Il testo che segue è estratto dal saggio “Magnus: appunti per un ritratto dell’artista da giovane” di Luca Baldazzi e Fabio Gadducci, contenuto all’interno del volume Magnus prima di Magnus. Gli anni dell’apprendistato di un maestro del fumetto (Alessandro Editore).
“Artigiano scenografo”. Così si definirà Magnus, alla voce relativa alla professione, nel disegnare l’albero genealogico della sua famiglia. Al liceo artistico era stato allievo un po’ svogliato: tanto da salutare scherzosamente come una liberazione la fine degli studi, in una lettera disegnata inviata a un amico nell’estate del 1957. “Vedo fantastiche galoppate di cavaliere – scrive – e mi sembra di essere un Davy Crockett dominatore delle sconfinate estensioni del Nord America. Tutto questo perché non dovrò più studiare: 1) italiano; 2) storia; 3) matematica, fisica ecc…; 4) religione (che era una gran barba)”. Insofferente alle materie imposte dai professori, il diciottenne Raviola deve però già all’epoca essere lettore disordinato e onnivoro non solo di fumetti, curioso e dai molteplici interessi. Lo rivela anche in quella stessa lettera, lanciandosi in una gotica parodia della poesia Il corvo di Edgar Allan Poe.
Nella scenografia studiata in Accademia dovrà aver trovato una disciplina a lui particolarmente congeniale, nel suo essere arte “ibrida” e multiforme fatta di bozzettistica, disegno, pittura, architettura, studio della prospettiva, letteratura e narrativa… Tutti i saperi che confluiscono nella realizzazione della messa in scena teatrale lo trovano allievo e interprete attento. La scoperta del teatro apre nuove porte e nuovi mondi. E forse il futuro Magnus sente fin da allora, nella pratica della scenografia, un’affinità col tanto amato fumetto: per la sua dimensione, appunto, di progettualità artigiana che incrocia diversi linguaggi e conoscenze. Per dirla con le sue parole: “Non ho potuto fare il mestiere che mi piaceva (quello di scenografo, ndr)… però mi piaceva disegnare fumetti, quindi tutto bene” (Luigi Bona e Nessim Vaturi, “Magnus e Romanini”).
L’approccio “da scenografo”, del resto, ritorna con evidenza sempre maggiore nelle sue opere più mature a fumetti. Pochi autori sono così attenti come Magnus alla caratterizzazione dei personaggi, alla regia complessiva della tavola e all’esplorazione dello spazio all’interno di ogni singola vignetta. Nei lavori per Corno (Kriminal, Satanik e in parte Alan Ford) la scenografia è sacrificata alle esigenze della serialità e del successo popolare degli albi, che lo costringono a produrre un numero impressionante di tavole al mese con una “gabbia” fissa di due vignette per pagina: dominano i primi piani e le silhouette in controluce, non c’è tempo né spazio per l’ambientazione scenica e i dettagli. Ma da Lo Sconosciuto e I Briganti in poi, il ritmo rallenta e la formazione di scenografo riaffiora, per esplodere in opere come Le 110 pillole, Le femmine incantate e Lunario, fino all’ultimo Tex.
È nota la pratica di Magnus di concepire ogni vignetta come una scena e di preparare prima della realizzazione definitiva una quantità di studi e schizzi sull’ambientazione, sulle espressioni e posizioni dei protagonisti, sugli oggetti in campo, sulle prospettive e sulle possibili inquadrature: sketch, mappe, bozzetti, realizzati spesso su carta millimetrata per garantire il rigoroso rispetto delle proporzioni. “Di solito prima disegnava l’ambiente e gli sfondi, poi ci collocava i personaggi – ricorda Giovanni Romanini, il più stretto collaboratore di Magnus –. Metteva in ogni pagina una quantità di documentazione e di lavoro perfino esagerata, con onestà totale, con l’unica preoccupazione di rispettare il lettore e farlo immergere attraverso ogni più piccolo dettaglio nel mondo che lui aveva creato. Poi, dopo aver speso ore chino su una singola vignetta, alzava la testa e magari mi diceva: Giovanni, guarda che in fondo sono solo fumetti…”.
È naturale immaginare che questa attitudine al controllo registico totale, questo bisogno di pensare ogni vignetta in tre dimensioni, venga dagli studi di scenografia in Accademia. Negli anni in cui Raviola frequenta i corsi, titolare della cattedra bolognese è Antonio Natalini, affiancato da Vittorio Zagni per la scenotecnica e dall’assistente Ovidio Gardenghi. Natalini fa realizzare come esercitazione agli allievi scenografi dei veri e propri teatrini in miniatura, curati con grande precisione nella resa dei dettagli per rendere riconoscibili gli ambienti. I lavori migliori sono poi esposti in mostre, insieme a bozzetti e disegni di costumi, per far vedere alla cittadinanza il lavoro della scuola. Il Resto del Carlino del 24 giugno 1960 parla di un’esposizione nelle sale della stessa Accademia, e sottolinea “l’attualità” del lavoro di Natalini, “successore del compianto maestro Nino Bertocchi”, e dei suoi allievi.
Tra le scene realizzate ce ne sono diverse per testi classici, ma anche per opere contemporanee come Aspettando Godot di Samuel Beckett e Le sedie di Eugene Ionesco. Si annuncia la nascita di una scenografia “moderna”, che rifiuta “il vago pittoricismo dei bozzetti tradizionali, le architetture cervellotiche, i banali effetti di un verismo oleografico” e approfondisce invece “storia del costume, padronanza della prospettiva, conoscenza dei testi, formazione di un bagaglio di scenotecnica in continuo sviluppo”. Ciò che si persegue è “il rispetto, anzi lo stimolo insistente della capacità creativa” della quarantina di allievi del corso. La mostra sarà replicata nel marzo 1962 nel ridotto del Teatro Comunale, in occasione del dodicesimo Festival bolognese della prosa. Non è difficile vedere, in queste dichiarazioni di intenti, alcune linee guida che sicuramente Raviola ha assorbito e poi tradotto anche nella pratica del fumetto: esattezza, asciuttezza, tensione costante a una raffinata semplicità.
La scenografia proposta da Natalini era di tipo filologico, volta a restituire innanzitutto luoghi e paesaggi dove si svolge l’azione teatrale. Nei ricordi dei suoi allievi, “non istigava a seguire questa o quella strada. La filosofia era che la strada uno se la doveva trovare da solo… Nella stanza dei teatrini adiacente alle aule, luogo misterioso a cui si era ammessi dal professor Natalini, in certe rare occasioni si percepiva l’atmosfera, quella vera del teatro, della scenografia allestita e illuminata. Da quelle minuscole ribalte fuoriusciva qualcosa di straordinariamente magico” (testimonianze citate da Giovanna Cassese in “Mutamenti di scena. Dalla prospettiva alla scenografia e alla progettazione per lo spettacolo: un percorso tra allievi e maestri dell’Accademia di Belle Arti di Bologna”, in Figure del ’900, vol. 2: Oltre l’Accademia, Nuova Alfa, Bologna, 2001, pp. 405-425).
Magia in piccola scala, che nasce dall’attenzione nitida e minuziosa al dettaglio: qualcosa che somiglia molto ai mondi in miniatura evocati dalle vignette di Magnus. Commenta Enrico Manelli, artista e noto scenografo suo amico, prima studente e poi docente nella stessa Accademia di Belle Arti: “Dall’insegnamento di Natalini, Raviola può aver appreso il rigore nella composizione. E il confronto con i grandi maestri della scenografia bolognese che discendeva dai Galli-Bibiena, Ferdinando e Giuseppe, e poi dagli esempi di grande decorazione pittorica di Antonio Basoli. Da Gardenghi può aver preso soprattutto la spontaneità, l’economia e la potenza evocativa del segno: con pochi tratti di pennello era capace di restituire l’immagine di un paesaggio e creare bellissimi fondali. Una lezione che i suoi allievi non hanno dimenticato”.
Nella mostra del giugno 1960 Raviola espone tre teatrini: per La maschera della Morte rossa di Edgar Allan Poe, per una rappresentazione di Faust e per I morti senza tomba, opera del 1946 di Jean-Paul Sartre su un gruppo di partigiani torturati dai nazisti. Ritorna Poe e compare, nella scelta di testi e temi, un certo gusto del giovane autore per le atmosfere di segno gotico e fantastico medievaleggiante: suggestioni che certo nascono dalle sue letture e si ritrovano in tanti fumetti abbozzati in quel periodo. Ma anche suggestioni che si “respirano” nell’Accademia di Bologna, dove all’inizio degli anni Sessanta fa ancora scuola “un gusto neomedievalista tipico della messa in scena di un certo periodo goticizzante della scenografia accademica. Il gusto del revivalismo fa capo al Rubbiani e troverà in Augusto Casanova (1861 – 1948) uno degli esponenti di spicco” (Paola Bristot, “Magnus: storie e luoghi non comuni”, in Magnus pirata dell’immaginario, Black Velvet, Bologna, 2007, pp. 41-49).
Negli anni dell’Accademia lo studente Raviola frequenta anche gli ambienti della goliardia bolognese: in particolare la Balla dell’Oca, “capitanata” dall’amico Pier Paolo Cheli. Anche qui apprende e perfeziona il gusto per lo humour giullaresco e per il pastiche linguistico tardo-medievale che caratterizzeranno opere come La Compagnia della Forca. Ed è tra i goliardi che nasce il nome d’arte con cui sarà famoso. “Viene da uno scherzo, quando ero studente e firmavo i miei disegni Magnus Pictor. Poi non ho fatto il pittore, ed è rimasto solo Magnus” (A. Battaglia, M. Torreggiani, D. Pettazzoni, “Intervista a Magnus”, cit. Il primo fumetto firmato “Magnus” dall’autore sarà l’albo n. 38 di Kriminal del 17 marzo 1966, dal titolo “Il becchino è il mio mestiere”).
In qualità di “summo pictore” Raviola disegna un gran numero di volantini, tessere, pseudo codici miniati e locandine per le feste. E affresca le pareti della Buca delle Campane, l’osteria bolognese eletta a luogo di ritrovo dagli studenti della Balla dell’Oca. Guadagnandosi un articolo su Il Resto del Carlino, che sottolinea (30 marzo 1961) come “nel locale le discussioni letterarie e artistiche, pur non mancando, non sono sempre all’ordine del giorno, mentre le carte (come passatempo) e il vino non mancano mai”.
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