Grazie al successo della serie tv prodotta dall’emittente Netflix, Matt Murdock e il suo alter ego stanno vivendo un periodo di rinnovata popolarità che ha aumentato la presenza di titoli dedicati in libreria, permettendo il recupero di materiale mai ristampato, di inediti e di opere di capitale importanza per la storia del fumetto supereroistico americano. Letture ideali per capire l’immaginario urbano a cui Frank Miller ha contribuito in prima persona, salvando Daredevil dal limbo in cui la Silver Age aveva gettato il personaggio e proiettandolo in una solida maturità che – nonostante qualche momentaneo barcollamento – gli ha permesso di sopravvivere per decadi, scoprendosi attualissimo anche per un nuovo pubblico.
L’editore Panini Comics, sfruttando quindi l’onda lunga della prima serie tv e la nascita di una nuova produzione seriale che riunirà personaggi come Jessica Jones, Luke Cage e Iron Fist in un micro universo dal sapore più noir e urban, recupera in sequenza il secondo volume del ciclo a firma Ann Nocenti e John Romita Jr. e quel The Man Without Fear che trova una nuova veste in un elegante ed economico volumetto cartonato, primo di una serie in cui verranno presentate altre storie fondamentali per la vita editoriale e narrativa del personaggio. Non è un caso che quest’ultima testata conservi il nome originale del personaggio: ormai il pubblico italiano è pronto – in parte – a chiamare Devil con il suo nome completo.
Matt Murdock e il Diavolo
Il recupero di un ciclo caratterizzante come quello della Nocenti permette ai lettori più giovani, che hanno conosciuto il Diavolo Rosso attraverso la lettura oscura e sofferta di Bendis e Maleev o quella più scanzonata e nostalgica di Waid e Samnee, di immergersi nel periodo in cui l’engagement politico ed esistenziale del personaggio si incrocia con una visione religiosa e sacrificale, che esplode in una dimensione quasi mistica e forse mai più toccata, se non da Kevin Smith. Una miscela “spregiudicata” quella della Nocenti, che da un lato frantuma la narrazione preferendo immergere il personaggio nella provincia americana, lontano da Hell’s Kitchen, portandolo così a contatto con tematiche profondamente umane e dall’altra conducendo una sottile ed esile trama che sottolinea i caratteri più estremi e schizofrenici di Matt Murdock.
Il primo volume, con la sequenza dedicata alla nascita di Typhoid Mary e un Matt Murdock che si aggira ai margini dell’aurea incandescente della febbre tifoidea, ci consegnava una Nocenti ancora acerba, soprattutto nella gestione dei dialoghi, appesantiti da un didascalismo di fondo. Nel secondo volume, la scrittrice, assieme a un Romita Jr. superbamente inchiostrato da Al Williamson, decide di focalizzarsi sul viaggio di espiazione di Matt, portando alla luce un elemento che diventerà di fondamentale importanza nella gestione di Bendis: la cecità di Matt Murdock non è solo fisica, ma soprattutto morale.
Conscia dei rischi insiti nei tie-in, dove per forza di cose bisogna inserire il personaggio entro orizzonti estranei, la Nocenti sfrutta l’evento mutante Inferno per incominciare a indagare la natura “divina” di Devil. Novello Sant’Antonio, Matt Murdock viene tentato da Mefisto e cede senza troppe lusinghe al fascino del male. Affiora in questa indagine etico-religiosa lo spettro di Dostoevskij. In un elzeviro apparso sulle pagine di Leggere, il filosofo Luigi Pareyson sintetizzava così:
La formula dostoevskiana del “santo peccatore” esprime perfettamente questa compresenza di bene e male nella stessa persona, tale che dall’opposizione estremizzata possa scaturire persino una sorprendente collaborazione. Il male lottando col bene può sorreggerlo nel proprio adempimento…La virulenza del male in lotta col bene può conferirgli quell’energia e veemenza di cui esso ha bisogno. Del resto si sa che la scuola del male è essenziale al bene, perché non è bene quello che non lotta col male. Senza la conoscenza del male il bene è senza nerbo, edulcorato oggetto di anime belle, incapace di vincere il male e trionfarne. […] i rapporti fra bene e male oltre che nella forma dell’antinomia possono configurarsi nella forma dell’ambiguità. Qui la compresenza non è più la tensione ed estremizzazione degli opposti inconciliabili, con la possibilità d’una loro vicinanza e facilità di passaggio dall’uno all’altro, ma trae spunto dall’indistinzione degli opposti per presentarli in stato di confusione e mescolanza, con la possibilità di mutui mascheramenti e facilità per ciascuno dei due termini di assumere l’aspetto dell’altro. Niente di più drammatico di quel misto di nette opposizioni e torbide mescolanze che configurano la vita d’un uomo come una vicenda di caduta e rinascita, morte e resurrezione, rivolta e obbedienza, peccato e redenzione, perdizione e salvezza.
Queste parole fanno venire in mente i personaggi estremi descritti nei grandi romanzi della maturità dall’autore russo: dal principe Stavroghin all’ateo puro Kirillov, dall’idiota Minskji passando per il profeta del nichilismo Ivan Karamazov. Ma, senza dubbio, la figura del santo peccatore, ideale protagonista del nucleo originario di quello che in seguito sarebbe diventato i Karamazov, si identifica totalmente con il più grande dei fratelli: il sanguigno Dmitrij, le cui gesta Dostoevskij racconta per 1200 lunghissime e fitte pagine. È lui il Santo Peccatore.
Matt Murdock, come Dmitrij, ama visceralmente, ma si fa trasportare dalle passioni più basse, facendo un uso sia psicologico che fisico della violenza, come in Golden Rut (Daredevil #268 del Luglio dell’89), forse una delle migliori storie del lotto in esame. Matt Murdock è un uomo stretto tra l’anelito della Giustizia e la sua perversione: la cieca volontà di correggere un mondo dove il male non dorme mai ed è celato e segreto, come insegna Mefisto al giovane figlio Cuore Nero.
Una delle scene più emblematiche vede Matt Murdock seduto in una stanza presa in affitto, in un silenzio che continua a parlare, Murdock dice: «Immagino che sia scortese origliare […] Ma mi piace giocare con i dettagli, è come scorrere i grani di un rosario o come il cubo di Rubik. Frasi insignificanti che tengono lontani i significati». Nella gabbia dorata dei suoi sensi iper-sviluppati, il Diavolo Rosso contempla – si fa per dire – il mondo come un pulviscolo luminescente di dettagli: può sapere tutto di quello che ha dinanzi. Può persino sondare il cuore della gente, comprendendo se menta o meno. Eppure, il risultato lo lascia ancora straniero a quel mondo: cieco.
Più che Devil, il centro nevralgico della scrittura della Nocenti è l’uomo che si cela dietro la maschera, costretto a intervenire se si trova davanti a un crimine, come se fosse programmato, ma capace anche di distogliere lo sguardo se non costretto. Una morale ambigua e auto-referenziale quella di Devil, slegata da qualsiasi principio etico certo. Un’estenuazione e insieme un elevamento al quadrato dell’idea di Stan Lee del super-uomo con super-problemi: qui i problemi sono di origine etica, investono l’eroe, lo fanno vacillare, lo allontanano dalla retta via, lo gettano tra le braccia del demonio, lo conducono a vagare tra due abissi e a caderci, venendo meno alla sua missione.
L’uomo senza paura: pro e contro
Quella raccolta dalla Nocenti è un’eredità che affonda le proprie radici nell’immaginario che Miller cucì sul personaggio, descrivendone i confini in maniera definitiva, tanto da condizionare nel bene e nel male qualsiasi interpretazione successiva. Non è un caso che nei primi anni Novanta Miller, stuzzicato dalla voglia di Romita Jr. di confrontarsi con il formato lungo, sentì il bisogno di tornare sul personaggio, recuperando una sceneggiatura cinematografica dedicata a Devil e trasformandola in una sorta di Year One, memore del successo della formula sperimentata con David Mazzucchelli su Batman.
Pubblicato originariamente come miniserie, nonostante l’intenzione originaria di farne un graphic novel, The Man Without Fear è la prova definitiva di John Romita Jr. sul personaggio, ma è anche l’opera che lo consacra definitivamente come uno dei disegnatori più apprezzati degli anni novanta, soprattutto dalla Marvel: Iron Man, The Uncanny X-Men, Cable, Punisher War Zone e, in particolar modo, Spider-Man. Nonostante, un segno anfibio, molto europeo, caratterizzato da anatomie granitiche ma dotate di un’incredibile leggerezza, John Romita Jr. ha riscosso un successo inaspettato, dovuto anche alla collaborazione con Frank Miller. Una storia quella di The Man Without Fear che segna un canone che pochi hanno cercato quasi criticamente di incrinare. Forse solo Loeb e Sale con il loro Daredevil: Yellow, rilettura meno drammatica e più leggera – molto sixty – delle origini del personaggio. Eppure, la produzione Netflix pesca a piene mane dalla lettura milleriana: non sarà difficile riconoscere brani e situazioni cannibalizzate dalla serie tv. Infatti, in TMWF Miller racconta la genesi e la formazione di Matt Murdock come vigilante nella sua New York: partendo dagli anni di Battling Jack Murdock sino all’incontro con Elektra, conducendo il nostro a diventare il “diavolo custode” della sua Hell’s Kitchen, aggiornandone così l’immaginario e legando la sua missione a quella altrettanto ambiziosa di Wilson Fisk, i.e. Kingpin.
È interessante notare come la retcon di Miller sia incastonato tra due momenti particolari della vita editoriale del personaggio e ciò incide inevitabilmente sugli sviluppi narrativi. In seguito alla defezione della Nocenti, la testata passa in mano a D.G. Chichester, che segna un periodo di interessante transizione, conducendo in maniera lucida il personaggio sino a chiudere il discorso intrapreso da Miller con Born Again. Insieme a Lee Weeks, descrive la caduta di Kingpin in una breve saga che si conclude con il numero 300 della serie: il risultato è lodevole e consegna ai lettori una lettura profonda del personaggio di Wilson Fisk, superando anche quella di Miller. Ma è la curvatura oscura e destinale che quest’ultimo introduce in TMWF che fa paradossalmente crollare il personaggio, spingendolo in cul de sac che Chichester non riesce a gestire in maniera intelligente, decretandone un periodo di lenta decadenza. Mi riferisco alla tanto vituperata saga Fall From Grace, serializzata tra l’agosto del 1993 e il febbraio del 1994 su Daredevil #319–325.
Tentato dalla potenzialità di Elektra, Stick e Stone, disegnando in maniera anacronista il fil rouge del ciclo ottantino di Miller, Chichester si lancia in un pasticciato arco narrativo in cui resuscita la ninja greca, fa man bassa di spunti presi dalla miniserie Elektra Assassin, cerca di rinnovare la vita del cornetto e “costringe” McDaniel, fin allora abbastanza anonimo, a disegnare come se fosse il Miller di Sin City. Lo stile di McDaniel è ancora acerbo e di difficile lettura, i colori di Chris Matthys cercano di sopperire, fallendo talvolta miseramente: il risultato è claustrofobico, ma per certi versi di forte impatto. Chichester sconvolge tutto e purtroppo solo l’arrivo di J.M.De Matteis mette ordine.
Tutto ciò ci induce a pensare criticamente alla miniserie di Miller e Romita Jr. Lo stesso Chichester in un’intervista rifletteva sul particolare momento storico, evidenzia l’atteggiamento schizofrenico dell’editore nei confronti del personaggio:
È importante capire l’atteggiamento dell’editore verso il personaggio in quel momento. Mentre ora sembra che ci sia una discreta attenzione nei confronti dei titoli correlati al marchio DD, la posizione dell’azienda verso Daredevil allora era estremamente disfunzionale. […] E se non fosse stato per Frank Miller (e il suo eccellente lavoro) non si sarebbero presi la briga di promuovere il titolo. Questo è risultato evidente nell’approccio della promozione nei confronti di un progetto come The Man Without Fear (cioè DD: Year One): “È il tempo di Miller”… a parte la dubbia legalità, legata ad un indiscutibile fallimento creativo, di rubare lo slogan a una fabbrica di birre per vendere un fumetto, in sostanza la Marvel stava dicendo: “Se Frank Miller non sta scrivendo questo libro, non vale la vostra attenzione”.
Eppure è lo stesso Chichester ad aver volutamente usato quanto più possibile delle intuizioni di Miller per rendere accattivante il titolo. Riportare in vita Elektra introducendola di fatto in una vita editoriale frastagliata nel contempo apriva la possibilità di snaturare il personaggio. Chi non ricorda la prima miniserie Roots of Evil dedicata all’eroina? Stesso team creativo, stessa pantomima. Infatti, se da un lato, TMWF è da considerarsi una storia necessaria per traghettare in maniera indolore il personaggio nel cuore dei tardi Novanta, potremmo vedere in esso i prodromi di una deriva nera del personaggio: una presenza sempre più stringente dell’idea di un destino ineluttabile nei ranghi della battaglia tra la Mano e la setta dei Casti, un venir meno della tensione e del simbolismo religioso, che invece era centrale in Born Again, e una caratterizzazione più piatta dei comprimari, tanto di Elektra quanto di Foggy Nelson. Bendis sceglierà una via di mezzo tra quella cinica e disincantata di Miller e quella invece esistenziale e sofferta della Nocenti.
A vent’anni di distanza, TMWF dimostra ancora di essere la migliore introduzione a Daredevil, ma palesa anche dei limiti. La ristampa della Nocenti permette così di osservare Matt Murdock da altri punti di vista, rispolverando elementi e tematiche di non trascurabile interesse e dal forte impatto sociale e filosofico. Pertanto, entrambe le ristampe, pur nella loro diversa destinazione d’uso, sono fondamentali letture per tutti coloro che vogliono tanto conoscere quanto approfondire un personaggio magnetico e sofisticato come Daredevil.