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Il primo conflitto mondiale visto dal basso. “La guerra è bella ma è scomoda” di Monelli e Novello

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La guerra è bella ma è scomoda, il bel volume-memoriale dello scrittore Paolo Monelli e del vignettista Giuseppe Novello, meritoriamente ristampato dalla casa editrice il Mulino in occasione del centenario dello scoppio del primo conflitto mondiale, presenta molti punti di interesse, oltre alla godibilità del testo e, soprattutto, dei disegni.

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Il quesito più interessante che solleva è sicuramente quello relativo alle modalità di racconto del conflitto stesso, con cui il fumetto si è spesso confrontato. Se infatti, come già analizzato, un autore come Joe Sacco adotta il felice approccio del racconto di massa, mentre Tardì, in una serie di racconti di stampo antimilitarista ambientati nello stesso periodo, si muove nella direzione della ricostruzione storica di singole tragedie umane, Monelli e Novello costruiscono il loro partendo da tutt’altra prospettiva. I due autori e amici, infatti, hanno il vantaggio, per così dire, di averlo vissuto, quel pezzo di storia, da protagonisti tra i protagonisti. Senza eccessi retorici, e con l’aggiunta di una certa nostalgia della vita al fronte, in parte spiazzante per il lettore moderno, i due commilitoni restituiscono una visione tenera, nostalgica ma al tempo stesso mai indulgente di questo particolare periodo.

Questa possibilità di raccontare un evento del genere dal basso, dal punto di vista dei soldati, rappresentò una delle principali novità che caratterizzarono questo conflitto. La Prima Guerra Mondiale ha rappresentato infatti – con la probabile eccezione della di poco precedente Guerra di Libia del 1911 (si veda QUI e QUI) – il primo conflitto mediatico della storia.

Il concetto di guerra totale, parzialmente anticipato dalle campagne napoleoniche del secolo precedente così come dalla Guerra d’Indipendenza americana, presuppone che il conflitto divenga un problema di tutta la popolazione mondiale, civili inclusi:

La guerra ormai è diventata un problema di ogni membro della popolazione, una lotta per la sopravvivenza nazionale in cui tutte le risorse della nazione – militari, economiche, industriali, umane e psicologiche – dovevano essere mobilitati al fine di garantire la vittoria o evitare la sconfitta. La mancata mobilitazione su massima scala, come l’esperienza della rivoluzione russa del 1917 ha dimostrato, potrebbe comportare non solo la sconfitta ma la distruzione stessa del vecchio ordine.

[Philip M. Taylor, Munitions of the Mind. A History of Propaganda from the Ancient World to the Present Day, Manchester University Press, 2003, p. 173]

Rispetto ai conflitti precedenti, che riguardavano quasi esclusivamente soldati professionisti, la guerra del ’14-’18 è la prima che coinvolge, anche mediaticamente, così grandi numeri. È, questa, la guerra della massa e delle masse, una guerra che rispecchia e al tempo stesso contribuisce a definire il nuovo modello di società organizzato intorno ai grandi agglomerati urbani:

La metropoli, nuova forma egemone dei processi produttivi, esprime come correlato di sé le masse. Esse sono i nuovi soggetti del mondo, su cui si affacciano in modo catastrofico. Saranno le protagoniste, ad esempio, della Grande Guerra, mettendola in scena senza dispendio di sangue, spettacolarizzandone il dato statistico senza precedenti: morti e feriti a “milioni”, dispersi a “centinaia di migliaia”, danni economici per “miliardi”.

[Sergio Brancato, Guida ai comics nel sistema dei media, Datanews Editrice, Roma, 1994, p. 25]

Masse di soldati, dunque, ma anche masse di spettatori e di lettori che, alla preistoria della società dell’informazione, diventano avidi di notizie, resoconti, filmati e immagini, sia in forma di foto che di disegni, su avvenimenti così cruciali per la loro stessa vita e al tempo stesso così distanti. Si tratta, in fondo, come già detto altrove, del primo conflitto “in diretta” della storia, in cui le informazioni provenienti dal fronte arrivano persino a influenzarne gli esiti. Una guerra questa, insomma, che ha bisogno di un consenso.

Questa coincidenza di fattori, insieme al crescente livello di alfabetizzazione, porta naturalmente a un ampliamento dei racconti, dei punti di vista sull’accaduto. Se il conflitto in questione diventa un terreno particolarmente fecondo su cui l’arte della propaganda può svilupparsi, forse per la prima volta una tale quantità di memoriali provenienti “dal basso”, dalle trincee, dal fronte così come dalle retrovie, viene prodotto e reso disponibile al pubblico se non durante il conflitto negli anni e nei decenni immediatamente successivi. Una materiale restato fino a pochi anni fa poco sfruttato, così come, del resto, la Prima Guerra Mondiale, per diversi motivi tra cui il maggiore impatto mediatico della seconda, è rimasta una guerra poco rappresentata dai media.

Almeno inizialmente la richiesta di notizie e, soprattutto, immagini, dal fronte era destinata a rimanere insoddisfatta. Come ricorda Antonio Carioti citando Luigi Tomassini: «All’inizio la fotografia fu bandita. Subito dopo l’ingresso dell’Italia nella Prima guerra mondiale, le autorità vietarono non solo di scattare istantanee nella zona delle operazioni militari e nei territori adiacenti, ma addirittura di trasportare in quei luoghi apparecchi fotografici che non fossero stati debitamente sigillati. Ma era troppo pressante la domanda d’immagini sugli eventi del conflitto: una disposizione del genere non poteva reggere». E infatti non resse. I canali su cui l’informazione poteva viaggiare si moltiplicarono ben presto. Si pensi solo ai cosidetti “giornali di trincea”. Prima del 1917 il governo italiano non avvertì la necessità di organizzare azioni di propaganda per motivare le proprie truppe. Nacquero così questo genere di pubblicazioni, consistenti in pochi fogli raramente stampati – per lo più redatti a mano – che venivano scritte e non di rado disegnate dai soldati stessi, ad uso e consumo dei commilitoni dello stesso battaglione. Successivamente alla disfatta di Caporetto, invece, si moltiplicarono le pubblicazioni ufficiali, create appositamente per tenere alto il morale delle truppe. Venne addirittura creato un organo apposito, il “Servizio P”, sotto il controllo del Comando Supremo.

Naturalmente anche dopo la fine della guerra i resoconti dei combattenti, anche in forma romanzata, ebbero larga diffusione. Non di rado si trattava di opere dallo spirito spiccatamente antimilitarsita. Si pensi, solo per fare un esempio, a Un anno sull’altipiano, di Emilio Lussu, Niente di nuovo sul fronte occidentale di Erich Maria Remarque e Il buon soldato Sc’vèik di Jaroslav Hašek, con splendide illustrazioni di Josef Lada.

A questa breve lista vanno aggiunti, per lo meno, due libri di Paolo Monelli: Le Scarpe al sole, cronaca di gaie e di tristi avventure di alpini di muli e di vino del 1921, un intenso diario romanzato, a volte esasperato da un eccesso di toni dannunziani, dell’esperienza dell’autore come ufficiale degli alpini in prima linea, e  il testo qui presentato, pubblicato per la prima volta nel 1929. La breve introduzione dell’autore al primo testo citato restituisce bene l’intento dell’opera:

Nel gergo degli alpini mettere le scarpe al sole significa morire in combattimento. Veramente non di soli caduti è il discorso, in questa mia cronaca di guerra. Molti siamo tornati, abbiamo ripreso a camminare per le vie del mondo, già ascoltiamo il richiamo di altre lotte. Ma sono lotte nuove, per idee differenti : e noi pure siamo nuovi, rinati dalle rovine di un passato morto i cui solchi incancellabili restano in noi simili alle trincee abbandonate sulle creste dei monti ridivenuti soli. Quello che portammo di nostro alla guerra non lo riportammo indietro, più : fu veramente una vita che ci fu tolta come la pallottola la tolse ai mille compagni segnati di fiamme o di mostrine al colletto. La nostra giovinezza più ingenua e più prodiga ha messo anch’ essa le scarpe al sole, sulle ultime roccie riprese al nemico, gli ultimi giorni d’un tempo che due anni di distanza hanno favolosamente slontanato. Il manoscritto era compiuto da un pezzo: ma gli accorti editori me lo rifiutarono, or è già più di un anno, perchè era passato di moda; perchè pareva ormai cattivo gusto occuparsi ancora dei vivi e dei morti che ubbidirono ad un ordine di olocausto. Parrà ancora oggi così, che un rinato spirito giovane per le piazze e le campagne ricanta le canzoni della nostra vigilia e della nostra passione ? Sono certo che no. Ad ogni modo questo mio piccolo Volume non vuole essere diana di battaglia o barometro dei tempi nuovi. Ci deve essere ancora qualcuno, smarrito nel grigiore della vita borghese o eremita a qualche Valico alpino, che visse questi umili anni di guerra senza bagliori e senza gloria, e ne ha ancora il cuore grave di nostalgia. A lui offro questo mio libro, alla buona, come si offriva allora il viatico del vino e delle canzoni all’ospite improvviso delle nostre mense cordiali.

I punti in comune tra Le scarpe al soleLa guerra è bella ma è scomoda sono molti. La nostalgia per la vita cameratesca, la descrizione degli orrori della guerra, la struggente bellezza dei luoghi scenario degli scontri, le assurdità della burocrazia militare, le piccole furbizie, i trucchi e le strategie inventate giorno per giorno dai soldati per riuscire ad andare avanti, la demolizione della retorica militarista. Eppure, in La guerra è bella, forse complice la maggiore distanza dagli eventi, tutto è più asciutto e rarefatto, il tono, apparentemente maggiormente bonario, scanzonato. Di certo un ruolo principe in questa trasformazione lo ha avuto l’apporto del pittore e disegnatore Giuseppe Novello, forse più conosciuto per la sua attività di vignettista. L’ironia, non di rado feroce, che caratterizza questo testo proviene infatti, per quanto ottimamente supportata dalla prosa asciutta di Monelli, in gran parte dalle tavole del fumettista.Per una volta sono le parola a fungere da didascalia alle immagini, e non per modo di dire. Le tavole di Novelli raccolte in questo volume, infatti, erano già state pubblicate su L’Alpino, rivista dell’Associazione Nazionale Alpini. È lo stesso Monelli ad affermarlo, del resto:

[…] questo nostro quaderno, anzi di Novello più che mio, perché io non ho fatto che mettere di fronte alla tavole un commento pigro e ciondolone, quello che si potrebbe fare ad alta voce sfogliando i disegni, e anche se il lettore non lo legge fa lo stesso.

[Giuseppe Monelli, Prefazione alla sesta edizione, ristampata nel volume de Il Mulino]

Non sembra quindi azzardato parlare principalmente dei disegni in questo libro contenuti. Partiamo da una delle tavole più significative, quella che racconta la conquista del Monte Nero da parte degli Alpini nel 1915. Nel 1925, sotto il governo Mussolini, il Ministero della Pubblica Istruzione Fascista bandì un «concorso per quadri storici» allo scopo celebrare l’eroica impresa militare.

Tema del bando: «I prodi iniziano nella notte senza luna la faticosa ascesa; piedi nudi, perché le pesanti calzature alpine dai chiodi di acciaio farebbero crollare le pietre, si inerpicano inosservati, insospettati, come capre sulle rocce scoscese (l’ardimento sopisce le sofferenze delle carni maciullate dal sasso), e con l’aiuto delle corde attraversano i profondi crepacci».

L’intenzione del governo fascista di sfruttare il passato successo militare a scopi propagandistici è chiara. Cosa fa allora Novello, che con gli Alpini dalle parti del Monte ha combattuto e che della passata esperienza militare, almeno per quanto riguarda lo spirito di corpo, conserva un profondo e affettuoso ricordo? Stravolge la retorica del bando interpretandolo alla lettera.

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Ecco quindi gli alpini ritratti durante la scalata, in camicia di notte, le gambe pelose, le natiche esposte al vento, raffigurati addirittura sotto sembianza di capre belanti. Non si tratta, come potrebbe sembrare, di una facile burla. Tralasciando il fatto che questa tavola, così come altre, per composizione, ritmo, segno e scelta delle inquadrature, risulta ancora oggi freschissima, una presa di posizione così netta non poteva certo essere data per scontata in un’epoca in cui il governo fascista cercava di utilizzare il successo conseguito durante la Prima Guerra Mondiale allo scopo di consolidare il proprio consenso. Del resto, La guerra è bella ma è scomoda, per la sua natura di opera umoristica sulla prima guerra mondiale si pone quasi come un unicum – con l’eccellente eccezione del già citato romanzo di Hašek – nel panorama letterario dell’epoca.

Sono però altre, al di là del loro valore storico, le tavole di Novello che stupiscono per inventiva e originalità, specialmente se raffrontate alla produzione di altri autori italiani dell’epoca. Si guardi a quella riprodotta a pagina 29 e intitolata significativamente Un attacco visto in via gerarchica (un riproduzione si può ammirare qui). Quattro tavole orizzontali, dal sapore cinematografico, in cui lo stesso avvenimento, l’attacco del titolo, viene mostrato attraverso quattro diversi punti di vista. Se certo il disegnatore integra e rielabora influenze precedenti (ad esempio i libri a fumetti di Gustave Doré – e dei suoi più illustri epigoni, tra tutti Cham –, specialmente per come questi rende l’avvicinamento progressivo dello sguardo, grazie anche all’utilizzo di apparecchi ottici) la scelta delle inquadrature, con i corpi degli uccisi leggermente fuori quadro, i grandi spazi vuoti, come giganteschi sudari, lo sconfinamento dell’azione nel fuori campo, rivelano uno sguardo originale e creativo. Come non commuoversi e indignarsi ai silenzi e ai “bianchi” di Novello, che circondano figure umane ridotte a piccole cose, mentre tutt’intorno l’ipocrisia degli uomini di potere (p. 37) e  e di chi è rimasto a casa a pontificare sulla guerra dal proprio salotto fa tanta confusione, (p. 15 e p. 61) spreca tanto inchiostro, metaforicamente parlando e non? Le morti, in queste tavole, sono atroci solitudini. Si veda QUI la tavola intitolata Il silenzio.

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L’espressione più originale dell’arte di Novello in questo primo periodo della sua carriera si può però ritrovare nell’utilizzo creativo e sonoro del lettering. I personaggi ritratti in queste tavole parlano – e parlano spesso – ma non sono i soli. A “parlare” sono anche i colpi di arma da fuoco, gli oggetti e persino il sole (p. 33). Le parole e i suoni escono dalle bocche dei personaggi, seguendo esili fili, e ciò permette loro, senza la costrizione della cornice del balloon, di esibirsi in elastiche trasformazioni e metamorfosi. Si veda, ad esempio, a pag. 31 la tavola intitolata L’attacco in cui un gruppo di alpini addormentati viene svegliato di soprassalto a causa di una sortita del nemico. L’allarme arriva dalla bocca, forse, di un tenentino, e le lettere si inaspriscono sulla forma dei denti taglienti di una sega sia per sottolineare la perentorietà della notizia, sia per contrastare con il tenero corsivo proveniente dai militari addormentati, tutto un “frun-frun”, “crr-crr-crr”, “piii-piii-piii”. Ma neanche questo corsivo, un po’ da lezione di bella grafia, e che ricorda quello utilizzato da Vamba nelle sue illustrazioni (ma anche l’approccio “autografato” di Toppfer), è inerte. A p.30, in 30 gradi all’ombra ovvero il pacco del comitato civile d’assistenza si allunga a sottolineare il crescente entusiasmo di un soldato che, ricevuto un pacco urla “un pacco per me”, moltiplicando di vignetta in vignetta quella “e” che cattura via via un sempre più nutrito gruppo di commilitoni curiosi.

A pp. 56-57, in 305 in arrivo (dal punto di vista fumettistico uno dei passaggi più interessanti della raccolta) un colpo di obice spezza sia la conversazione di un gruppo di soldati sia il quadro-vignetta, attraversando la striscia in tutta la sua lunghezza. Il proiettile, per noi lettori come forse per i malcapitati, è invisibile, ma possiamo “sentirlo” in ogni fase del suo passaggio, dal bum dell’esplosione del colpo, al ‘fiiiiiiiii – o -o – o -o’ del passaggio radente dello stesso sopra le teste dei soldati, al ‘cran’ dell’impatto al suolo. Una striscia meta-fumettistica davvero notevole, in cui il passaggio non è solo ma principalmente un passaggio di tempo. Infine, in queste tavole di Novello, la scrittura si fa mimetica, come in Quattro cartoline in franchigia (p.37) dove la differente calligrafia rende perfettamente la differenza estrazione sociale e i differenti sentimenti di quattro uomini mandati alla guerra.

Non si può concludere questo breve excursus sulle tavole di Novello in La guerra è bella ma è scomoda senza citare i fumetti-canzone (su armonizzazioni di Dario Tomassini) che chiudono il volume, adattamenti grafico-musicali di alcune celebri canzoni, fra cui Come porti i capelli bella bionda. Maggiormente libero di dare sfogo al proprio estro umoristico e caricaturale Novello sperimenta soluzioni e gabbie diversissime fra loro, senza mai dimenticare giocosità e leggerezza.

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Dopo tante parole dedicate a Novello sarebbe ingiusto non tornare sul suo commentatore Paolo Monelli. Anche se lui stesso si definisce tale e chi scrive ha accolto questa definizione per potersi concentrarsi maggiormente sull’apparato grafico del libro, sarebbe ingiusto ridurre così il suo ruolo. Come già anticipato, la prosa di Monelli è fresca e soprattutto libera di alcuni arcaismi e preziosismi che avevano caratterizzato, almeno in parte, le sue precedenti opere. Qui invece l’autore, forse anche per il ruolo maggiormente defilato che ha deciso di ricoprire, sperimenta un lessico moderno che però non indulge mai alla sciatteria, frammista al gusto per la parlata dialettale. Le sue notazioni ampliano l’universo, spesso desolante e terribile delineato dalle tavole del collega e amico, ammorbidendone l’impatto con un calore umano il quale però non rinnega mai gli orrori vissuti, né li rimpiange. Quello che si concede al rimpianto, in questo libro, è solo la gioventù perduta sul fronte, i tanti amici scomparsi, il senso di fratellanza e l’orgoglio di aver fatto parte di un corpo, come quello degli Alpini, fatto di gente di montagna, rude e schietta, e che la retorica ufficiale e popolare ha spesso ridotto ora a indomiti eroi, ora ad allegri beoni canterini. L’umorismo, a differenza di altri registri più tragici e più seriosi, soprattutto di questo è capace. Di distruggere conservando, di rimpiangere soffrendo e di restituire una complessità che altre retoriche e altri -ismi sono per forza di cose costrette a semplificare. Anche quando le ferite, non solo del corpo, bruciano ancora, e i tanti morti e la tanta sofferenza hanno potuto più dei compagni, degli amici, delle risate, delle canzoni e delle bevute.

– Ma voialtri in guerra non facevate che tracannar fiaschi, o burlar la gente, o masticar cicche, o tirar ostie con licenza de’ superiori, o cantar a Serafina che venisse da basso, – chiede qualcuno che è stato guastato dalla lettura di libri di guerra, – e proprio proprio non vi succedeva altro?Anima semplice, certo che ci succedeva dell’altro. Ma sarebbe grave errore credere che per questo ci andasse via l’appetito. O Dio sì; bisogna dire subito, anche a rischio di comprometterci agli occhi dei futuri scrittori di storie e di epopee; i bravi alpini non sono mai andati all’assalto cantando. E nemmeno, oserei dire, a passo di danza (“parea che a danza e non a morte andasse ciascuno dei vostri…”) E bisogna confessare che nessun alpino è mai salito su una parete inaccessibile; perché se era inaccessibile, non c’era accesso nemmeno per lui. E non è vero che l’alpino Finimondo o chi per esso abbia mai sradicato dal suolo gli abeti, da stangarne poi l’odiato nemico.

[…]

No, la guerra è davvero scomoda, come vi abbiamo detto fin dalla copertina. Ma è difficile che il borghese si possa fare un’idea precisa di questa scomodità. Il borghese pensa sempre alla battaglia, e mai alla fame; parla di belle ferite nel baldo petto, e non del colèra.

Quando si è morti, non si scrive più. La cartolina resta bianca. Il furiere scrive sul giornale di contabilità, insieme a tanti altri: “Caporale Chiossetto Felice, morto addì 3 settembre 1917, sodisfatto d’ogni sua competenza,,.”

I compagni dicono: Povero Chiossetto. Ma la vita è così calda, quando si rientra dal combattimento, così buono è l’odor della terra calpestata, dell’aria bevuta a polmoni pieni, che non si pensa più tanto al compagno che è andato via in fretta per la via nera, dietro a tanti altri più frettolosi partiti prima. E’ morto e c’era da aspettarselo. Un di ‘sti giorni tocca a noi. Lontano, confuso fra i vapori del piano, è il dolce mondo dove non si muore e dove si è sicuri del domani; remotissimo, precluso da cancelli severi, da sbarre invalicabili su cui sta scritto: Alt! taglio capelli.

[Paolo Monelli, rispettivamente p.24, p. 25 p. 36]


Per approfondire

DISEGNI DAL FRONTE

VIGNETTE DI GIUSEPPE NOVELLO

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