, in realtà la indebolisce. Le storie più riuscite del personaggio, invece che privarlo dei poteri, lo hanno costretto a metterli in discussione. Stagioni di Jeph Loeb e Tim Sale o Identità segreta di Kurt Busiek e Stuart Immonen fanno proprio questo, andando a guardare cosa voglia dire avere le superabilità di un dio. Il problema è che tutte queste soluzioni, come quelle cinematografiche, trovano compiutezza in una produzione limitata nel tempo e non in una serializzazione. Lo pensa anche il Comics Journal: «Superman è molto, molto vecchio. L’unica maniera per farlo funzionare è ringiovanirlo di dieci o vent’anni. O, ancora meglio, fermarsi. Forse non abbiamo più bisogno di storie con Superman».

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Clark Kent e Superman, dalla striscia giornaliera di Superman, del 12 novembre 1939.
Disegni di Joe Shuster e parole di Jerry Siegel
© DC Comics

Due o tre (problemi di) identità

Che ci sia una scollatura tra lettore e personaggio lo aveva già individuato Umberto Eco in Apocalittici e integrati, quando metteva a fuoco un cortocircuito nel processo identificativo del lettore, che si sente Clark Kent e aspira a essere Superman, mentre questi desidera trovare la normalità nella vita morigerata di Clark Kent. Il che potrebbe già bastare per spiegare alcuni motivi per cui la serie parla poco ai lettori odierni: chi mai si sente Clark Kent, oggi? O peggio: quanto è credibile assistere a un super-uomo la cui massima ambizione è “una vita da Clark Kent”?

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Ulysses chiede a Superman chi sogna di essere (da ‘Superman’ # 34). © DC Comics

Il rapporto tra quelle due identità non può che essere più complicato di così, ed è difficile immaginare che possa essere gestito con la stessa disinvoltura con cui gli autori scrivono altri eroi. È Superman che si maschera da Clark Kent o il contrario? Ogni reboot ha portato in primo piano ora l’uno ora l’altro. Nella storia Che cosa è successo all’Uomo del Domani?, scritta ad Alan Moore, Clark è una maschera; in Man of Steel John Byrne lo immaginò come la vera identità di Kal-El; per Jules Feiffer la lettura corretta – quella che viene citata da Tarantino in Kill Bill – è che, mentre Spider-Man e Batman ‘nascono’ come Peter Parker e Bruce Wayne, Superman sia ‘nato’ Superman e Kent sia solo un costume, indossato per confondersi nella folla terrestre. Alla fine degli anni Novanta, un gruppo di autori guidato da Grant Morrison ribaltò quel concetto nel progetto (abbandonato) Superman Now dicendo che Superman è Clark Kent, ma solo fino all’adolescenza, fino a quando crede di essere un nativo del Kansas. Il concetto di triplice identità è stato poi rilanciato anche in Venga il tuo regno, l’apocalittica storia di Mark Waid e Alex Ross che puntualizza come Kal-El usi sia Clark sia Superman come motori equipollenti del proprio agire.

L’eroe dei super-super problemi

Nemmeno sulla parte ‘super’ del personaggio c’è un accordo. Le storie migliori mostrano tutte rappresentazioni diverse. All Star Superman omaggia la sua versione Silver Age e lo dipinge come un dio empatico. In Diritto di nascita è un giornalista che combatte la corruzione e le oppressioni. Il Clark Kent di Secret Identity è un Superman scritto come se fosse l’Uomo Ragno. In un ciclo dimenticato di Joe Casey e Derec Aucoin, il Nostro è perfino un pacifista, e non sferra un pugno che sia uno (idea echeggiata nel New 52: in una storia Clark dice di non essere in grado di uccidere nemmeno nei videogiochi). Le trasposizioni cinematografiche hanno incontrato gli stessi problemi. Dopo i due Superman di Richard Donner, nessuno ha più centrato il bersaglio: la serie tv Smallville è durata così tanto perché raccontava Superman prima di Superman. Superman Returns è un polpettone appena un po’ più movimentato di una puntata di Love Boat (checché ne dica Quentin Tarantino, che ci ha scritto un saggio di venti pagine). L’ultima iterazione, L’uomo d’acciaio, l’ha fatto sofferente, prendendo a modello il Batman di Christopher Nolan e mettendo in scena i conflitti interiori dell’Azzurrone con un filtro scurissimo. Scavallando molti tratti tipici dell’eroe, i realizzatori ne hanno restituito un’immagine diversa (“Superman uccide!”), ai limiti però del ridicolo, che non ha convinto quasi nessuno ma ha comunque permesso l’espansione dell’universo DC.

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Un fotogramma da ‘Superman II’, diretto da Richard Donner.
© Warner Bros.

Quest’anno tocca al team-up Batman v Superman: Dawn of Justice e dalle informazioni emerse la rilettura di Superman a opera di Zack Snyder e soci sembra sia virata verso una cupezza ulteriore. Dove il Superman di Donner era solare e scanzonato – e resta ancora la migliore incarnazione del personaggio su pellicola – quello di Snyder si presenterà uggioso e crepuscolare. Secondo Mark Waid, autore di molte storie del personaggio, il problema è che questa versione di Superman è «senza un momento di gioia. A eccezione del primo volo che compie, il resto delle scene con Superman è senza gioia. E io non posso provare interesse nella continua assenza di gioia da parte di un tizio che può volare». Un Superman che ad alcuni ha ricordato la prima incarnazione del personaggio, quella dei primissimi anni Trenta, in cui era occupato a risolvere crimini di bassa lega seguendo un codice morale alquanto disinvolto.

C’era una volta Superman, il duro. E poi morì.

In quegli anni iniziali, la mentalità di Superman era certamente (già) politicamente corretta, ma in una forma molto distante dalla versione cui siamo abituati ai nostri giorni. Rileggere quelle storie potrebbe suonare persino sorprendente. Forse più di quanto possa spiazzare rivedere il Topolino di Flloyd Gottfredson impugnare un revolver per difendersi, o tentare il suicidio per amore. Non era raro vederlo, per esempio, usare metodi da legge del taglione, come quando minacciò certi criminali di lasciarli appesi sotto un aereo che stava per atterrare. «Era un Superman duro, quasi crudele» ha scritto Gerard Jones in Men of Tomorrow: Geeks, Gangsters and the Birth of the Comic Book. «Non c’era splendore nelle sue azioni. Tutte le storie avevano l’odore metallico della Grande Depressione». La durezza del personaggio fu poi ribadita nello show radiofonico The Adventures of Superman. Lo sceneggiato debuttò nel 1940 e segnò l’esordio di uno dei poteri dell’eroe, il volo – che per alcuni è stata la sua rovina, perché contribuì ad aumentarne l’alone di invincibilità. Seguirono periodi di estrema volatilità editoriale e poi lo zenit – e al tempo stesso il nadir – creativo: La morte di Superman. Un caso editoriale che generò un’impennata impressionante nelle vendite, ma con una conseguenza profonda: rompere il “gioco” della morte nella grande prateria della serialità fumettistica. Quale valore dare, altrimenti, a un evento in apparenza indelebile sbrogliato con la resurrezione dopo appena un anno? Alla fine di quella saga, non c’era più un Superman, ce n’erano quattro. Gli cambiarono il costume, poi lo sdoppiarono, poi gli cambiarono il costume di nuovo. E tutto ricominciò uguale a prima. O forse così ha creduto, illudendosi, qualcuno.

Oggi, sembra che sia rimasto solo un aspetto che DC Comics non oserebbe toccare del suo carattere, ovvero la funzione motivazionale: Superman come simbolo di speranza in un panorama sociale di ineguaglianze, scontri di civiltà o tra cittadini e istituzioni. Immigrato, simulacro allo stesso tempo cristiano ed ebraico, è il perfetto riflesso della Storia americana e del tentativo di riscatto dei suoi creatori. Il kryptoniano ha incarnato l’idealismo rooseveltiano, la lotta alla criminalità organizzata anni Trenta, l’epoca del dominio da Al Capone, l’aiuto nella vendita dei bond di guerra durante il Secondo conflitto mondiale, fino alle lotte personali della Guerra fredda e alla resurrezione come baluardo made in USA nel post-11 settembre. Nel clima di incertezza e paura del nuovo secolo ha perfino deciso di camminare tra le genti, un momento di grande dubbio per tutti (editore, lettori, Kal-El stesso) che ci ha insegnato una cosa: Superman non può vivere né troppo distante né troppo vicino a noi. È nella tensione tra simbolo e personaggio che sta lo stretto spazio di racconto, perché il rischio del retorico è sempre in agguato.

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