Providence rappresenta la terza e più felice fase dell’esplorazione da parte dello sceneggiatore inglese Alan Moore dell’incoerente universo mitologico creato, nel primo quarto del diciannovesimo secolo, dallo scrittore statunitense Howard Philips Lovecraft. Ognuna di queste tre fasi si inserisce in un preciso percorso la cui intima coerenza è però avvertibile solo a posteriori.
Moore iniziò ad avventurarsi all’interno dell’universo lovecraftiano verso la metà degli anni Novanta, quando compose il racconto The Courtyard (Il cortile), poi incluso nell’antologia Saggezza stellare, raccolta di racconti ispirati all’opera del narratore di Providence e curata dallo scrittore D.M. Mitchell. Fra gli altri autori coinvolti nell’operazione ci furono il collega Grant Morrison e importanti nomi della letteratura fantascientifica e orrorifica come Ramsey Campbell e James Ballard. Saggezza stellare compì in qualche modo una cesura con le precedenti opere dedicate a Lovecraft e, in particolare, ai cosiddetti “Miti di Chtulhu”. Nel contesto di un ‘culto laico’, che nel corso degli anni ha coinvolto sempre più adepti e prodotto per lo più centinaia di stanche imitazioni dei racconti del ciclo originale dedicato alle semidivinità dei Grandi Antichi (con alcune lodevoli eccezioni, in parte recuperabili QUI), era finalmente giunto il momento di un ripensamento dell’influenza dello scrittore americano condotto attraverso l’opera di altri autori che non si caratterizzassero semplicemente come suoi dichiarati epigoni. I risultati, bisogna dirlo, sono stati piuttosto discontinui.
In The Courtyard, Moore confezionò un racconto in parte stilisticamente pretenzioso, ma il suo tentativo di attualizzare l’opera di Lovecraft era affascinante e riuscito allo stesso tempo. Qui iniziò a scavare sotto la superficie della retorica lovecraftiana, soprattutto per come questa era stata tramandata e diffusa dai suoi ammiratori, mettendone in risalto certo le problematicità – a volte con un gusto eccessivamente dissacrante – ma al tempo stesso riducendone all’osso l’intreccio di archetipi e suggestioni, esaltandone quindi gli elementi più originali.
L’adattamento a fumetti de Il cortile, ad opera di Antony Johnston (testi) e Jacen Burrows (disegni), restituì bene l’atmosfera paranoica e morbosa del racconto di Moore, anche se il tratto di un ancora immaturo Burrows e un eccessivo rispetto verso la versione in prosa rendevano il piacere della fruizione discontinuo. In entrambe le versioni era comunque chiara l’intenzione di rendere evidente e raccontabile quello che nei racconti di Lovecraft era reso esclusivamente attraverso eufemismi e suggestioni. Ci si riferisce in particolare alla presenza di azioni violente e di rapporti sessuali.
In questa direzione si mosse lo stesso Moore quando, prendendo spunto dall’esperienza editoriale de Il cortile, realizzò, qualche anno dopo, la miniserie Neonomicon, il primo vero assalto alla fortezza lovecraftiana da parte dell’autore inglese. Per chi fosse interessato e anche dotato di una certa pazienza, abbiamo discusso ampiamente di Neonomicon QUI.
Così lo stesso Moore riassunse, in un intervista rilasciata nel 2010 al sito Weaponizer (QUI tradotta in italiano da smoky man), le proprie linee programmatiche:
«Con Lovecraft l’horror è fisico, per questo volevo inserire di nuovo quella componente. E inoltre laddove Lovecraft era delicato di stomaco, dove accennava solo a ‘certi rituali innominabili’, oppure usava eufemismi come ‘riti blasfemi’… era piuttosto evidente, considerando che molte delle sue storie raccontano di una progenie inumana di questi ‘riti blasfemi’, che probabilmente il sesso doveva aver avuto un qualche ruolo. Ma nelle storie di Lovecraft non compare mai, ma è sempre sottotraccia. Così ho pensato, mettiamoci dentro tutta quella sgradevole roba razziale, mettiamoci il sesso. Tiriamo fuori un qualche autentico ‘rituale innominabile’, diamogli un nome. Queste erano le direttive da cui sono partito e ho deciso di seguirle ovunque mi avrebbero portato. È uno dei fumetti più sgradevoli che abbia mai scritto. […] È una delle storie più oscure, più misantropiche che abbia mai fatto.»
Ma Neonomicon non era solo questo. Era anche, e soprattutto, un originale e realistico – almeno inizialmente – poliziesco dalle tinte horror che si offriva, al contempo, come riflessione sull’uomo Lovecraft, sulla sua opera e sulle zone grigie di entrambi. Per un approfondimento su questo fumetto rimandiamo al già citato articolo pubblicato su Conversazioni sul Fumetto. Resta da dire che uno degli aspetti più originali e più divertenti, all’interno di un’opera che di divertente ha ben poco, risiede proprio nel come Moore sia riuscito a integrare i nerd lovecraftiani, in maniera funzionale e mai pretestuosa, all’interno dell’universo di cui Neonomicon rappresenta una sorta di introduzione e che viene poi più compiutamente sviluppato da Providence.
L’utilizzo dei fan dell’opera dello scrittore americano, trasformati negli appartenenti di una non sappiamo bene ancora quanto antica setta, rappresenta uno dei punti di passaggio della riscoperta di questo corpus letterario da parte di Moore. Se, infatti, in Il cortile i riferimenti al mondo di Lovecraft apparivano solo come un pretesto per confrontarsi con una mitologia verso cui lo sceneggiatore di Northampton non sembrava nutrire un reale interesse, in Neonomicon la conoscenza dei racconti di Lovecraft sembrava essersi fatta più approfondita. Siamo ancora però in una fase – la seconda – che potremmo definire ‘dissacratoria’. L’approccio di Moore era qui ancora piuttosto freddo e meccanico, anche se il lavoro di tessitura risultava ammirevole. Lo scopo sembrava infatti essere quello di smontare il castello lovecraftiano per additarne gli aspetti più ignobili o presupposti tali: il razzismo, la misoginia, il ribrezzo per il sesso.
La riflessione condotta si incentrava non tanto sull’opera di Lovecraft, ma sul Lovecraft uomo. Ma analizzando la biografia dello scrittore e in particolare le numerose testimonianze della moglie Sonia Green, molti di questi pregiudizi si rivelavano infondati e minavano la ricostruzione artistica imbastita da Moore. In questa frase, insomma, il dialogo fra l’inglese e l’americano non si era ancora fatto intimo. Probabilmente per questi motivi Neonomicon era un’opera riuscita a metà: non un compiuto omaggio o un’interiorizzazione della retorica di Lovecraft, ma neanche un’opera del tutto nelle corde di Moore, che incaponitosi nel tentativo di smontare il giocattolo finiva per subirne l’influenza più di quanto probabilmente avrebbe voluto.
La terza fase di questa esplorazione, quella rappresentata da Providence, non è solo la più riuscita ma ci restituisce anche uno dei migliori fumetti realizzati da Moore negli ultimi anni. Non si tratta certo di un’epifania. I motivi sono rintracciabili all’interno di uno specifico percorso. I due punti cardine di questo viaggio artistico sono la violenza e il sesso. Il sesso come atto carnale consensuale è stato di rado frequentato da Moore, specialmente se declinato in pratica amorosa e gioiosa. Moore ha preferito per lo più utilizzarlo come momento metaforico all’interno dei suoi racconti – metafora del potere, soprattutto, attraverso l’abuso, per esempio – oppure trasfigurandolo in momento di unione mistica capace di aprire le porte della percezione. In altre parole il sesso nell’opera di Moore è sempre stato piuttosto ‘disincarnato’ o per lo meno desentimentalizzato. Probabilmente la lunga avventura di Lost Girls, che pure soffre delle “tare” qui appena messe in evidenza e, in una certa misura, dell’estetizzazione di quest’atto, ha cambiato il suo approccio nei confronti del racconto della sessualità (per una riflessione su Lost Girls e la pornografia si veda QUI).
In Neonomicon il sesso per Moore rimane un atto principalmente brutale, anche quando consumato fra adulti consenzienti, e che l’autore tratta in pratica con la stessa pruderie che attribuisce a Lovecraft. Nel suo tentativo di attualizzare l’opera dello scrittore, Moore si svela molto più vicino a questi di quanto sarebbe stato possibile pensare. La differenza sostanziale risiede più nei molti decenni che li separano piuttosto che nell’approccio all’argomento. Quello che Lovecraft taceva o accennava, Moore lo mostra e lo concretizza – a volte con un eccesso di compiacimento – ma lo scarto risiede principalmente nel cambiamento del contesto storico e culturale. Il non detto di Lovecraft e il mostrato di Moore sembrano, in fin dei conti, essere della stessa natura.
Con la serie Crossed +100, ottimo spin-off della dimenticabile saga creata da Garth Ennis e Jacen Burrows (un approfondimento QUI), non solo Moore supera una certa propria naturale ritrosia della rappresentazione di atti particolarmente efferati, ma scopre o riscopre il piacere di raccontare il sesso come momento intimo, giocoso, vissuto e mostrato senza particolari sottotesti – per quanto questo sia possibile –, un atto infine normalizzato. I personaggi di Crossed, nella loro incredibile eppure così scontata varietà, sono fra i più umani che lo sceneggiatore abbia mai raccontato. Per quanto potesse sembrare difficile viste anche alcune dichiarazioni dello stesso Moore (che confessò di aver scritto Neonomicon per via di un grosso debito), nella nuova casa Avatar Press l’autore sembra infine aver ritrovato un nuovo e felice modo di procedere.
Providence prosegue lungo questo percorso e, almeno per ora, ne rappresenta il momento più felice. Il racconto si apre a New York, nel 1919, anno in cui Lovecraft era ancora lontano dallo scrivere i racconti e i romanzi che lo avrebbero reso universalmente famoso, soprattutto nel corso dei decenni successivi alla sua morte. Il protagonista è Robert Black – quasi omonimo del lovecraftiano Robert Harrison Blake – insoddisfatto giornalista del New York Herald. Veniamo ben presto a conoscenza dell’omosessualità di Black. Ancora un personaggio, dunque, con una sessualità deviata o per lo meno considerata tale. Il cambio di prospettiva è evidente.
Se in Neonomicon la protagonista Merril Brears era affetta da ninfomania – al di là delle battute da caserma una vera e propria patologia – la condotta anomala e indecente di Blake è tale solo se giudicata dall’esterno, specie se con gli occhi particolarmente severi della società dell’epoca. Una patologia clinica in un caso, la difficile accettazione di sé e la difficoltà o impossibilità a rivelarsi per quello che si è dall’altro.
La normalizzazione dell’omosessualità è un tema trasversale nell’opera e nella vita di Moore, che si è speso spesso e in prima persona per questa causa (si veda, per esempio, QUI). In Crossed +100, solo per fare un esempio, sullo sfondo di una società post-apocalittica in cui i tradizionali valori sono crollati sotto la pressione della barbarie, tutti gli orientamenti sessuali e sentimentali sono permessi e mai giudicati. Ad ogni modo il personaggio di Black riassume quello che sarà il leitmotiv dell’opera: cose nascoste sotto la superficie delle cose. Black non solo è un omosessuale non dichiarato, ma anche un ebreo che nega di esserlo e un giornalista che non ha il coraggio di provarsi scrittore. Sotto ogni vestito c’è un’apparenza e sotto ogni apparenza c’è un inganno. Questo vale per quasi ogni personaggio, edificio, comunità e città che Black incontrerà nel proprio viaggio e, per estensione, per l’intero paese.
C’è pertanto un paese nascosto, celato sotto la società che mostriamo al mondo. La verità spiacevole, quella si annida al di sotto delle nostre simulazioni. [Providence, cap. 1]
Il parallelismo con Lovecraft – al di là dei molti espliciti e meno espliciti riferimenti all’opera dello scrittore rintracciabili nel volume per cui rimandiamo all’ottima postfazione di Antonio Solinas, che per una volta analizza equilibratamente l’opera di Moore senza eccessi sensazionalistici – è palese: dietro il velo di civiltà si agitano mostri millenari e orribili pronti a far crollare le nostre fragili certezze di solidità e moralità. I mostri che agitano l’America e il mondo di Moore sono sia quelli immaginati da Lovecraft sia altri, più concreti e molto meno rassicuranti: l’omofobia, il razzismo, la perversione della sessualità, l’antisemitismo che da lì a pochi anni avrebbe raggiunto il proprio apice con l’affermarsi del Nazismo in Europa, la prevaricazione dei forti sui deboli.
Il lavoro di scrittura di Moore è quasi da equilibrista. I rischi erano molteplici e altissimi nel caso di un’operazione di questo genere. Moore avrebbe potuto comporre un pamphlet sull’intolleranza, in cui l’influenza di Lovecraft sarebbe potuta apparire poco più che pretestuosa o, d’altro canto, snaturare del tutto a uso e consumo della propria ‘missione’ l’opera dello scrittore statunitense. Invece i due lati della medaglia giocano nella stessa squadra, finalmente grazie ad un approccio che interiorizza Lovecraft invece di provare a disinnescarlo.
Il viaggio di Black alla ricerca di un libro, Sous le Monde, capace di fare impazzire chi lo legge, segue un percorso molteplice. Innanzitutto all’interno degli Stati Uniti sulla soglia del proibizionismo, della crisi economica e delle rivolte razziali. Un viaggio in cui lo spazio diventa anche tempo. Il tragitto dalla metropoli, allora ancora piuttosto recente simbolo di modernità, verso la campagna è anche quello nei meandri di un territorio non ancora – né ancora oggi – uniformato; appena a pochi chilometri dai bagliori elettrici del Ventesimo secolo, nelle campagne e nei piccoli centri costieri si agitano ancora le ombre di secoli apparentemente sepolti dalla storia e le cui mostruosità non sono scomparse ma si nascondono, attendendo.
È un viaggio, questo, che segue un percorso dall’alto verso il basso – oltre che dal centro verso la periferia – sia metaforicamente che praticamente. Dall’alto dei grattacieli alle pianure dei paesaggi del New England tanto cari a Lovecraft, ma anche verso i meandri nascosti sotto le città, budelli, cantine, passaggi verso dove e verso cosa?
Il lavoro di documentazione fatto da Moore e la ragnatela di riferimenti, rimandi e citazioni che intreccia è impressionante, ma non stupisce troppo chi conosce un minimo il modus operandi di questo autore. Quello che maggiormente impressiona, invece, è che i personaggi che si muovono all’interno di questa complessa e intricata architettura sono tutti umanissimi e credibili, anche quelli più stereotipati e in cui il marchio letterario si avverte maggiormente.
A volte sono sufficienti pochi accenni, poche battute ben calibrate per caratterizzare gli uomini e le donne – o i quasi uomini e le quasi donne – che incontriamo nel corso di questo cammino, ma, per ovvi motivi, è Black quello con cui riusciamo ad empatizzare più profondamente. Non è un’empatia che si conquista senza dolorosi compromessi. Black non è un personaggio cristallino, lo abbiamo detto, non sempre le sue scelte sono gradevoli ma proprio per queste sarebbero potute essere le nostre e proprio per questo riusciamo a sentirlo così vicino.
Il passo narrativo studiato da Moore favorisce certo questa intimità. La struttura della tavola a quattro vignette orizzontali, il cui ritmo viene solo di rado interrotto, era già stata approfondita da Moore proprio in Neonomicon,ma solo in Providence lo sceneggiatore sembra averne interiorizzato le possibilità di racconto. Sull’utilizzo delle griglie regolari e ripetitive nell’opera di Moore, almeno a partire da Watchmen, si è già scritto molto. Questo ulteriore contributo meriterebbe un approfondimento maggiore. Forse ci torneremo in occasione della pubblicazione del proseguo di Providence.
In questa sede ci limiteremo a dire che se questa griglia, in Neonomicon, era sfruttata allo scopo di opporre alla rappresentazione visiva di un orrore brutale e raccapricciante (come nella scena della piscina) un ritmo narrativo piano ed asettico, qui invece risulta funzionale ad un altro tipo di respiro, a costruire un’attesa eternamente rimandata in cui più che l’orrore sono l’attesa dello stesso e la conseguente inquietudine che questa attesa genera a farla da padroni.
Inoltre, la ripetitività della dimensione delle vignette e in molti casi anche dei piani delle inquadrature è perfettamente funzionale a scavare nell’intimità dei personaggi, il luogo dove il vero orrore di Providence si genera. Il ritmo generale della narrazione risulta dunque estremamente rallentato, in alcuni casi perfino documentaristico, senza però risultare artefatto o noioso. Providence procede quasi goccia dopo goccia, come nella famosa tortura cinese.
Ma questo respiro, questa vicinanza epidermica ai personaggi – che in alcuni casi si restituisce con una pregnanza multisensoriale – non sarebbe stata possibile senza l’apporto del disegnatore Jacen Burrows, sempre più bravo e sempre più affine alla prosa di Moore. Pur ancora con qualche rigidità nella resa fisiognomica, o forse proprio grazie a queste, Burrows è capace di sintetizzare un tratto chiarissimo – e perfettamente leggibile, quasi da linea chiara verrebbe da dire – con una strana inquietudine che attraversa la composizione delle vignette e di cui spesso non si è capaci di trovare l’esatta origine. La ripetitività quasi tribale dei piani martella il lettore senza concedergli tregua, anche e soprattutto nelle scene più banali – i molti dialoghi presenti nel libro – costruendo un crescendo infinito tesisissimo la cui risoluzione non si trova, per fortuna non ancora, alla fine di questo volume.
Da leggere, assolutamente.
Providence vol. 1
di Alan Moore e Jacen Burrows
Panini Comics, 2015
160 pagine, 19,00 €
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